sabato 31 gennaio 2015

La globalizzazione della guerra, "Lunga Guerra" americana contro l'umanità di Michel Chossudovsky

La globalizzazione della guerra, "Lunga Guerra" americana contro l'umanità di Michel Chossudovsky

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La globalizzazione della guerra è senza dubbio uno dei libri più importanti della situazione mondiale contemporanea prodotta in questi ultimi anni. 
Nel suo ultimo capolavoro, il professor Michel Chossudovsky mostra come i vari conflitti che stiamo assistendo oggi in Ucraina, Siria, Iraq e Palestina sono infatti collegati tra loro e inter-bloccato attraverso un ordine del giorno a senso unico nel perseguimento di egemonia globale timonata dal Regno Stati e sostenuta dai suoi alleati in Occidente e in altre regioni del mondo.    Dr. Chandra Muzaffar, presidente del Movimento Internazionale per un mondo giusto (JUST)

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La globalizzazione della guerra: "Lunga Guerra" dell'America contro l'umanità

Michel Chossudovsk y

14,00 dollari, Save 39%
 Il testo che segue è la prefazione di Michel Chossudovsky nuovo libro dal titolo: La globalizzazione della guerra, lunga guerra americana contro l'umanità
Il libro può essere ordinato direttamente dal globali Publishers ricerca.  
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PREFAZIONE
La "globalizzazione della guerra" è un progetto egemonico. Le principali operazioni di intelligence militari e segrete sono in corso simultaneamente in Medio Oriente, Europa orientale, Africa sub-sahariana, in Asia centrale e l'Estremo Oriente. L'agenda militare statunitense combina entrambe le operazioni teatrali importanti e azioni segrete orientati verso Stati sovrani destabilizzanti.
Sotto una agenda militare globale, le azioni intraprese dalla alleanza militare occidentale (USA-NATO-Israele) in Afghanistan, Pakistan, Palestina, Ucraina, Siria e Iraq sono coordinati ai più alti livelli della gerarchia militare. Non si tratta di operazioni militari e di intelligence frammentarie. Il Luglio-Agosto 2014 attacco a Gaza dalle forze israeliane è stata effettuata in stretta consultazione con gli Stati Uniti e la NATO. Le azioni in Ucraina e la loro tempistica coinciso con l'assalto dell'attacco a Gaza.
A sua volta, le imprese militari sono strettamente coordinate con un processo di guerra economica che consiste non solo nell'imporre sanzioni a paesi sovrani, ma anche in atti deliberati di destabilizzazione dei mercati finanziari e valute, al fine di minare le economie nazionali dei nemici.
Gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno lanciato un'avventura militare che minaccia il futuro dell'umanità.Mentre andiamo in stampa, le forze americane e della NATO sono stati dispiegati in Europa orientale compresa l'Ucraina. Intervento militare su mandato umanitaria sta procedendo in Africa sub-sahariana.Gli Stati Uniti ei suoi alleati stanno minacciando la Cina sotto il presidente Obama "Pivot per l'Asia".
A sua volta, le manovre militari sono in corso alle porte della Russia, che potrebbe potenzialmente portare alla escalation.
Gli attacchi aerei americani avviate nel settembre 2014 diretti contro l'Iraq e la Siria con il pretesto di andare dopo che lo Stato islamico fanno parte di uno scenario di escalation militare che si estende dal Nord Africa e del Mediterraneo orientale per Asia centrale e meridionale.
L'alleanza militare occidentale è in uno stato avanzato di preparazione. E così è la Russia.
Russia è annunciato come il "Aggressor". Confronto militare USA-NATO con la Russia è contemplato.
Abilitazione legislazione nel Senato degli Stati Uniti in "The Aggression russo Prevention Act" (RAPA) ha "set gli Stati Uniti su un percorso verso un conflitto militare diretto con la Russia in Ucraina."
Ogni guerra USA-Russia rischia di degenerare rapidamente in una guerra nucleare, dal momento che né gli Stati Uniti né la Russia sarebbe disposto ad ammettere la sconfitta, entrambi hanno molte migliaia di armi nucleari pronte per l'uso immediato, ed entrambi si basano sulla dottrina militare Counterforce che i compiti loro militari, in caso di guerra, a preventivamente distruggere le forze nucleari del enemy.1
L'aggressione russa Prevention Act (RAPA) è il culmine di oltre venti anni di preparativi di guerra USA-NATO, che consistono nel accerchiamento militare della Russia e Cina:
Dal momento in cui il crollo dell'Unione Sovietica, nel 1991, gli Stati Uniti hanno inesorabilmente perseguito una strategia di accerchiamento della Russia, così come ha con altri nemici percepiti come la Cina e l'Iran. Ha portato a 12 paesi dell'Europa centrale, tutti ex alleati con Mosca, nella NATO. Potenza militare è ora direttamente sul borders.2 della Russia
La globalizzazione della guerra di Global Research
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La militarizzazione Worldwide
 Fin dall'inizio del periodo della seconda guerra mondiale dopo ad oggi, disegno militare globale dell'America s è stato uno dei conquista del mondo. La guerra e la globalizzazione sono strettamente correlati. La militarizzazione supporta potenti interessi economici."Lunga Guerra" americana è orientata verso l'espansione delle imprese in tutto il mondo e la conquista di nuove frontiere economiche.
Il concetto di "guerra lunga" è parte integrante della dottrina militare degli Stati Uniti. I suoi fondamenti ideologici hanno lo scopo di camuffare il progetto egemonico di conquista mondiale. La sua attuazione si basa su un'alleanza globale di 28 paesi membri della NATO. A sua volta, gli Stati Uniti e la NATO hanno stabilito oltre la "Atlantic Regione" una rete di alleanze militari bilaterali con "partner" paesi diretti contro la Russia, la Cina, l'Iran e la Corea del Nord. Quello che abbiamo a che fare con una forza militare formidabile, distribuito in tutte le principali regioni del mondo.
