Giovanni Rallo Mariano Orru'
LA SPADA DI OLEANDRO Giovanni Rallo Mariano Orru'
Storia vera di un percorso di vita alquanto distorto
L’aroma della menta selvatica sbatte sui vetri dell’abitacolo, come i passeri in gabbia della mia infanzia. Se prima del viaggio ho strofinato le dita sulle sue foglie è per sommare la verde fragranza della sua resina agli umori della mia pelle ancora umida di doccia: il sole cocente di oggi ne brucerà presto presto il nervoso vigore ma l’intensità della sua aspra voce selvatica non mi lascerà per tutto il giorno, come quando, mescolandosi ad altri pochi odori, mi insegnava la distanza dalla sera. Non sarò solo, no, il suo canto amaro di assolati languori parlerà al tumulto del mio cuore. “Non sono meno solo di te”, dico, e la mia voce mi sorprende mentre sorpasso un bus che mi butta per secondi in un’ombra che temo.Il borbottìo obbediente del motore mi riporta alla striscia d’asfalto filante che, per me, si fermerà alla misura del mio malanno che non conosce rimedio. So già cosa mi diranno. Lo so da qualche anno: la vita m’è finita a mezzo cammino, ora non so più cos’è.“Dimmelo tu cos’è, lo sai tu?”, domando alla mia compagna che sul cruscotto tace e langue. La mente m’è piena, però, di sue parole mai dette, attraverso le nari viaggio lontano, laddove nessuno può seguirmi più, né alcuno mi seguiva, allora.Quante volte ho cercato parole che mi consegnassero la verità di quel canto odoroso – come di lenta tristezza, lo so - , volevo scavarmene i precisi contorni nella carne perché nemmeno la più cruda delle sorti potesse separarmene mai. Ma non possedevo parole, né sufficiente amore, né mani che sapessero carezze. Nemmeno pane, a volte.Ora, qui al chiuso, mentre corro ad una sentenza, posso – ho letto quanto i miei occhi l’hanno potuto - filtrare parole somiglianti a quella grandezza…. nostalgia d’impossibili risposte, sospiro d’aspra solitudine silvestre nell’immobile incanto del sole, tenace volontà di ginestra….. e richiamo potente all’unione nell'odorosa sinfonia: i diritti oleandri, ricordo, le timide tamerici, il generoso fieno d’acqua accorrevano alla non resistibile chiamata, e le fragranze si allacciavano in una danza invisibile di cui la mia piccola esistenza totalmente s’intrideva. Era risposta potente, allora, salvifica; non basta, ora.E piango, ancora e ancora, e il dolore alla testa infuria come onda di marea improvvisa, mi sommerge un passato nel quale vivo tuttavia. Lascio che lo faccia. Mi arrampico fino ai cinquecento e passa metri di Santu Lussurgiu in un orgoglioso verdeggiare di umidi castagneti a distesa. E’ il Muntiferru, uno dei cuori selvaggi di questa mia terra brusca e tormentata. La corona di cime che sorveglia il mio andare – cauto, per via di fiori che non voglio strapazzare – mi racconta d’atavici magmi furenti ora placati per qualche arcana volontà d’ordine maggiore. Riposano in basso i rugginosi tetti, come cuccioli abbracciati a riparo da un freddo. Il sole, non ancora alto sull’orizzonte nascosto, mi ferisce gli occhi e l’anima di più. Sto arrivando, da venditore di piazza, in un luogo da cui per lungo dolore mi son dovuto strappare, è più di vent’anni. E’ un venerdì – giorno di mercato quassù – della tarda estate d’anni fa. Ma lavorare posso ancora. “Ma è vero quello che m‘hanno detto, lei ha fatto due anni dai salesiani, qui al collegio, con don Gianni? E’ mio fratello sa?”…. rivedo il largo viso d’una donna, non giovane né vecchia ancora, aperto ad una sguaiata sorpresa…La fatica che dalle prime ore dell’alba s’era andata sommando a quella presente aveva reso ancora più lancinante il procedere, dopo un tempo che non aveva potuto curare, sulla via d’accesso al paese, laddove campeggiava, come timbro solenne, lo scuro portone che per quel tanto di tempo aveva ingoiato ogni mio destino, risputandomi fuori come, in gran parte, sono. Faccio cenno di sì, stordito, carico d'improvviso di anni come piombi.“Allora glielo dico, sa?, gli dico che un suo alunno ha ora un banco di fiori al mercato, e verrà di sicuro a trovarla… sarà contento…parlerete di quei tempi….”Come penso accada quando il cuore si rivolta alla mente e tuttavia emetter suono si debba, parlo con voce non mia: “Signora, mi spiace per lei, ma non dica niente a suo fratello – il vociare della piazza affollata fa che il tono s’accenda – perché se mi capita davanti uno di loro lo ammazzo, lo inchiodo a quel muro, signora, com’è vero Dio e com’è vero che finirò in galera, non gli dica niente….”Improvviso un silenzio, dentro di me e fuori, nella piccola piazza fra un muro di chiesa e uno di scuola… per una frazione d’eternità pare calare la magia delle immobilità di marmo poi, più sommessamente, tutto riprende, la donna scompare in un’aria di sdegnato sbigottimento, e ricordare devo.Don Gianni, già, e gli altri…“Mi scusi, ma ha mai preso colpi violenti in viso?”, domanda un medico che, a motivo di mie vertigini e dolori al capo, mi esamina, una delle tante volte. “Sì”, recito monotono, “un manrovescio a piena forza, avevo nemmeno dieci anni…”“Ringrazi chi è stato, allora, con quel colpo le ha sfasciato l’apparato vestibolare, niente da fare, mi spiace….”Non glielo dico che quel "chi è stato" era un prete ma, ancora, la mente s’apre a vertiginosi ricordi, le pareti interne del mio cranio, come antiche caverne abitate, ne portano incancellabile effigie. Gli echi, perfino, vi risuonano vividi come allora. Il refettorio è un grande salone dal sapore antico, anzi vecchio, le spesse pareti color avorio s’aprono a finestroni in legno scuro che, dall’interno, vogliono rimandare al desolato ordine esterno, di arida graticola di luce. Piccole finestre più in alto, in regolare allineamento con le altre, si sforzano d’aggiungere una qualche grazia luminosa che la freddezza del posto spoglia d’amore, e ancora me ne duole il petto; lunghe file di tavoli, poi, perfettamente apparecchiati con vecchie posate, si proiettano da una parete all’altra in quattro file ordinatamente parallele. In mezzo, in rigorosa prosecuzione della porta d’ingresso, un corridoio più largo, dal pavimento a mattonelle bianche e nere a rammentare un rigido intreccio di canestro. Ai muri, bandiere, croci e stinti ritratti per dire che la natura del potere solo in apparenza muta. Quel potere che intensi viaggi in Sud America e lunghe notti sulle molte pagine a lui invise mi hanno insegnato ad odiare in ogni sua forma. In fondo al corridoio uno dei preti siede a turno su uno scranno a severa sorveglianza, non è facile essere bambini, felici di un cibo dato con durezza. * Quello è sovente il momento per le comunicazioni: allora, ad un tintinnìo di campanella - uno soltanto -, il silenzio deve calare totale ed immediato. L’ultima voce si candida a schiaffi. E si procede invariabilmente così: il vociante oltre il comando, come per presagio d'anima dannata che corra al suo destino, s’avvicina allo scranno e, mani dietro la schiena, accoglie la sonora punizione. Son schiaffi, sempre; se più o meno, dipende dall’umore e da sconsiderate mosse a difesa; se forti o atterranti, dalla carica di violenza repressa del giudice di turno. [così alle cinque ore di studio dopo il tempo della scuola.]Tocca tante volte pure al bambino che ancora m'ostinavo ad essere, e ogni volta il bruciore dell’umiliazione e dei colpi mi forzava ad avvertire che una rabbia ancora più grande scaraventava quelle mani irose contro