La "Lunga Guerra" si basa sul concetto di "autodifesa". Gli Stati Uniti e il mondo occidentale sono minacciati. "La lunga guerra" costituisce "una lotta epica contro avversari piegato sulla formazione di un mondo islamico unificato a soppiantare il dominio occidentale". Alla base della "Lunga Guerra", secondo uno studio della Rand Corporation, il mondo occidentale deve affrontare "tre potenziali minacce":
  • quelli relativi alle ideologie abbracciati dagli avversari principali nel conflitto,
  • quelle relative all'uso del terrorismo • quelli relativi alla governance (cioè, la sua assenza o la presenza, la sua qualità, e la predisposizione di organi di governo specifici per gli Stati Uniti ed i suoi interessi). ... Al fine di assicurare che questa lunga guerra segue un corso favorevole, gli Stati membri dovranno fare uno sforzo concertato in tutti e tre domains.3
Il nostro obiettivo in questo libro è quello di concentrarsi su diverse dimensioni di guerre egemoniche americane, fornendo sia una panoramica storica e la comprensione delle guerre contemporanee americane tutte, da un punto di vista strategico, sono integrati.
La nostra analisi si concentrerà sui pericoli di una guerra nucleare e l'evoluzione della dottrina militare nella / 11 dell'era post-9.
Il ruolo centrale della propaganda dei media così come i fallimenti del movimento contro la guerra saranno affrontati. Mentre il primo capitolo fornisce una visione d'insieme, i capitoli successivi forniscono una panoramica diverse dimensioni della lunga guerra dell'America.
Capitolo I, Imperial Conquest: America "Lunga Guerra" contro l'umanità offre una panoramica storica dopo la seconda guerra mondiale delle guerre americane dalla Corea e Vietnam in Afghanistan, Iraq e Siria. C'è un continuum in politica estera degli Stati Uniti dalla dottrina Truman del tardo 1940 ai neocons ei neoliberisti delle amministrazioni di George W. Bush e Barack Obama.
Parte II si concentra sui pericoli di una guerra nucleare e delle radiazioni nucleare globale.
Capitolo II, I pericoli di una guerra nucleare Conversazioni con Fidel Castro si compone di Conversazioni con Fidel Castro e l'autore di pertinenza del futuro dell'umanità e del processo di post-Guerra Fredda di militarizzazione. Questo scambio ha avuto luogo a L'Avana nel mese di ottobre del 2010.
Capitolo III si concentra sulla dottrina della Pre-emptive nucleare e il ruolo di Israele in innescare un primo uso attacco di armi nucleari contro l'Iran.
Capitolo IV, la minaccia della guerra nucleare, la Corea del Nord o negli Stati Uniti? concentra sulla minaccia persistente Uniti (dal 1953) di usare armi nucleari contro la Corea del Nord, mentre l'etichettatura Corea del Nord una minaccia per la sicurezza globale.
Capitolo V, Fukushima: una guerra nucleare senza una guerra. La crisi Unspoken Worldwide radiazioni nucleari esamina i pericoli dell'energia nucleare e il suo rapporto tacito alle armi nucleari.L'energia nucleare non è un'attività economica civili. È un'appendice dell'industria nucleare che è controllata da cosiddetti imprenditori difesa. I potenti interessi corporativi dietro l'energia nucleare e le armi nucleari si sovrappongono.
Parte III illustra a livello nazionale, il modus operandi di interventi militari e di intelligence degli Stati Uniti, tra cui il cambio di regime e il sostegno segreto delle organizzazioni terroristiche. Gli studi paese per paese (Jugoslavia, Haiti, Libia, Iraq, Siria, Palestina, Ucraina) illustrano come i singoli Stati nazionali sono destabilizzate a causa di operazioni segrete USA-NATO e "guerre umanitarie". Mentre la natura e le circostanze di questi paesi sono affatto simile, vi è un filo conduttore. L'obiettivo è quello di fornire una comprensione comparativa degli impatti a livello di paese di lunga guerra americana contro l'umanità. In tutti i paesi analizzati, l'intento è stato quello di distruggere, destabilizzare e impoverire i paesi sovrani.
Capitolo VI, guerra della NATO contro la Jugoslavia: il Kosovo "Freedom Fighters" Finanziato dalla criminalità organizzata esamina il ruolo della Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) come strumento di destabilizzazione politica. In Jugoslavia, il finale di intervento della NATO era quello di ritagliarsi un "economia socialista di mercato" prospero e di successo in sette stati del proxy. La rottura politica ed economica della Jugoslavia nel 1990 servì come "modello" per le successive "sforzi militari umanitarie."
Capitolo VII, guidata dagli Stati Uniti colpo di stato ad Haiti contro il governo di Jean Bertrand Aristide è stata effettuata nel febbraio 2004 con il sostegno del Canada e la Francia. Con amara ironia, l'ambasciatore degli Stati Uniti ad Haiti James Foley, in precedenza aveva svolto un ruolo centrale come inviato speciale degli Stati Uniti per la Jugoslavia, canalizzazione sostegno segreto per l'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK). Ad Haiti, le sue responsabilità comprendevano aiuti statunitensi al Fronte pour la Libération et la ricostruzione nazionale (FLRN) (Liberazione Nazionale e la ricostruzione Front) in gran parte integrata dagli ex squadroni della morte Tonton Macoute. In stretto coordinamento con il processo di cambiamento di regime e l'intervento militare, le riforme macroeconomiche FMI-Banca mondiale hanno giocato un ruolo cruciale nel distruggere la nazionale e impoverendo la popolazione haitiana.
Capitolo VIII, "Operazione Libia" e la battaglia per il petrolio: Ridisegnare la mappa dell'Africarivela l'agenda nascosta dietro 2.011 guerra umanitaria della Nato in Libia, che consisteva ad acquisire il controllo e la proprietà di vaste riserve di petrolio della Libia, che è quasi il doppio di quelli di gli Stati Uniti d'America. US Africa Command (AFRICOM) ha svolto un ruolo chiave nella guerra in Libia, in coordinamento con la NATO.