i nostri visi inermi…. Don Gianni, lui, doveva avere nemmeno trent’anni e la lunga tonaca nera non ne santificava gli istinti, cani, piuttosto, aizzati.. Picchiava cattivo, metodico, sprezzante… Aveva ben piantato nel cuore che a piegare le menti serve l’umiliazione dei corpi. S'è in fila per certi esercizi del corpo che richiedono un nostro schierarci in preciso ordine nel cortile interno del collegio, sotto il muro di contenimento del campo superiore; il comando del silenzio è ormai calato, ma una piccola voce tardiva ancora risuona: ogni respiro pare sospeso, è quella dell'esterno che una severissima disposizione di imperscrutabile ordine vuole sempre al mio fianco. Nemmeno la libertà leggera di cambiare compagno di fila abbiamo. Giovanni Maria si chiama, diligente più di altri, taciturno oltre il segno, quieto obbediente, ed esterno: può essere indicato a modello e propaganda di perfetto frutto dell'istruzione che nel collegio viene impartita e, poi, due genitori badano al suo destino. Non lui ha da esser punito, la fila di facce in attesa lo sa."Tu, vieni qua....!", il vacillare delle mie ginocchia è tutt'uno con l'inutile protesta d'innocenza e con la tentata obliquità, come a fuga, del passo."Vieni subito qua!", s'urla con furia crescente per il mio inaudito mancare a una pronta sottomissione. Tace l'esterno, nessuno mai ha avuto l'animo di correggere la traiettoria dei colpi, ne avrebbe solo moltiplicato i bersagli. Non posso scordare, fintanto che ho potuto guardarlo, il vampante rossore di furibonda esaltazione che aveva come imbevuto il pallore della chiara carnagione di don Gianni; la sua non elevata statura e l'incipiente pinguedine ne facevano una figura massiccia e rozza alquanto, ma liberava tuttavia forza e agilità bastanti a colpire a due mani ovunque capitasse, con dura volontà di procurare non importa quanto dolore o danno; cado a terra rannicchiandomi per i calci che cominciano a colpirmi con forza cieca in ogni parte, non capisco cosa con voce rotta dall'ira urli nel frattempo ma so, ora, che quello che sta massacrando non sono io ma il nucleo stesso della sua vita. Per questo freddamente gli perdono, ma freddamente ogni colpo gli restituirei. Col dovuto sovrapprezzo salato di certi prestiti imposti. Piansi per il resto della mattinata nell'angolo in cui venni spedito, dolorante, umiliato una volta ancora e di più, confuso. Disperato: dovevo constatare ancora una volta, con l'acerba ma perfetta amarezza di quei miei primi dieci anni, come l'infelicità - giorno per giorno la vedevo disegnarsi nitida come trama coi fili sconnessi della mia vita - fosse il prezzo corrente del non conoscere amore di madre, ridotto nello stinto rimembrare a quel suo lasciarsi toccare il morbido petto, prima del sonno. Tre anni e mezzo avevo, altro non conservo nello scrigno vuoto della prima infanzia, se non copie deformi di altrui memorie. L'angolo in cui sto consumando ogni speranza, mi sovviene, è corrispondente ad un corridoio d'entrata laterale, accessibile a vetture e carri, un'officina di fabbro vi s'apre, un altro dei tanti del posto che lavora per il collegio, la chiesa dall'altro lato: ci è stato subito proibito anche solo di avvicinarci a quell'uscita, e nessuno di noi - tranne uno - mai ha trasgredito quell'ordine. Che, come ogni altro, veniva scandito una sola volta nell'aria, poi inciso sul corpo. Non numeri ma lividi il testo, non calci di fucile ma lunga frusta in sottile castagno lo stilo. Un giorno Soddu sparì. Odioso con me per certe sfuriate improvvise e senza causa a me nota che gli facevano scaricare sulle mie spalle gragniuole di pugni cattivi, ridevano gli altri, e un giorno sparì. Non fu visto alla preghiera della sera, al risveglio del mattino, non a scuola né a pranzo. Per giorni. Poi chiedemmo, prudenti... venimmo di mala grazia informati che la cosa non doveva riguardarci e dovemmo smettere. "E' Soddu, guardate, è Soddu!", grida uno di noi qualche giorno più avanti indicando una finestra al piano più alto, durante la ricreazione in cortile. Guardiamo e lui si sta sbracciando in un muto saluto attraverso un vetro ben chiuso, ci indica con gesti insistenti il suo viso. Ma non possiamo distinguere fin lassù e la mezz'ora di ricreazione vola via fra stupore, dubbi e oscuri timori, come ogni cosa a questo mondo. Non molto tempo dopo il preparato ritorno, Soddu ricompare all'ora di pranzo, in refettorio: il suo viso è attraversato longitudinalmente, dalla fronte alla punta del mento, da una cicatrice bianca di nuova pelle. Gli siamo attorno curiosi e sgomenti, vogliamo sapere ma temiamo di chiedere, spesso succede. Era accaduto che poco prima della sua scomparsa, avendo meritato una qualche severa punizione, all'apparire della frusta s'era buttato a una fuga ma il colpo era ormai partito e il lungo flessibile braccio gli aveva avviluppato la testa incidendola con unico tratto lungo la linea bianca che noi potevamo vedere, la pelle della sua faccia era stata divisa in due da un profondo solco color porpora. Parti del collegio a noi sconosciute l'avevano subito ingoiato, nascosto e poi, risanato, restituito alla vita di sempre. Come nulla fosse. Per tutto il tempo in cui rimase al collegio quel netto confine fra regioni contigue della stessa pelle fu ben visibile, come monito e come rattenuto impulso a impossibili ribellioni. Non conveniva, in quel tempo, ribellarsi all'Istituto Salesiano Carta Meloni di Santu Lussurgiu. Mi ci trovavo perché l’ENAOLI (1), esauriti i posti a sua diretta gestione, aveva stipulato accordo con altre istituzioni: per gli orfani in eccedenza s’appoggiava ad altre carità. Con poca dotazione e molta fretta fui portato in quel borgo dalle mille fontane, arroccato fra querce, castagni e sugheri, clima da montagna, aria da collina, grato molto all’economia del collegio. La neve non mancò mai nei due inverni della mia pena, e un freddo con fame speciale mi mordeva le carni senza che altra stoffa potesse soccorrermi a riparo se non, forse, chiedendo. E non chiedevo. Lo strappo non visibile ai pantaloni poteva passare; per le scarpe era altra questione: aperte a bocca di coccodrillo, irreparabili, mancavano del costoso ricambio. Impossibile giocare a pallone, correre come gli altri durante le uscite per le strette vie del paese, a strappare ciliegie proibite da rami pendenti oltre i muri di interni giardini. Grazie all'aiuto di esterni potei procurarmi un piccolo tubo del collante adatto e ogni sera, applicatone un poco sui labbri aperti delle due scarpe, le infilavo sotto i piedi della rete metallica del letto, a mo' di pressa. La notte era sufficiente a rendermele, al mattino, capaci di superare la piccola parte di giornata fatta di corse, giochi e calci. A sera, le mie scarpe erano di nuovo aperte, come quelle del consigliere, omone timido ed schivo, mani grandi e capo sovente chino su libri. Mai picchiati, lui. Il dolore alla testa s'impenna e m’impedisce la guida. Mi fermo ad una piazzola….“Don Gianni si occupa della vendita di macchine, ora…” mi dice un compagno ritrovato fra i banchi del mercato, “e di assicurazioni”: non serve più la tonaca per questo, e le menti si piegano in così tanti modi… “Anche don Lai è morto, sai, fra grandi sofferenze, non so di che male…”. Efisio, ora guardia civica presso la locale amministrazione e addetto alla sorveglianza del mercato, era, a quel tempo, un esterno, aspettato a casa dopo scuola. Ho imparato presto a riconoscere gli esterni da quelli come me: erano esenti da colpi, come gli interni ma paganti - pochi, rispetto a noialtri - e avevano scarpe e roba da freddo. Mai visto picchiare un estermo o un pagante. “Che t’è preso prima, con la sorella di don Gianni?”, l’hanno chiamato per questo, lui, la guardia, mi dice.“Che ne sai tu”, e gli occhi piantati lontano dicono di più, “che ne puoi sapere, non c’eri oltre la scuola…..”Non me l’aspetto, mi prende dolce per un braccio, come a scuotermi da quanto vedevo scorrere sullo schermo di nubi lontane, al di là dell'umido velo. "Certo che so...", sussurra e mi cerca negli occhi, "ricordi Salvatore, quello che scappava appena poteva e che riempivano di colpi ogni volta?". "Sempre noi due eravamo a vincere la guerra dei boschi", dico e mi pare ieri, "anche lui creatura delle selve di casa sua... Lo ricordo, eccome, lesto come gatto selvatico in caccia....", torno in me, voglio sapere."Un giorno, stavo per tornarmene a casa, mi dà un biglietto, gli avevo chiesto se non stava bene lì, perché scappava sempre sapendo cosa gli sarebbe toccato... Tieni, leggi....".Da tasca interna estrae una carta spessa, grezza, a righe antiche, piegata precisa in quattro. Piano, con cura, come reliquia, la dispiega, l'affida al tremore della mia mano. "Riconosci la scrittura, no? Leggi", ripete con un soffio del cuore che aggancia il ritmo del mio:"Mattina: sveglia alle 7 circa, in silenzio tombale pulizia denti e faccia con l'acqua fredda che ti spacca il cervello; tutti in fila, ordine di partenza (sempre lo stesso, se ti azzardi a cambiare posto sono botte), si scende in mensa, sempre inquadrati e non ognuno per fatti suoi, dentro la mensa preghiera e finalmente seduti e possibilità di parlare: mezz'ora, poi silenzio, uscita dalla mensa in fila, poi in ordine sparso ognuno nella propria classe. Preghiera prima di iniziare le lezioni. Ogni tanto partono certi sonori schiaffoni a qualcuno che anche senza volerlo si distrae un attimo. Dopo la scuola a posto nello studio tutti i libri, in fila in silenzio in mensa, preghiera, campanella..... possibilità di parlare. Finito il pranzo preghiera e via ricreazione per circa un’ora e mezza. Si gioca a calcio, pallavolo, si ozia in qualche angolo nascosto e i più coraggiosi fumano. Campanella, tutti in fila in studio per 5 ore con un intervallo di 15 minuti per panino e marmellata. In studio silenzio tombale. Sempre tutto sotto costante sorveglianza. Se qualcuno chiede di andare in bagno e tarda quel poco... quarto grado con rischio di ceffoni belli e sonanti. Finite le ore di studio, mezz’ora ricreazione, si gioca nelle sale a ping pong, biliardino, dama.... o si chiacchiera, ma sempre a vista del bagarozzo di turno. Silenzio, fila a cena, preghiera, campanella, libertà di parola. Finito, preghiera e via di nuovo mezz'ora di ricreazione. Campanella, disposizione in tre file nell'androne principale e al centro il Consigliere che la sera dirige la preghiera e dà qualche annuncio o raccomandazione in generale. Sempre in fila e silenzio tombale ..... via a letto, pulizia denti piedi.....finalmente soli nel nostro solo ed unico intimo spazio.... quello delle coperte, perché trattasi di grande camerone – mai visto tu, nevvero?, io non so nemmeno cosa vi vede dalle finestre: proibito rompere le righe - con i letti quasi attaccati l'uno all'altro. Chi faceva pipì a letto dormiva nel corridoio, e la mattina doveva sollevare il materasso e metterlo a vista di tutti...... alla berlina. Il prete bagarozzo di turno ha il suo letto con un separé. Ogni tanto a primavera ci fanno fare una passeggiata nei boschi il sabato pomeriggio – tu a casa coi tuoi, beato te - doccia al rientro con bagarozzo che dà i tempi dell'acqua che ci spetta. In molti si esce ancora con il sapone addosso, talmente è poco quel tempo, sia mai ci lascino il tempo di vederci nudi e tentare atti impuri. Molti, sempre agli ultimi, o schiaffi o frustate con apposito legno di castagno adattato a frustino. Ricreazione, confessarsi è d'obbligo. La domenica idem con meno ore di studio, 2 ore e mezza, e la messa che ti permette di vedere gente civile del paese e qualche ragazzetta che occupa a volte le nostre fantasie sotto le coperte (chiedi a don Lai, se hai il coraggio). Questa la giornata tipo, inutile dire che il mangiare fa schifo, è d'obbligo comunque consumarlo tutto. Raramente non si vedono schiaffoni volare per futili ragioni, quando non sono calci e anche pugni come con Salis che ha trovato il coraggio di rivoltarsi.... anche se le prende peggio degli altri è considerato uno con le palle. Poi ci sono fuggitivi, ogni tanto qualcuno tenta di scapparsene – sai quante volte io… - ma si viene riacchiappati quasi subito, sanno da che parte vai. Io non resisto ma mi stanno ammazzando a forza di botte, meglio… Qualche volta ci si picchia tra di noi, la disperazione è tanta, ma non è conveniente perché se ti va male le prendi due volte…sempre di più dal bagarozzo. Io voglio solo andare via di qua, tornare ai miei campi e scapperò ancora…Lo capisci, ora, come ci sto qua?" Restituisco, gli dico "non potevi sapere del nostro incontro, è parte del tuo essere questo segreto, come del mio". E si fa pioggia il nostro velo. "Chiedere cosa a don Lai? Ne sai niente tu?", tira su di naso e domanda."So quello che mi fu detto un giorno, in cortile, tra risatine e toccate di gomito, che molti sapevano e non dicevano. .....Già, Salvatore...Salvatore, lo ricordo bene, consuonano le nostre selvatichezze, più aspra la sua. Il suo paese, Abbasanta, non dista più di venti chilometri, ma per lui è in capo all'universo, a quel suo universo fatto di natura selvaggia, la sua intera fibra ne è costituita, il suo corpo, come cervo solitario, ha forma sinuosa di bosco, come poiana dal giovane occhio aguzzo, il suo spirito scorre pianure costoni montagne, alïante conoscitore di pascoli e venti. Lo scorgo sugli ultimi spalti del campetto di calcio, immobile, artigliato alla rete che dovrebbe trattenere palloni e trattiene anche sogni, guarda case del suo paese che da lassù sembrano lasciarsi toccare, usa parole come lacrime, ma nemmeno lacrime, getti di vita, piuttosto, impulsi di gemme di marzo, nidi dischiusi nel folto di querce. Voglio rammentarmene a parte, glielo debbo, il suo destino oscuro glielo deve: che fine abbia fatto non chiedo, l'amico non dice, ma so a chi domandare. La piazzola è alle spalle, metà del viaggio anche, non so se dell'altro andare altrettanto mi resta. Non è cosa che m'importi, d'altronde, da quando giorni or sono, di ritorno da Abbasanta, sento che scampoli d'esistenza profonda possono valere quanto vite intere gettate al vento d'un vacuo sussistere. L'idea mi s'affaccia improvvisa, nel chiarore abbacinante delle poche verità che davvero attingano al cuore delle cose, e quel chiarore si tinge subito d'un azzurro saggio che potrebbe, a tratti, virare al tumido verde dei muschi di fiume delle mie estati, ma non lo fa e preferisce piuttosto addensarsi nella tonalità del blu intenso di acque tranquille, misteriose perché profonde. E' il colore degli occhi di Salvatore a tingere i miei pensieri, da giorni e giorni. Un comune conoscente - Pietro, collega dell'antico mio mestiere - mi dice come posso dirgli del mio desiderio e lui mi sta aspettando. Semplicemente così: lo contatto, si ricorda di me e mi sta aspettando. Alla