La Libia è la porta verso il Sahel e l'Africa centrale. Più in generale, ciò che è in gioco è il ridisegno della mappa d'Africa a scapito delle sfere storiche di Francia di influenza in Africa occidentale e centrale, vale a dire un processo di ri-divisione neocoloniale.
Capitolo IX, la guerra in Iraq e la Siria. Il terrorismo con un "volto umano": la storia dell'America di squadroni della morte esamina la guerra segreta degli Stati Uniti e della NATO in Siria, che consiste nella creazione di Al Qaeda entità terroristiche affiliate. La guerra segreta guidata dagli Stati Uniti consiste nel reclutamento, la formazione e il finanziamento di squadroni della morte islamici che vengono utilizzati come i fanti dell'alleanza militare occidentale. L'obiettivo militare finale è la distruzione di Iraq e Siria.
Capitolo X, Guerra e Gas Natural. L'Israele Invasion e Offshore giacimenti di gas di Gaza si concentra sull'attacco israeliano diretto contro Gaza al fine di confiscare le riserve di gas al largo di Gaza.
Nel capitolo XI, Gli Stati Uniti ha installato un governo neo-nazista in Ucraina , la struttura del regime procura sponsorizzato USA-UE a Kiev viene esaminato. Le posizioni chiave nel governo e le forze armate sono nelle mani dei due partiti neo-nazisti. La Guardia Nazionale Ucraina finanziato e addestrato dagli occidentali è in gran parte integrata da Neo-nazisti camicie brune.
Parte IV ha diritto Rompere l'Inquisizione americana. Invertire la marea della guerra si concentra su alcune delle contraddizioni del movimento contro la guerra.
Capitolo XII, L '"American Inquisition" e la "guerra globale al terrorismo" analizza il ruolo centrale della dottrina americana "guerra al terrorismo" a sfruttare il sostegno pubblico per una guerra globale di conquista. La "guerra globale al terrorismo" (GWOT) è un'invenzione basata sull'illusione che un uomo, Osama bin Laden, messo nel sacco il multi-miliardi di dollari USA di intelligence.
"Guerra globale al terrorismo" di oggi (GWOT) è una forma moderna di dell'inquisizione. Ha tutti gli ingredienti essenziali delle inquisizioni francesi e spagnoli. Andando dopo "terroristi islamici", effettuando una guerra preventiva in tutto il mondo per "proteggere la Patria" vengono utilizzati per giustificare una agenda militare.
A sua volta, "La guerra globale al terrorismo" si presenta come una "scontro di civiltà", una guerra tra i valori concorrenti e le religioni, quando in realtà si tratta di una vera e propria guerra di conquista, guidati da obiettivi strategici ed economici.
Capitolo XII, "Dissent Manufactured" rivoluzioni colorate e il movimento contro la guerra in Crisi esamina il ruolo delle fondazioni d'impresa in finanziamenti dissenso e l'incapacità delle organizzazioni della società civile "progressisti" e collettivi pacifisti per affrontare in modo efficace la marea di disinformazione dei media e della propaganda di guerra.
Michel Chossudovsky, Montreal, dicembre 2014
Commendations
La globalizzazione della guerra è un libro di straordinaria importanza. Si tag l'origine di una lunga serie di guerre e conflitti, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, come i prodotti diretti della politica estera degli Stati Uniti. Nulla accade per caso. Provocatori degli Stati Uniti, di solito gli agenti della CIA, incitano un conflitto dopo l'altro in quello che Michael Chossudovsky etichette America "Lunga Guerra" contro l'umanità.
Si compone di una guerra su due fronti. I paesi che possono sia essere "acquistato", o destabilizzato da un sistema finanziario internazionale corrotto, sono bersagli facili per la conquista efficace. In altri casi insurrezioni, rivolte e le guerre servono a sollecitare l'intervento militare americano per riempire le tasche del complesso militare-industriale che il generale Eisenhower ci ha messo in guardia. Il "End Game" è un nuovo ordine mondiale che abbraccia una dittatura economica e militare dual pronto a usare armi atomiche e rischiare il futuro di tutto il genere umano per raggiungere i suoi scopi.
Michel Chossudovsky è una delle poche persone che conosco e che ha analizzato l'anatomia del Nuovo Ordine Mondiale e riconosciuti la minaccia per l'intera specie umana che è. La globalizzazione di guerra è un must read per chi preferisce pace e speranza alla guerra perpetua, la morte, la dislocazione e la disperazione.  Hon. Paul Hellyer, ex ministro canadese della Difesa nazionale
Il professor Michel Chossudovsky è la più realistica di tutti i commentatori di politica estera. Lui non mente-prezzo e la posizione, e lui non vende la sua anima per influenza. Il suo libro fornisce una valutazione onesta del pericolo estremo che neoconservatorismo egemonica e demoniaco americano rappresenta per la vita sulla terra.  Dr. Paul Craig Roberts , ex Assistente Segretario, Dipartimento del Tesoro, ex direttore del Wall Street Journal, l'ex Wm. E. Simon Sedia in Economia Politica, Centro per studi strategici e internazionali, Georgetown University. 
In questi momenti in cui la minaccia di estinzione dell'umanità dalle forze scatenate dalla dell'impero e dei suoi vassalli, è imperativo che si coglie la natura della bestia che ci minaccia con le sue guerre infinite perpetrate in nome dei più alti livelli di libertà.
Questo lavoro vitale da un insegnante eccezionale rimarrà una testimonianza duratura di onnicomprensiva umanesimo dell'autore e borse di studio, che è sempre stata inseparabile dal suo attivismo politico che abbraccia diversi decenni. Dovrebbe essere una lettura obbligatoria per coloro che cercano di capire, e quindi di contenere e respingere, gli attacchi compulsivi di guerre senza fine del egemone, con le sue bestialità sconfinati e crimini contro l'umanità .. Dr Frederic F. Clairmonte , premiato autore ed economista politico, distinto (ex) analista economico in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD).