stazione, l'appuntamento è lì.E' un ottobre che vuol sapere ancora d'estate, il cielo netto di nubi, un sole a picco, l'aria immobile e calda dominano un panorama di campi secchi e riarsi, da un lato e dall'altro della strada, fin sui colli più lontani. E' il Campidano, che verdeggia e rivive solo con la benedizione delle capricciose piogge d'autunno, che cede all'avvampare dei fuochi al loro cessare. I più di cento chilometri che devo percorrere sono gli stessi che ho macinato per anni, avanti e indietro, da un mercato all'altro, da un fornitore all'altro, da una fatica immane ad un'altra mentre la malattia già s'affacciava prudente ma decisa a minarmi le forze, e andava in frantumi la mia famiglia. Supero Oristano e comincio la lenta salita verso il Montiferru, il secco della pianura cede via via al verdeggiare di declivi boscosi, a pascoli intatti, a una nuova umidità dell'aria, vieppiù palpabile, come l'ansia crescente che mi attanaglia le viscere.In vista del muro di altopiani che con maestoso sussiego distinguono pianura da montagna, quasi una patria dall'altra nella mentalità del posto, una vaga foschia m'invischia le cime e i dorsi delle lontane catene, proprio là dove giacciono sonnolenti, come farfalle torpide prima di librarsi nel breve volo dell'estate, i luoghi di quel mio passato: Abbasanta, Santu Lussurgiu, Ghilarza, Bonarcado, Paulilatino, Milis.....Ne immagino con la vivezza del sogno recente il molle aggiustarsi agli scoscesi capricci delle rughe vulcaniche dei monti; echi di parole, frasi, voci d'improvviso ricordate, suoni, litigi, racconti, accenti indistinti di mercato m'urtano i timpani, m'alzo con lento volo di falco a rivedere angoli, piazze, visi, usati percorsi, facciate di chiese, scuole, municipi, il collegio... il collegio e fuggo.... M'aggrappo al volante, la foschia fa da quinta a quella mia vita, e non s'apre, ma le stagioni che dicono morte sono più vive che mai in me, e temo anche il naufragio di quella mia corsa ad incontrare gli occhi di Salvatore e me stesso, attraverso loro. Devo fermarmi, amici m'accompagnano e avvertono, e chiedono. Niente, dico, niente, sono stanco, ecco tutto. Stanco, sì, ma di altra fatica.S'arriva presto allo svincolo che dalla Statale 131 porta ad Abbasanta e quasi subito in vista della stazione, il cielo è ora percorso da lunghi nuvoloni merlettati di scure minacce, ancora umide della guazza notturna le strade, le pietre nere di lava di cui molte delle case son fatte, i tetti di rosse tegole a vivido contrasto col piombo dei muri. Cupi l'atmosfera e il deserto domenicale del piccolo paese, cupo il mio umore alla vista della sua vecchia stazione. Quasi come quarant'anni fa - poco è cambiato - quando al ritorno dopo l'estate, sceso per sbaglio ad Abbasanta anziché ad Oristano e già partita la corriera delle otto per Santu Lussurgiu, pensai di tornare al collegio a piedi - parevano così vicini i due paesi quando Salvatore mi mostrava i luoghi del suo ovile, della sua libertà -, con due valigie e neanche un soldo. Ci volle tutto un giorno per lasciarmi alle spalle i venti km della vera distanza, nessuna vettura prese a bordo il bambino di 11 anni con le valigie, solo un carretto tirato da un asino gli diede un passaggio fino alla vicina frazione di S. Agostino e il contadino non poteva credere alla sua mèta, troppo lontano, impossibile con quelle valigie, sei matto, diceva... Eppure, stremato, arrivai, ed ebbe inizio il secondo anno del mio tormento.Intanto, girato intorno alla stazione e attraversati i binari, siamo al piazzale. Vuoto, come le strade intorno, l'irreale silenzio amplifica l'onda del mio tremore, l'aria già frizzante punge i visi, gli sguardi girati intorno a cercare un uomo.E lui è lì.Riconosco subito il suo agile passo ondeggiante; cammina, quasi corre, elastico, nervoso, lungo un marciapiede solitario, in irrequieta attesa. Ci fermiamo, scendo e lui ha già capito. Ci abbracciamo in silenzio per un tempo bastante ad accordare i ritmi pulsanti delle nostre vene: rapidi, tumultuanti, in sconnesso disaccordo dapprima, all'unisono, calanti, frementi di consolazione poi. Mi guarda e lo guardo, i suoi occhi azzurri sono gli stessi di allora, densi dell'innocenza dell'aria, addomesticati appena dall'indicibile pena che ora conosco. Freme, piccolo com'è, contro il mio petto."Quarant'anni", dico subito, "è quarant'anni che ti vedo su quegli spalti in collegio, quasi a voler spiccare un volo disperato, invece scappavi sempre e sempre ti riacchiappavano... sei mai riuscito ad arrivare? non ricordo....""Dopo, dopo parliamo, mi dirai anche di te, Pietro m'ha detto che bene non stai..." e pare ansioso d'altro, saluta con rapida profonda cortesia gli amici, "ora voglio farvi conoscere la donna più bella del mondo, andiamo a casa...".Due stanze, bagno, pareti colorate a riempire vuoti, l'ordine minuzioso di chi offre la propria ospitalità come dono prezioso in cambio d'una compagnia non sperata. La solitudine rende spesso lucida le menti e agri i cuori, ma quelli grandi non vi rinunciano mai del tutto perché unicamente in solitudine è dato allevare le timide verità che il clamore confonde e distorce, come a malapena riflettono un colore di cielo le superfici di acque turbate da venti traversi.Ci apre dall'interno, lui è entrato dal balcone affacciato su un suo giardinetto piantato a vite e ulivi: faccio prima, dice a chi non chiede, entro ed esco da lì, sempre. Perdonate il ritardo nell'aprire, si scusa. Non mi stupisco affatto, nemmeno il fuggitivo del mio ricordo - lui, che reti e muri non potevano tenere - avrebbe tollerato la banalità dell'ingresso. Né quella della guida: Salvatore non ha patente, non sa che farsene, i suoi agili 53 anni se li porta in ogni dove su rosse scarpette da ginnastica."Eccola" dice, come a indicarci una vastità di vallata aperta e profonda. Sulla parete opposta all'entrata un grosso televisore contende l'attenzione alla grande riproduzione di una vecchia fotografia color seppia. L'esito della disputa è scritto su rughe amare e occhi lucidi."Eccola la donna più bella del mondo..." e subito tace. Un'altra madre, dunque, un'altra madre e un altro spirito ferito sul campo della vita.... Trattengo l'emozione, devo, ma penso ad un'altra fotografia, campeggia anch'essa sullo sfondo di ogni mia ora. Nemmeno quattro anni avevo, Salvatore sei, ci dice."Com'è stato?", azzardo, forte dello stesso dolore, "non me ne hai mai parlato allora"."Una caduta con la bicicletta, il manubrio nel fegato, due giorni d'agonia... così è stato...", sul tavolo la stessa fotografia, più piccola, e leggere si fanno, use all'asprezza, le dita di pastore."La mia di parto, all'undicesimo figlio...", dico, forse per un confronto a sollievo, ma non ascolta...."Me l'hanno fatta baciare su un letto d'ospedale, le labbra nere, bianca come cera... poi a scuola....", e intanto una gatta, lungo pelo color panna, grigio muso e coda, entra guardinga dal balcone aperto, come a protezione di cucciolo..."Lei è Linda, dorme con me, è gelosa degli altri e li scaccia", pare sollevato, "ne ho otto, ma solo lei dorme con me, la più vecchia, la mamma di tutti gli altri....".Rammento in un urto che anche a me tentarono di far baciare mia madre, ma non volli e un buio calò nella memoria. Fino a questo momento. Una morsa mi stringe ferrea il respiro. "Me l'hanno fatta baciare su un letto d'ospedale, le labbra nere, bianca come cera... poi a