La globalizzazione della guerra è senza dubbio uno dei libri più importanti della situazione mondiale contemporanea prodotta in questi ultimi anni. Proviene dalla penna di uno degli scrittori più penetranti e incisive sulla politica mondiale e l'economia globale di oggi viva.
Nel suo ultimo capolavoro, il professor Michel Chossudovsky mostra come i vari conflitti che stiamo assistendo oggi in Ucraina, Siria, Iraq e Palestina sono infatti collegati tra loro e inter-bloccato attraverso un ordine del giorno a senso unico nel perseguimento di egemonia globale timonata dal Regno Stati e sostenuta dai suoi alleati in Occidente e in altre regioni del mondo. Questo machiavellico, ordine del giorno infatti, diabolica non solo ruota attorno guerre di conquista e di sottomissione, ma cerca anche di smembrare e distruggere Stati sovrani. Russia, Cina e Iran sono gli obiettivi primari di questa unità per il dominio e il controllo. Le motivazioni economiche alla base di questa unità si mimetizzano nelle vesti di un civilizzato occidentale di combattimento "barbaro terrorismo islamico", che, come Chossudovsky espone a volte viene promosso e sostenuto dalle reti intelligenti in Occidente.
Chossudovsky ha giustamente descritto questo Uniti agenda timonato per l'egemonia come "lunga guerra contro l'umanità." E 'una affermazione che è sostenuta da fatti concreti e analisi dettagliata in un lavoro brillante che dovrebbe essere letto da tutti coloro che sono preoccupati per l'umana prevalente condizione. E questo dovrebbe includere ogni cittadino del pianeta terra.  Dr. Chandra Muzaffar, presidente del Movimento Internazionale per un mondo giusto (JUST) ed ex professore di Global Studies presso l'Università Scienze della Malaysia.
I media, leader politici, accademici e il pubblico in generale spesso si dimentica di mettere in prospettiva storica la spirale di notizie ogni giorno: si tende a concentrarsi sugli ultimi eventi e crisi.
Questo potrebbe spiegare perché l'ultimo rapporto del Senato degli Stati Uniti sui voli di rendition della CIA, i luoghi di detenzione in interi neri e l'uso della tortura in seguito 9/11 attacchi e l'invasione dell'Iraq è stato ricevuto come una sorpresa e sconvolgente notizia. Tali pratiche sono ben conosciuti dalla comunità internazionale e rappresentato, tra gli altri, in un certo numero di documenti delle Nazioni Unite, nonché nelle relazioni di Dick Marty all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa.
Il comportamento di questo CIA ha una lunga storia tra cui piani di assassinio di leader politici, colpi di stato, gli attacchi terroristici e altre azioni sovversive che si fondono in un modello ricorrente.
La Pax Americana come la Pax Romana è stata costruita attraverso le guerre e il dominio. Generale Smedley D. Butler, un eroe e il soldato più decorato degli Stati Uniti avevano già denunciato la politica degli Stati Uniti nel suo libro "La guerra è un racket", scritta più di 70 anni fa.
Il libro di Michel Chossudovsky "La Globalizzazione della guerra" ha il grande merito di mettere in prospettiva storica il progetto egemonico che è stata effettuata dagli Stati Uniti attraverso vari secoli per il controllo e lo sfruttamento delle risorse naturali.  José L. Gomez del Prado ,  ONU Independent Human Rights Esperto,  ex membro del Gruppo delle Nazioni Unite per l'uso di mercenari
Michel Chossudovsky è leader mondiale nel comunicare informazioni critiche che pochi o nessuno sa.Lui è una guida perfetta per l'Oriente europeo alla Russia la guerra ora in divenire.  John McMurty , professore emerito, Guelph University, membro della Royal Society of Canada
Michel Chossudovsky classifica come leader esperto mondiale sulla globalizzazione - un'arma egemonica che autorizza élite finanziarie e schiavizza il 99 per cento della popolazione mondiale. La globalizzazione della guerra espone operazioni segrete ingaggiando una guerra economica che mira a destabilizzare le economie nazionali ritenuti ostili agli Stati Uniti e ai suoi alleati della NATO. La dimensione militare delle strategie egemoniche occidentali minaccia di scatenare una guerra globale permanente. Il libro di Chossudovsky è dinamite diplomatico - e il fusibile brucia rapidamente.  Michael Carmichael, Presidente del Movimento Planetario 

La Bce può coprirci di euro: ci salverebbe, perciò non lo fa

La Bce può coprirci di euro: ci salverebbe, perciò non lo fa




«Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostrademocrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostraeconomiareale, resuscitandola di colpo.
«Tutti sanno che la Bce è il monopolista dell’euro, solo lei e le suebanchecentrali possono emetterlo, e lo danno ai governi comprandogli ogni tanto titoli di Stato sul mercato secondario», scrive Barnard nel suo blog. «La paura dei politici europei del nord, ma anche dei nostri, è che se la Bce ci desse molti euro in più, tipo ci permettesse di spendere un 10% o un 12% nel limite di spesa statale (chiamato “deficit di bilancio”), potrebbe correre il rischio che Grecia o Francia o Belgio o Italia, un giorno, non siano più in grado di ripagare quei soldi della Bce». E allora, attenzione: «La Germania in testa, e tutti gli altri fagiani politici, sono convinti che se domani qualche Stato cui fu permesso di spendere di più (per salvare la sua gente) fa bancarotta, allora sarà la Germania a doverci mettere il mancante». Si tratta di una «idiozia olimpionica, da qualsiasi punto di vista della macro-economia». Perché? Semplice: perché la Bce, potendo emettere moneta senza limite, non può mai temere di ritrovarsi a corto di denaro per ripianare eventuali buchi.