scuola....", riprende a dire, "nient'altro da allora è stato peggio di questo.... che potevano farmi le suore", non vuole sapere di me, penso, e racconta di elementari presso certe suore al collegio di Abbasanta dove il padre l'aveva messo. "Mi veniva da ridere quando mi picchiavano, gli altri non capivano come potevo sopportare... avevo sempre la schiena segnata da colpi dati con il tubo dell'acqua, non sul sedere, sulla schiena picchiavano e faceva male, sono sensibile al dolore, io ... ma cosa poteva farmi più male dell'aver perso mia madre, cosa poteva farmi più male?", domanda ad un vuoto che non risponde. Ora soltanto capisco il perché di quelle fughe continue malgrado le botte che lo aspettavano, sto per dirglielo ma ormai è fiume in piena, dilaga come le acque fangose dei fiumi delle mie parti, al tempo delle piogge.... E di tutto questo non mi aveva mai detto nulla, forse nemmeno sapeva, buttava tutto alle spalle per caricarci sopra solo quell'unico immenso dolore."Da mangiare ci davano purè, a me non mi piaceva. Allora mi avvicinavo con la bocca al bordo del tavolo per sputarlo in terra e succedeva che, magari avevano appena lavato con varechina o altro, lo raccoglievano e me lo ficcavano in bocca per forza....E di notte all'ora fissa si doveva già dormire, erano botte sennò. Passavano fra i letti, le suore, ci aprivano gli occhi e se non stavamo dormendo erano altri colpi... lo capivano se non stavamo dormendo, sai, se uno non dorme gli occhi sono vivi sotto le palpebre; a me veniva da ridere ma per vendicarmi certe notti scappavo all'infermeria e mi bevevo tutti gli sciroppi dolci, gli altri no, che non mi piacevano. Mai stato male. Ci ho fatto le elementari con quelle e poi due anni di medie a Santu Lussurgiu..., uguale storia, lo sai...".La lunga strada solitaria che da Abbasanta porta a Santu Lussurgiu è per Salvatore quello che per me poteva essere il viaggio a piedi da Uta al letto del Cixerri: un condannato percorso di salvazione e fuga. Confuse entrambe, entrambe oscuramente necessarie. Io ci conducevo, coi maiali, una mia ricerca di pace, lui l'intero suo cuore non sazio."Piano, ecco, in fondo a quel viottolo c'era il nostro ovile, ora è un mucchio di pietre, fino qua sono arrivato una volta...", fermo il motore e non dice altro, è ora l'esile ragazzetto che attraversando campagne, macchie e boschi, ha eluso l'asfalto e con esso la vecchia Cinquecento di don Gianni che, fine conoscitore dei luoghi, lo riportava immancabilmente indietro. Una volta, non posso scordare, Salvatore aveva convinto un interno a fuggire con lui - Eugenio, di Nuoro, dove pensava d'andare?, ci domandavamo tutti -, riacciuffati, messi noialtri in bella fila e convocato il patrigno del nuovo evaso, questo aveva preso a malmenare il ragazzo fino a spaccargli il naso... Ne fui sconvolto ma Salvatore non ricorda, pensava già ad altra fuga, dice... "Allora ce l'hai fatta...", dico, non ricordavo nemmeno questo e scopro che la memoria del dolore non è mai intatta.... La nostra pena si avvale d'un oblìo selettivo per durare il tanto che basta al suo disegno."Restavo in vista dell'asfalto, se mi perdevo erano guai...", spiega animato al ricordo, "camminavo lungo quel fiumiciattolo, ora è secco, allo scoperto mi abbassavo per sembrare un cane, poi sempre nella macchia....", scruta con vista antica i dintorni, s'accende l'azzurro di occhi persi ancora ad una non terminata corsa, "arrivo che mio padre sta lavorando alla vigna, mi riempie di busse e mi mette a zappare, in attesa della Cinquecento. Il resto lo sai....".Anche Santu Lussurgiu assapora il lento susseguirsi delle ore di festa, poco dentro il paese riconosciamo l'angolo come fortificato del campetto di calcio rialzato, quello da cui si vedeva tutta la valle, troppe case ora, ma disfatto è il muro, la rete divelta.Col cuore in gola, nemmeno una parola né un respiro in più, giriamo intorno, verso il lato dove s'apriva, e s'apre, il portone principale.
La facciata, rosa acceso ancora, del grande edificio mo-stra i segni del sonno forzato ma il residuo tono di so-lenne imperiosità tiene come sospesa l’aria che ne av-volge i volumi precisi e possenti. L’altissimo pioppo – già grande allora – che ammorbidisce la rigida linearità dell’ala destra elevandosi flessuoso e irriverente fin quasi al terzo piano, ondeggia indolente alla brezza che ac-compagna un oscurarsi del cielo; sull’ala sinistra un più basso agrifoglio - dure le foglie d’un lucido verde pro-fondo, già rosso vivo le bacche ridenti - basta da solo al-l’ufficio. Una parte di quest’ala, aggiunta chissà quando al corpo originale, è stata demolita per certi lavori, solo la chiesa spicca sul fondo, prima interna a un cortile re-moto, proibito alla nostra specie malnata per via di certe ragazze del paese che v’erano impiegate.
In mezzo alla facciata, sonnolento, altezzoso ancora co-me certa nobiltà in sommesso decadere, il vecchio por-tone dal fondo ormai marcente resiste alle mie spinte, dalla bronzea fessura della posta posso scorgere l’atrio d’ingresso, il corridoio laterale dal quale saliva la scala che ci portava al dormitorio dopo la preghiera, un pul-viscolo attraversato da raggi obliqui di sole mi porta a ondate odore di carte polverose e matite temperate, e ge-lidi sentori di muffe.
Come chi torni a cadente dimora di tempi lontani (dolente memoria), ci affacciamo febbrili alle grate rug-ginose e ai molti vetri rotti di finestre serrate, a vedere se l’accidente d’un varco tra frantumi di vetri ce ne resti-tuisca scorci d’interno, fughe di spogli corridoi deserti che echi mai sopiti di voci infantili disperse possano ria-nimare per frammenti d’istante.
“Strano”, mi dice Salvatore, “tutto mi pare più piccolo, come potevamo stare in centocinquanta nell’aula dello studio, per come ora la rivedo …?”, è teso, scuro l’azzur-ro degli occhi, m’accorgo che teme il dilagare dell’emo-zione, non s’è preparato abbastanza all’incontro, e di più teme la fragilità del mio stato, che conosce.
“Sono anni che non vado al collegio”, m’ha voluto av-vertire all’andata. Io di più, dico, ma non che da tempo sono preparato all’urto feroce che, oggi, la chimica sol-tanto può aiutarmi a parare.
“Già, eravamo bambini allora, il mondo appare più gran-de ai bambini, la memoria ingigantisce il bene e il male”.
“Certo male non finisce mai di riempirti le ossa” mi dice, serio, le mani cacciate in fondo a tasche vuote. Lo so, ve-do il suo dolore, e continuo, perché non veda il mio:
“Ti ricordi di Enrico e del libro di disegno, quel giorno nell’aula di studio?”
Certo che si ricorda: Enrico, interno come noi e come noi senza madre, nel silenzio assoluto che nulla doveva tur-bare, aveva ricevuto l’ordine sommesso di riporre un quaderno di disegno in modo che non sporgesse da un ri-piano troppo stretto, non poteva accadere che qualcosa fosse fuori da un ordine prestabilito. Essendosene dimen-ticato e tornato, pochi giorni dopo, ad esercitare sorve-glianza il chierico che aveva impartito l’ordine, venne da questi preso a mo’ di maniglia per la pelle del sotto men-to e forzato a compiere l’operazione ordinata. Nemmeno un lamento poteva essere emesso – era peggio, per il di-sturbo a tutti gli altri – ed Enrico ingoiò il più atroce do-lore che mai avesse provato ma non i lacrimoni pesanti che gli uscivano grossi dal cuore mentre il chierico tor-nava alle sante letture che ne avrebbero fatto un pastore di anime.
“Ho rivisto tempo fa Enrico, andavamo a pesca assie-me”, gli dico, “mi deve la vita, sai?”.
E’ curioso, lo capisco dal guizzo di luce che illumina il suo interrogativo guardarmi, lo stesso guizzo che al col-legio, pallone al piede, lo trasformava in un furetto im-prendibile, fino al preciso tiro vincente, sempre. Riesco così a distrarlo col racconto di quella volta che con En-rico andammo a pescare alla Funtanazza, non lontano da Guspini dove allora abitavo; lì la pesca era ricchissima a mare inquieto, specie da uno scoglio sul quale solo noi sapevamo arrivare. Correva fra quello scoglio e la terra-ferma un canale naturale che la risacca del mare inva-deva ritirandosi poi in un assordante risucchio di pietre e ghiaia del fondo. Col mare mosso era follia tentare il passaggio, ma noi scoprimmo la strana lealtà di un mare che ci offriva una possibilità: ogni sette onde il passaggio era libero per un tempo sufficiente appena a sfuggire alla sua presa. Quel giorno la pesca andò meglio di altre volte ma il mare voleva giocare e dovemmo muoverci in fretta. Ci avviammo, i pesanti zaini in spalla, le canne a tracol-la, prese le mani da cassette e canestri. Arrivati al canale contammo, per prudenza, due volte le onde che andava-no alzandosi: una volta e l’altra, sette fu il numero giu-sto. Al segnale scattai rapido, lui dietro. Nel fragore del-l’onda che ritornava udii un disperato richiamo e mi vol-tai: Enrico era caduto sulla schiena e la pesantezza dello zaino inzuppato gli impediva d’alzarsi. Non so come né con quale disperata forza gli afferrai la mano e tirai in salvo lui e il suo carico, giusto in tempo: ti devo la vita, mi disse, ogni volta da allora.
“Ci siete tornati alla Funtanazza?”, domanda, lontanis-sima la mente.
“Sì, bisogna essere pescatori o cacciatori per capirlo, ma per questo ho smesso, la natura ti rispetta se tu fai lo stesso”, dico.
“Già, non ci sono più passeri”, dice tornato presente, “e un cacciatore mi fa, un giorno al bar, che gli animali non hanno né cuore né anima né cervello… ho fatto il fio-retto di non uccidere mai, io, nemmeno formiche, nem-meno le mosche quando, sul finire dell’estate, sentono la morte nell’aria, sai, e vogliono succhiarti coll’umido del-la pelle un poco di vita…”.
Ma capisco che lui, uomo di montagna, è rimasto atter-rito da quell’onda in arrivo, da quella forza cieca che porta con sé indecifrabili risposte e nessuna domanda.
Questo capisco, e strappo anche lui al risucchio di que-st’altra burrasca, come Enrico, alla Funtanazza, prima che l’onda numero otto se lo portasse via.
Perciò non piango, non cedo al ricordo né al dolore – lo temeva, per me e per se stesso, è sereno ora – la morfina è diligente, fa bene il suo lavoro.
“Di qua non si entra”, finisco per dire, e nessuno dei due avrebbe potuto, “ma il muro di cinta è crollato, si può, proviamo?”
In silenzio s’avvia, nervoso, quasi corre ma rallenta per avermi vicino, non so stare al suo passo.
“Giù da questo muraglione son sceso un sacco di volte” e pare, mentre fa la strada al contrario, che gli appigli gli cerchino le dita, per tenera vecchia conoscenza.
“Prima scavalcavo la rete e poi giù per il muro…. “, e piomba giù con la plastica leggerezza di allora, “una vol-ta sono caduto male e mi sono dato una ginocchiata in bocca, il sangue… ma sono corso via lo stesso… M’han-no preso subito quella volta, poche le botte, forse per non avere colpa del mio labbro spaccato”, ed era già ad un altro varco, più facile, più usato, pareva, perché più pia-no e diretto al cuore del cortile alto di una volta, nel bel mezzo di quanto rimaneva dei nostri ricordi.
E siamo al terrapieno, laddove giocavano il calcio a un-dici i grandi; laggiù, ad angolo sulla valle, un fantasma di muro, ciò che resta degli spalti da cui Salvatore anelava alla sua speciale libertà. Nessuna rete più a cui aggrap-parsi… siamo soli di fronte ai marosi del tempo, sempre, lo so da molto, e l’umida risacca di onde antiche s’al-lunga come timida incerta carezza a placare ribollenti oscure tempeste che nessun mare mai hanno sconvolto. Questo gli accade e lo lascio solo al suo angolo, fragile nuca di bambino dai profondi occhi azzurri, abbando-nate le mani e gonfio il cuore, una volta ancora.
Colomba ferita
Intorno è desolato abbandono, crollato ogni tratto di mu-ro, alte le polverose erbe estive ai lati del campo d’un tempo, ormai riparato ricettacolo di qualche residuo di civiltà e della piccola morte d’un gatto, rinsecchito tra in-sonnoliti ciuffi di stentati fiorucci violacei.
“Guarda, la statua di San Domenico Savio, c’è ancora”, la voce di Salvatore mi sorprende, intento come sono ai sussurri d’un vento che pare ricordare non so che lontane confidenze, mentre alita d’intorno come spirito inquieto in cerca di una pace….
Ed è già sotto la statua, nell’angolo nascosto dove nasce-vano e s’organizzavano tutte le piccole congiure di noi bambini, dove i segreti passavano da orecchio ad orec-chio, come le sigarette di bocca in bocca. I tre castagni d’allora sono ormai bosco e l’angolo è ancora più om-broso e denso di voglie segrete. Lo raggiungo e anche la statua ci pare tradire la misura della vaga memoria.
“Come potevamo stare nascosti tutti qua dietro? Sfido che ci beccavano sempre”, fa, ed è vero che non ci fosse verso di conchiudere le nostre piccole evasioni senza che il prete al quale toccava, di volta in volta, la sorveglianza non piombasse all’improvviso rimandandoci a giocare: giocare si doveva, non altro.
E poi scendiamo al campetto di sotto, quello del calcio a cinque di noi piccoli, quello dove si faceva ginnastica… e sotto il muro di contenimento del campo di sopra mi rivedo in fila, un giorno, chiamato fuori e pestato come un cane. E a parlare per ultimo non ero stato io.
“Ricordi, Salvatore?”, ma non sa o non vuole.
Il piccolo pioppo di un tempo, unica pianta nel cortile basso, s’è erto a gigante e al riparo della sua chioma pro-fonda, dove ora mi trovo, rivedo, perché non so, la gros-sa testa deforme di Peppineddu, il povero demente del paese che all’ora di merenda veniva lasciato entrare nel cortile, come in chiesa la domenica, sempre in disparte; entrava per ultimo e usciva per primo, e subito spariva.
“Gli davo sempre la marmellata, ma da lontano, perché avevo paura”, dice quando mi raggiunge e gliene parlo, ma non mi aveva mai parlato di paura allora, pareva di-vertirsi, invece, ad allungargli quel poco di cibo, come attraverso sbarre di gabbia.
“E tu gli davi anche la rosetta, che non ti piaceva… ti sovviene? Ne avevi paura davvero, tu, attraversava i tuoi sogni sudati, povera anima, ricordi?…”, pare sussurrarmi un frusciare leggero di foglie.