«Facciamo che la Spagna non restituisca la sua spesa alla Bce», esemplifica Barnard. «Cosa succede alla Bce? Ha un buco nel bilancio. E questo dà un brutto segnale agli azionisti che toglieranno un po’ di soldi dal capitale della Bce (azioni)». Facile immaginarlo: «Tutti i tecnocrati e i politici a strapparsi i capelli». Aiuto, la Bce ha perso capitale: orrore, ora “la Germania deve ripagare la perdita”. No, tutto sbagliato. «Così come è vera e giusta la legge di gravità, è vero e giustissimo che la Bce non ha mai bisogno di un certo livello di capitale, per funzionare: mai e poi mai. Perché non è Unicredit, o Deutsche Bank, o Carisbo, cioè avventurosi privati. La Bce è il monopolista della moneta, è il Re, è Dio con l’euro, non la ferma nessuno, mai. Impossibile». E allora, «perché ci fanno morire, agonizzare, disperarci in un oceano di disoccupazione, con ’sta balla», secondo cui la Bce non potrebbe «rischiare di permettere agli Stati euro di spendere per noi cittadini molto di più, per paura di perdere capitale?». Risposta: «Perché i politici non hanno la più pallida idea di come funzionano le operazioni monetarie di una banca centrale. E noi crepiamo». La verità, conclude Barnard, la conoscono «pochissimi tecnici, a Francoforte e a Bruxelles, alla Bocconi, a Berlino: sanno benissimo che quello che dico è vero, e stanno zitti per sentirci urlare». Bisogna «scoprire chi sa e tace», perché questi «sono crimini contro la civiltà europea, più devastanti di unaguerra».
«Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostra democrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostra economia reale, resuscitandola di colpo.
«Tutti sanno che la Bce è il monopolista dell’euro, solo lei e le sue banche centrali possono emetterlo, e lo danno ai governi comprandogli ogni tanto titoli di Stato sul mercato secondario», scrive Barnard nel suo blog. «La paura dei politici europei del Mario Draghinord, ma anche dei nostri, è che se la Bce ci desse molti euro in più, tipo ci permettesse di spendere un 10% o un 12% nel limite di spesa statale (chiamato “deficit di bilancio”), potrebbe correre il rischio che Grecia o Francia o Belgio o Italia, un giorno, non siano più in grado di ripagare quei soldi della Bce». E allora, attenzione: «La Germania in testa, e tutti gli altri fagiani politici, sono convinti che se domani qualche Stato cui fu permesso di spendere di più (per salvare la sua gente) fa bancarotta, allora sarà la Germania a doverci mettere il mancante». Si tratta di una «idiozia olimpionica, da qualsiasi punto di vista della macro-economia». Perché? Semplice: perché la Bce, potendo emettere moneta senza limite, non può mai temere di ritrovarsi a corto di denaro per ripianare eventuali buchi.
«Facciamo che la Spagna non restituisca la sua spesa alla Bce», esemplifica Barnard. «Cosa succede alla Bce? Ha un buco nel bilancio. E questo dà un brutto segnale agli azionisti che toglieranno un po’ di soldi dal capitale della Bce (azioni)». Facile immaginarlo: «Tutti i tecnocrati e i politici a strapparsi i capelli». Aiuto, la Bce ha perso capitale: orrore, ora “la Germania deve ripagare la perdita”. No, tutto sbagliato. «Così come è vera e giusta la legge di gravità, è vero e giustissimo che la Bce non ha mai bisogno di un certo livello di capitale, per funzionare: mai e poi mai. Perché non è Unicredit, o Deutsche Bank, o Carisbo, cioè avventurosi privati. La Bce è il monopolista della moneta, è il Re, è Dio con l’euro, non la ferma nessuno, mai. Impossibile». E allora, «perché ci fanno morire, agonizzare, disperarci in un oceano di disoccupazione, con ’sta balla», secondo cui la Bce non potrebbe «rischiare di permettere agli Stati euro di spendere per noi cittadini molto di più, per paura di perdere capitale?». Risposta: «Perché i politici non hanno la più pallida idea di come funzionano le operazioni monetarie di una banca centrale. E noi crepiamo». La verità, conclude Barnard, la conoscono «pochissimi tecnici, a Francoforte e a Bruxelles, alla Bocconi, a Berlino: sanno benissimo che quello che dico è vero, e stanno zitti per sentirci urlare». Bisogna «scoprire chi sa e tace», perché questi «sono crimini contro la civiltà europea, più devastanti di una guerra».

Ucraina - La nuova fase del conflitto e gli interessi in gioco

Ucraina - La nuova fase del conflitto e gli interessi in gioco

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di Andrea Ferrario
Dopo un periodo frenetico di trattative a tutti i livelli, la situazione nell’Ucraina Orientale sembra essere nuovamente degenerata. Tutte le parti in causa in realtà hanno motivi per essere interessate a un compromesso, ma le loro motivazioni diverse rendono difficile conseguirlo.
La situazione in Ucraina ha registrato una nuova forte escalation dopo che i tentativi di trovare soluzioni diplomatiche hanno subito una battuta d’arresto. Qui di seguito facciamo un riassunto del modo in cui si è arrivati agli ultimi sviluppi e della situazione attuale, per poi tentare alcune ipotesi sul retroterra dell’escalation e sulle motivazioni che muovono i singoli attori del conflitto, cioè rispettivamente l’Ucraina, i separatisti, la Russia e l’Occidente.