“Avevo paura della sua faccia”, continua Salvatore, “con quelle grandi orecchie, quel muso da scimmia triste, non diceva mai niente: sorrideva di tanto in tanto, guardava e nel suo sguardo viveva una infelicità più grande della mia, ma non lo sapeva, lui… gli volevo bene per que-sto… Quanti anni poteva avere?”, domanda, non a me e non rispondo.
“Ma non era per niente giovane”, decide infine, “ed era solo… deriso da tutti…”.
“Ma aiutato da tutti in paese”, dico.
E sotto la grande chioma del nostro pioppo scende il si-lenzio dei cimiteri, alcuni siamo già morti in vita, altri sanno respirare ancora dopo, mi viene da pensare al toc-co della corteccia amica e complice ancora nel tiepido meriggiare di un ottobre settembrino.
“E’ come andare a trovare i morti”, dice leggendomi ne-gli occhi l’amaro, “Che siamo venuti a fare qui? Guarda che rovina, che triste così, è peggio del ricordo”
“Come certe lapidi rose dal sole e ingoiate dai muschi che più nessuno accarezza, vuoi dire?…”
E in una calma di vento che rassomiglia a impaziente commiato per insopportabile dolore.
Hai nessuno che t’aspetta
Al ritorno, immense distese di nuvole di tutti i grigi mai visti accompagnano indolenti la corsa del sole al suo rinnovato riposo, e il saluto incantato dell’ultima luce s’affaccia al di sopra di esse tingendo di rosso buona parte di un lontano orizzonte.
“Esagerato”, dico, ”non può essere per noi questo antico splendore”…
“Perché”, risponde (senza badare) né bada all’antico, “briciole di quello splendore ricadono sempre quaggiù per noi poveri cristi, non ti basta?”
“Sì, che mi basta”, decido, “sì, che mi basta…”.
E i nostri occhi si perdono lassù, pieni del nuovo colore,
Di anch'io sarei fuggito da lì, dall'Istituto salesiano Carta Meloni
Si fanno giocattoli con l’oleandro e ci si spengono incendi… Ho visto un uomo, era notte sull’arida steppa attorno al grande carrubo, ho visto un uomo dalle larghe spalle domare a mani nude, con coraggio e sapienza d’indiano, l’incendio che avrebbe dovuto privare le sue bestie dello stentato pascolo… Aveva fiutato l’aria, annusata la direzione del vento, letta nel pensiero del nemico la traiettoria delle fiamme e s’era lanciato incontro alle vampe che crepitavano lontane, aizzate come cani dalla brezza che saliva dal fiume, liquido soffio di vita e morte, essenza di tutti i significati che sulle sue rive avrei saputo incontrare.“Non muovetevi da qui”,(abarrai in sa domu e non si movaisi po nisciunu motivu)…..(state nella casa e non muovetevi per nessun motivo) ordina ai suoi piccoli abbacinati dal danzante lucore ancora lontano. Li ha portati con sé, in quel rifugio in pietra al bordo della piana, per necessario addestramento. Otto anni avevo quando poi mi assegnò la custodia dei maiali, bestie dall’astuzia diabolica, libere da paura e soggezione, subdole come poche altre. E basta un pugno per uccidere un maiale, dritto sul muso: l’osso fracassato del naso penetra nel cervello e lo schianto del grande corpo è immediato. “Bada a loro”, tuona con sguardo di ferro al più grande mentre apre la sua pattada la mancanza dell’indice destro non rendeva meno rapido il gesto né toglieva, del resto, la forza ai pugni - e corre ad armarsi di fitte frasche d’oleandro.Lo vediamo infine lontano, sempre più piccolo, in mezzo a fiamme sempre più alte. Non posso dimenticare, ancora ora, malgrado tutto, il sospeso silenzio di quei momenti, la nostra spaventata meraviglia, come a un numero di belve, al circo: il soffiare vorace di mille lingue di fuoco s’imponeva ai nostri stessi respiri, i crepitii urtavano l’aria assordanti come spari e vividissime scintille s’alzavano sibilando simili ai rettili furiosi di certo nostri giochi crudeli, ma….Conoscevamo nostro padre, sapevamo cosa avrebbe saputo fare: individuato il punto d’attacco del fuoco, aveva preso a soffocare le fiamme con decisi e mirati colpi di frasche d’oleandro. Le sue ampie e forti braccia compivano un lavoro lento e metodico, come d’insetto che, obbligato a un pericolo, non aggiunga paura a usata necessità. Non un colpo doveva fallire, ci disse poi, e nel buio ferito della notte vedemmo la piccola sagoma che addormentava paziente le fiamme, il fumo si sostituiva al chiarore, il fronte perdeva vigore, la notte tornava signora dell’aria, ma lui non cedeva: il fuoco è astuto nell’attesa, spietato nell’azione, come la malasorte: va privato della sua forza, di ogni barlume di forza. Quando fu certo d’aver vinto un’altra delle sue battaglie, Orazio tornò da noi, l’odore acre del fumo impregnava le sue vesti e i suoi folti capelli castani, gli occhi, come neri pozzi ancestrali, balenavano odio profondo e feroce soddisfazione. Il pastore avrebbe avuto il fatto suo. I suoi piccoli ebbero paura, come sempre, della sua furia.“E’ stata una spina di cardo, una spina infettata”, dicevano al bambino che chiedeva il perché della mutilazione, “succede ….”. Quella mano senza l’indice rendeva speciale ogni gesto di mio padre, anche i colpi che ci ha dato finché ha potuto, anche il modo d’atterrare, da solo, un enorme maiale per castrarlo… ognuno di noi ha una sua speciale mutilazione, siamo unici per questo, e questa nostra unicità si stampa nei vortici del tempo, a ricordo, a onta o gloria. Un bambino crede con mente libera alle parole dei grandi, perché non dovrebbe? Ma i grandi dimenticano sovente le loro bugie e nei momenti di nostalgia e di cattiveria sguinzagliano verità affilate come coltelli, i loro segni marchiano carni e destini. Scoppiò la guerra, la seconda dannata guerra, e mio padre, poco più di vent’anni, aveva La povertà di quei tempi, in una terra desolata come la nostra, e con speciale accanimento nelle campagne di Uta, poggiava tutta sulle spalle di uomini e donne che alla terra strappavano poveri brandelli di vita coll’epico sudore di esistenze oscure, dalla prima fanciullezza alla morte, dall’alba alla notte, di più non si poteva. La chiamata alle armi giunse come schianto di montagna, minaccia mortale che non lascia scampo. Pochi partivano, spesso giovani allettati da illusoria fortuna – era l’epoca della miserabile Italietta coloniale -, molti si mutilavano: denti, indici – come tirare un grilletto senza indice? -, impacchi di tabacco sotto le ascelle a scatenare febbroni da cavallo, per non andare. Non per paura della guerra, lontana ancora, una guerra già c’era, assai più vicina, più feroce: la fame, i furti per disperazione, la violenza che l’ignoranza sempre scatena, il bracconaggio, le malattie della miseria, come punizioni del cielo, e i dettami di leggi ignare dell’usanza… questa era la battaglia, e un fucile in spalla era da sempre l’amico migliore; come certi cani, come quel Geppo da cui, appena adolescente, appresi la gratitudine vera e le mille astuzie di una vita fiera e selvaggia.