Gli sviluppi più recenti
A partire da metà dicembre la tregua che era stata firmata a Minsk il 5 settembre scorso è sembrata per la prima volta tenere, fatta eccezione per isolati incidenti di lieve entità. Contemporaneamente, nel periodo che va dalla settimana prima delle feste natalizie fino alla prima metà di gennaio, è stato un fiorire di frenetiche iniziative di pace. Difficile riassumerle a posteriori, è sufficiente dire che si sono mobilitati con ripetuti incontri tutti i canali esistenti, dai “quattro della Normandia” (i ministri degli esteri di Ucraina, Russia, Germania e Francia), fino al Gruppo di Contatto (Ucraina, Russia, Osce, separatisti), a svariate commissioni, al presidente bielorusso Lukashenko e, soprattutto, al presidente kazako Nazarbaev. Nessuno degli incontri ha portato a risultati concreti. Quello che avrebbe dovuto essere il più importante e probabilmente la sede per un nuovo accordo di pace (quello previsto nella capitale kazaka Astana per il 15 gennaio tra Poroshenko, Putin, Hollande e Merkel), è stato annullato e rimandato a data da definirsi. Il ripetersi a scadenze serrate di incontri negoziali che non portano a risultati non vuole necessariamente dire che le trattative sono completamente in alto mare. Può significare anche che si sta discutendo di aspetti molto concreti, non più solo generici come prima, con la conseguenza che il braccio di ferro si fa più difficile. Questa ipotesi sembra confermata dal fatto che i rappresentanti delle varie parti hanno sempre tenuto un assoluto riserbo sui contenuti dei recenti negoziati, un ulteriore segno del fatto che sono in discussione temi fondamentali. Riguardo a questa serie di trattative va poi rilevato un particolare molto importante: per la prima volta gli Usa non prendono in alcun modo parte al processo negoziale. A livello Ue ci sono invece chiare disparità di linea tra la Germania, che ormai da alcuni mesi ha invertito la rotta e tiene un atteggiamento più duro nei confronti della Russia, e la Francia, il cui presidente si è spinto a cavallo tra dicembre e gennaio fino ad auspicare a chiare lettere una cessazione delle sanzioni perché, citiamo le sue parole, Mosca avrebbe già pagato abbastanza. Secondo la maggior parte degli analisti i punti di discordia fondamentali sono i futuri assetti del Donbass e, su un altro fronte, le modalità di controllo dei confini con la Russia, che Mosca vuole a tutti i costi mantenere completamente porosi.
Dal 10 gennaio circa c’è stata una ripresa degli scontri armati tra separatisti e forze di Kiev, incentrati in particolare sull’aeroporto di Donetsk, ma con focolai anche in altri punti su tutta la linea di divisione tra le due parti del conflitto, con un numero notevole di vittime tra la popolazione civile. La maggior parte degli osservatori di norma più attenti ha commentato all’avvio di questa nuova fase che probabilmente la ripresa dei combattimenti era da considerarsi un “alzare la posta” in un momento in cui le trattative si facevano maggiormente concrete. Sul campo comunque non si registrano più solo scambi di artiglieria, bensì quella che sembra essere un’offensiva da parte dei separatisti. Le forze ucraine hanno perso il controllo dell’aeroporto di Donetsk (di valenza più simbolica che effettiva), le formazioni separatiste stanno attaccando intensamente la sacca di Debaltsevo, che interrompe le comunicazioni dirette tra Lugansk e la capitale del Donbass, e cercano di avanzare a nord di Donetsk. Combattimenti sono in corso anche sulla linea di contatto nell’area di Lugansk, dove entrambe le parti sembrano essere ferme. Dopo le stragi di Volnovacha e Donetsk, nelle quali sono stati colpiti autobus, il 24 gennaio c’è stato il pesante bombardamento di un quartiere di Mariupol, lontano da obiettivi militari rilevanti, che ha causato 30 vittime civili. I separatisti hanno annunciato nella stessa data un’avanzata verso la città, con l’intenzione di prenderla d’assedio. Se confermato, il tentativo di prendere Mariupol (oltre 400.000 abitanti) per mano militare sarebbe uno scenario da incubo. I separatisti non sarebbero certamente in grado di condurre da soli un’avanzata di questa portata, e nemmeno di sostenere semplicemente scambi di artiglieria intensi (sul perché e sulla situazione interna dei separatisti si veda sotto), è evidente quindi che dietro all’escalation c’è una decisione di Mosca, con i relativi rifornimenti di armi e supporti logistici - non ci sono invece conferme indipendenti sufficientemente attendibili di una presenza diretta delle forze armate russe, come invece era avvenuto ad agosto. Le forze armate di Kiev si sono sicuramente riorganizzate negli ultimi mesi dopo la disastrosa sconfitta di agosto, dovuta sia all’incompetenza dei vertici militari sia alle velleità politiche dei “patrioti” Poroshenko e Yatsenyuk. Fino a quale punto sia stata efficace questa riorganizzazione lo si vedrà probabilmente nelle prossime settimane. Intanto Poroshenko ha decretato una nuova fase di mobilitazione della popolazione che coinvolgerà oltre centomila cittadini, che per la maggior parte verranno però impiegati per una rotazione degli effettivi sul campo. Un forte handicap per i militari ucraini è l’impossibilità di utilizzare l’aviazione, dopo che l’abbattimento dell’aereo malese a luglio ha “sancito” che i separatisti/i russi sono in grado di abbattere aerei fino a un’altezza di diecimila metri nei cieli ucraini. Per le popolazioni civili ovviamente si tratta di un fatto positivo, visto che i colpi dell’aviazione ucraina sono stati responsabili di una buona parte delle vittime del conflitto nel periodo giugno-luglio.