S’undada“E’ cabau s’arriu, è cabau s’arriu!”, s’urlava per il paese quando, come quel giorno d’ottobre, dopo le grosse piogge, veniva aperta la diga a monte, in quel di Iglesias, e le acque si scagliavano a valle, affamate di libertà e di vendetta. Un alto canto di morte piombava allora sugli uomini della pianura, rombando tra alte sofferte rive a protezione, e il precipitare della fiumana infernale diventava spet-tacolo ancestrale, rabbioso avviso di una potestà che nessuna filo-sofia concepisce e ogni animale teme. Rividi poi, secoli dopo, sullo sterminato palcoscenico della Sierra Maestra a Cuba, altre le acque dello stesso rabbioso colore, altra la voce, altre le piante e le bestie chiamate a sacrificio, altre le umane parole, identico l’avviso, identico il male di vivere. “Arriva il fiume, arriva il fiume”, e si correva tutti all’ingresso del paese, a quel ponte che era la misura di piene che spesso ingoiavano pure lui; si stava allora dove le acque inquiete mordicchiavano con nervoso borbottìo i bordi alti dell’ampia conca ribollente, i più ba-lenti con i piedi a mollo, né c’era chi avesse scarpe da guastare. Il letto del fiume diventava lago, pegno dovuto orti, strade, ponti, vite incaute, e il sordo lavorìo sotterraneo delle acque che proseguivano la corsa obbligava cielo e terra a un fremito ininterrotto come di terremoto. Si stava così, come di domenica, a una predica. La solitudine a cui mio padre m’affidava s’addolciva per il corale silenzio dei cuori, gli sguardi lontani, laddove pensieri inusitati li conducevano simili a docili greggi, sospesi fame e dolore come a una perentoria promessa di pace. Ma quella voce senza parole risuonava con dolcezza in altri angoli della mia strana esistenza, soffiava favole mai sentite, verità che già s’inoltravano sotto la mia pelle, annunciate, forse, dal gelo d’una morte – nemmeno quattro, ancora, gli anni della mia vita -, unica ferita che ancora geme le lente gocce d’una attesa che solo quel rombo acquietava. Spesso, non so come, s’annunciava anzitempo, a me soltanto e io correvo al ponte, lesto come un vento; l’onda scura arrivava con impetuosa lentezza verso di me, fronte ampio di schiuma ribollente, grovigli contorti d’oleandri e tamerici, tronchi di vecchie querce sbattuti come paglia - ora le radici come secche dita di strega ad artigliare l’aria, ora i grossi rami spezzati da furia immane a do-mandare requie –, carcasse di bestie imprudenti gonfie come otri leggendari, e la massa pietrosa rotolante, sul fondo, me ne rimbom-ba il cuore e me ne duole l’udito, ancora… s’undada, la chiama-vamo, fangosa irritabile linfa per distese di stoppie infuocate che in quella loro lunga ferita conservavano con una gelosia da povero il respiro d’una vita senza tempo, ignara d’ogni progresso mai, d’ogni inutile dialettica. S’undada, il suono aspro della mia lingua mi ri-porta tuttora, per misteriosa osmosi, agli immensi brontolii di gonfi cieli lontani che riempivano valli e pensieri, sotto i tetti leggeri di tegole e paglia, in pietrosi ripari di fortuna, più spesso. Prima del ponte, un duecento metri forse, l’acqua usciva da un’ampia curva e la rabbia del faticoso attrito ne alterava la voce, che si faceva rug-gito, potente grido di una lotta atavica piena dello spavento e della nuda semplicità di quella che ci piace chiamare vita. Poi, sul ret-tilineo, prima del ponte, il ruggito si attenuava in ringhio, soffio, lamento, affanno, forse per rude carezza di vecchio, mi leggeva negli occhi spalacancati pene e paure destinate a riempire giorni e ore del mio avvenire.
Arrivata al ponte, proprio sotto i miei piedi che appena lambiva, s’undada pareva sprofondare nel salto che marcava un diverso li-vello – più basso – del fiume, da lì in poi. Le acque torbide si river-savano in un frastuono di ribollenti cascate, il ponte sputava alberi e carcasse, la minaccia sommessa era di folla spazientita e immensa. Poi la piena – alle sue spalle morte e distruzione a chissà che dio votate – riprendeva la sua corsa fatale carica di tanta vita quanta ne aveva distrutta.
E tanta ne lasciava in me quell’orrido gonfiarsi di acque, ora quiete e trasparenti e subito liquida sarabanda d
i morte e salvifica mera-viglia di bambino, quanto dolore imprimeva nel mio conoscere di poi; come le furie di mio padre, improvvise tempeste di ruvido cuoio sui nostri corpi di bambini, mai composti da carezze, prima che il sonno ne imbrogliasse la fame.
“O babbu, o babbu!”, gridavo nel buio di quella notte, l’immenso fluire di acque scure inghiottiva ogni suono, un cielo gonfio di altre nubi lasciava spazi stentati ad un pallido quarto di luna. Mi sentivo perduto, ed erano i luoghi dei miei giochi solitari, abbandonato, ed era il motivo del mio vagare, disperato, ed era la cifra del mio esi-stere.
“O babbu, o babbu!”, la gola in fiamme, lo sguardo oltre la vasta distesa di acque in rapida corsa, il passo attento al limite labile tra terra e acqua, per larga fascia lungo le rive. Scorsi infine un ba-lenare lontano di torcia, nella direzione d’una delle sue postazioni di pesca, sulla riva opposta del fiume, corsi gridando, chiamandolo, come se gli importasse di me.
“Chini sesi? Chi sei?”, urlò al di sopra del fragore e subito “Maria-no...!?”, m’aveva riconosciuto, non era possibile, che ci facevo in quell’inferno a otto anni? Avrei dovuto essere a casa. Con che co-raggio m’ero messo alla sua ricerca, in quella notte? Questo credo di aver letto in un suo sospeso silenzio, e non c’erano le risposte, né, credo, avrei saputo finalmente gridargli che la casa era buia e vuota, priva di quel minimo amore che avrebbe saputo salvarmi, che ero stufo di vagare dall’una all’altra delle pietà dei parenti, finché lui non fosse tornato con le sue dannate anguille, così facili da pescare quando il fiume metteva sottosopra il fondo melmoso. E poi il ri-sveglio alle cinque, il sonno, l’andata al panificio per il pane della giornata di lavoro - e quello alla ricotta che si poteva solo guardare, desiderare -, un boccone d’altro pane per colazione, e la stupida scuola, per tutte le stupide mattine di quella stupida vita.
“Vieni qua ma fai il giro, passa dal ponte”, mi gridò con tono rad-dolcito, come a volermi guardare meglio, come a una scoperta spe-ciale in un notte come poche. Attraversato il ponte fui da lui. Il clamore assordante di poche ore prima si era trasformato nel soffice tappeto sonoro di un fluido viaggio, l’intero letto del fiume pareva rotolare con lui, come corte variegata al fedele servizio d’un re.
“Non hai avuto paura a venire qua?”, i suoi occhi profondi, e ora curiosi, a indagare nei miei, in una mano la torcia puntata su di me, l’altra aperta a nuova carezza, come dopo la morte della sua Rafaella, quando per troppo breve durata aveva preso il suo posto e il calore del suo petto m’era dolce viatico al sonno. Piangeva, allora.
“No” e sostenni indomito uno sguardo che ridisegnava la mia sorte. Certo che avevo paura, tanta paura, e freddo, e fame. Ma capii, co-me per una rivelazione, che di paura si sarebbe nutrita la mia forza, ad ogni cedimento avrei risposto con una sfida, ad ogni colpo col silenzio, ad ogni abbandono col canto liberatore. Non so se per que-sto studiai e divenni tenore, cantavo già bene allora.
Alla luce della torcia che mi dette da tenere, mio padre raccolse gli arnesi da pesca, prese la cesta piena di sguscianti anguille lucide e grasse, la coprì e tornammo a casa. Aveva preso la sua decisione.
Il giorno dopo, a scuola s’andava di pomeriggio quella settimana, sveglia alle cinque, come sempre, stentata colazione, come sempre, preparativi per la giornata al pascolo, come sempre, ma il branco venne affidato a me soltanto. Il coraggio dimostrato la notte pre-cedente m’aveva consacrato porcaro a tempo pieno: il mattino a scuola e il pomeriggio coi maiali, oppure il contrario. E d’estate bastava togliere la scuola. Così fino alla terza media, fino alla mia fuga verso un altro destino. Avevo diciassette anni.......CONTINUA.........