Al quadro complessivo va aggiunto il moltiplicarsi e l’intensificarsi da due mesi a questa parte degli attentati al di fuori del Donbass. I casi sono stati particolarmente numerosi a Kharkiv e a Odessa, ma sono state colpite anche Kherson e la regione di Zaporozhie. Vengono presi di mira soprattutto luoghi di ritrovo di sostenitori di un’Ucraina unita, edifici pubblici e infrastrutture. Gli attentati sono tutti rigorosamente anonimi e non rivendicati: più che a una tradizionale organizzazione terroristica si ha quindi l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “gruppi di sabotaggio” che operano nelle retrovie ucraine. Si registra inoltre un notevole salto di qualità nelle dichiarazioni dei dirigenti separatisti: il capo della “repubblica di Donetsk” (RPD), Aleksandr Zakharchenko, ha dichiarato a chiare lettere che i separatisti non rispetteranno più la tregua siglata a Minsk. E’ la prima volta che una delle parti del conflitto lo dice apertamente. Zakharchenko ha poi rincarato la dose dando l’ordine ai suoi uomini di “non prendere più prigionieri, perché non abbiamo più bisogno di scambi” come invece era avvenuto finora a intervalli regolari: si tratta nei fatti di un’autorizzazione a uccidere i soldati ucraini catturati. Rimane però nel complesso il fatto che ipotizzare un’avanzata in condizioni ambientali ancora di pieno inverno appare molto azzardato, senza poi tenere conto che l’esercito ucraino è in grado di opporre una resistenza. Infine, sul terreno la situazione sociale si fa sempre più catastrofica, in particolare nelle repubbliche separatiste, dove l’economia è ferma da mesi, le medicine stanno finendo e si moltiplicano da ogni parte le voci di morti di fame. Secondo gli ultimi dati diffusi da Onu e Osce il numero complessivo delle vittime dall’inizio del conflitto fino a oggi ha superato le 5.000 (militari più civili). L’Onu ha poi diffuso il dato secondo cui i profughi sarebbero in totale oltre 1,5 milioni, per la stragrande maggior parte provenienti dal Donbass - di questi 950.000 sarebbero fuggiti in Ucraina e 600.000 in Russia. Va precisato che si tratta di numeri da prendere con le dovute riserve, perché l’Onu non effettua alcuna verifica autonoma e si limita semplicemente a raccogliere e ridiffondere i dati che le vengono forniti dai governi di Kiev e Mosca. Ma indipendentemente dai calcoli esatti, i numeri sono sicuramente quelli di una catastrofe di dimensioni enormi per la popolazione civile.
Dopo questo riassunto degli sviluppi salienti delle ultime settimane, passiamo ora ad analizzare le posizioni delle varie parti del conflitto e a formulare qualche ipotesi, naturalmente con beneficio d’inventario vista la complessità di una situazione che si evolve in modo molto rapido e confuso, e spesso non verificabile in tutti i dettagli.
Ucraina
Apriamo dicendo subito che, a nostro parere, il potere di Kiev è quello per i cui equilibri interni l’ipotesi di una guerra aperta è meno problematica. La troika Poroshenko-Yatsenyuk-Turchinov, insieme all’oligarchia della quale cura gli interessi, è impegnata nel tentativo di ricreare un sistema compatto in seguito alla disgregazione istituzionale successiva alla caduta di Yanukovich. Dopo le travagliate fasi del caos successivo a Maidan e poi dell’interregno della gestione Poroshenko iniziata a fine maggio, lo svolgimento delle elezioni di fine ottobre e la successiva difficile formazione di un governo hanno creato le basi per un ricompattamento nella nuova situazione. I metodi ai quali le autorità ricorrono sono sempre più di segno autoritario, dalla legge contro il terrorismo di quest’estate, alla più recente bozza di una legge sulla polizia, alla creazione di un ministero dell’informazione e alla prevista riforma del codice del lavoro, per non parlare poi dell’accresciuto ruolo di esponenti neofascisti nella vita istituzionale e politica. Inoltre, sono state approvate in violazione della costituzione norme che conferiscono personalmente al presidente del Consiglio di Sicurezza, Turchinov, poteri straordinari in campo militare e repressivo, in assenza di un adeguato controllo. La situazione economica è disastrosa e più che “sull’orlo del default” è di “default di fatto”, come d’altronde ammettono le stesse autorità. Nel 2014 il Pil è calato di circa il 7,5%, la hrivna ha perso oltre il 50% del proprio valore, l’inflazione si aggira sul 25% e le riserve in valuta sono crollate a soli 7,5 miliardi di dollari, quando a inizio 2014 erano a un già magro livello di 20 miliardi. Secondo le stime, Kiev necessita di prestiti per altri 15-20 miliardi di dollari, dopo i 17 miliardi già stanziati nel 2014 (ma corrisposti solo in parte). Si tratta di cifre che nessuno si illude possano servire a rilanciare l’economia ucraina, e la funzione dei fondi sarebbe unicamente quella di tapparne le falle più grosse per un periodo limitato. E’ chiaro che a questo punto i costi per la cosiddetta “comunità internazionale” si stanno facendo molto alti. Il governo Yatsenyuk ha approvato prima delle feste natalizie un bilancio che prevede pesantissimi tagli alla spesa sociale, in particolare all’educazione e alla sanità, con un forte aumento in termini reali della spesa militare. Inutile dirlo, i costi delle malefatte degli oligarchi prima, e della guerra poi, vengono scaricati per intero sui lavoratori, mentre gli interessi dei capitalisti non vengono per nulla toccati dal nuovo governo, che opera d’altronde in alleanza con loro.
La troika al potere oggi a Kiev è controrivoluzionaria nel vero senso della parola, perché sta portando a termine una politica mirata a seppellire definitivamente il processo rivoluzionario apertosi con Maidan, con l’obiettivo di rinstaurare sotto nuove sembianze un regime che replica nella sua essenza quello precedente, con la differenza sostanziale che è scomparso l’attore primario (Yanukovich e la sua “famiglia”, il cui sottobosco però è ancora vivo e vegeto) e che un altro (l’oligarca Rinat Akhmetov) è stato per ora messo “nel freezer”. Il sistema oligarchico viene infatti nella sua essenza preservato sia in termini politici che in termini economici, le politiche repressive approvate seguono la traccia di quelle famigerate introdotte, e poi ritirate, da Yanukovich nel tentativo di soffocare Maidan, mentre quelle economiche e sociali sono per il loro carattere un proseguimento di quelle del precedentemente regime, solo intensificate a causa delle conseguenze della guerra. Si può dire paradossalmente che il potere di Kiev è alla fine diventato un alleato del regime di Putin in quella che secondo noi è la vera guerra che ha originato il conflitto: quella contro le aspirazioni democratiche popolari di cui Maidan è stata espressione. E’ quindi banale trarne la conseguenza che in questa situazione al governo di Kiev la guerra conviene, almeno nella prospettiva di breve respiro tipica di un regime autoritario: si mandano decine di migliaia di giovani e lavoratori a morire o a deperire al fronte, si fa passare un clima patriottico che soffoca ogni dibattito con l’accusa di traditore a chi dissente e al contempo si ha un’economia di guerra che è ideale da una parte per lo sfruttamento dei lavoratori, e dall’altra per le ruberie degli oligarchi. I possibili esiti per una parte in guerra però sono tre: una vittoria, una sconfitta e un limbo di “guerra latente” che dura molto a lungo. La nostra opinione è che in tutti i tre casi Kiev, intesa come vertici politici e sistema oligarchico, non certo come popolazione dell’Ucraina, ha la possibilità di rafforzarsi o perlomeno di mantenere e consolidare la propria attuale posizione. In caso di vittoria e di guerra latente (termine impreciso, con il quale indichiamo l’attuale situazione di guerra per il momento non ancora a tutto campo) è evidente che il potere ucraino potrebbe continuare a seguire indisturbato la propria opera di consolidamento grazie al clima “patriottico”. Una sconfitta militare sarebbe più difficile da gestire, ma dopo quella disastrosa di agosto il governo di Kiev ha dimostrato di sapere volgere anche una situazione del genere a proprio vantaggio: anche l’essere vittime e promettere una rivincita offre nel contesto dato un’arma politica potente, se si è capaci di usarla.
C’è comunque un grande “ma”. Quali sarebbero i destini del Donbass rispettivamente in caso di vittoria o di sconfitta di Kiev(nel caso della “guerra latente” lo stiamo vedendo già ora)? Nessuno ha la bacchetta magica per dirlo con esattezza, ma secondo noi gli esiti potrebbero essere di natura simile in entrambi i casi. Dopo la sua elezione Poroshenko ha optato per una scelta rivelatasi sotto tutti i punti di vista sciagurata, quella dell’azione militare di vasta portata. Non ci riferiamo tanto al periodo da metà giugno a inizio luglio, in cui le operazioni sono state tutto sommato ancora limitate, anche e soprattutto in termini di vittime civili. Ci riferiamo invece al “dopo presa di Slavyansk”, quando la tattica di Kiev è stata quella degli assedi dei grandi centri urbani con i criminali bombardamenti contro Donetsk e Lugansk (in quest’ultimo caso i bombardamenti sono stati opera in larga parte anche dei separatisti, ma grazie alla tattica scelta dai vertici militari ucraini i miliziani delle “repubbliche” hanno avuto gioco facile a presentarli alla popolazione come opera esclusiva delle forze di Kiev). E’ chiaro a tutti oggi, e di sicuro anche ai vertici di Kiev, che dopo le migliaia di morti e le enormi distruzioni è semplicemente impensabile una ripresa di controllo della regione che riporti alla situazione di prima. Una soluzione conveniente per loro però i vertici ucraini potrebbero facilmente trovarla e sarebbe quella di ripristinare le vecchie reti politico-economiche oligarchiche utilizzando come pedina il Blocco di Opposizione (cioè quel che rimane del Partito delle Regioni), che ha ottenuto un risultato insperato alle ultime elezioni e al quale potrebbe essere “riappaltato” il Donbass con una tornata elettorale locale, che gli ex uomini di Yanukovich potrebbero gestire senza timori di subire intralci da parte di una popolazione ormai affamata e disperata. Inoltre, l’attuale dirigenza delle “repubbliche” separatiste è composta da ex uomini del sottobosco locale di Yanukovich, a partire dai due rispettivi capi Zakharchenko e Plotnickiy, fino al comandante Khodakovskiy e ai leader neofascisti che hanno sempre operato in sintonia con il potere della “famiglia” dell’ex presidente: tutti personaggi che non avrebbero nessuna difficoltà a collaborare con gli ex del Partito delle Regioni. Su un altro fronte, Kiev potrebbe decidere di “scongelare” l’oligarca Akhmetov che, fatta eccezione per alcune dichiarazioni a uso propagandistico, nessuno si è mai sognato di colpire nei suoi interessi personali o economici, né a Kiev né tra i separatisti, e che non a caso è molto attivo nel fornire aiuti umanitari al Donbass. La foto in cui i presunti “acerrimi nemici” Akhmetov e Kolomoyskiy si sono fatti ritrarre teneramente abbracciati durante la cerimonia di inaugurazione di Poroshenko è un simbolo di come gli oligarchi siano sempre pronti ai compromessi più spregiudicati. Lo stesso Poroshenko è un uomo con un passato nel regime di Yanukovich, mentre i vari Yatsenyuk, Avakov & Co. hanno ampia esperienza di gestione di compromessi con le elite locali, quando necessario. Una soluzione del genere potrebbe convenire anche alla Russia, per la quale però ogni eventuale uscita dalla guerra sarebbe più complessa, come vedremo sotto. Stante il riuscire a conseguire accordi sugli aspetti più delicati (controllo dei confini, per esempio), Mosca potrebbe dare il suo patrocinio a una tale soluzione. Se gestita bene, questa ipotesi potrebbe valere anche in caso di una sconfitta militare di Kiev, ma Mosca dovrebbe in tale evenienza avere un ruolo maggiore e, di conseguenza, assumersi anche oneri più alti. In entrambi i casi, per la popolazione della regione si profilerebbe un futuro all’insegna della repressione e dello sfruttamento. Naturalmente tutto questo vale solo nel caso in cui la guerra dovesse limitarsi al solo Donbass. Se la Russia dovesse decidere di perseguire il progetto della “Novorossiya” fino a Odessa a Ovest e Charkiv a nord, per l’attuale Ucraina sarebbe un colpo mortale - attualmente non sembra un’ipotesi all’ordine del giorno, ma non la si può escludere del tutto, visto che a Mosca esistono potenti (e criminalmente folli) lobby che con ogni probabilità continuano a prenderla in considerazione.
Separatisti del Donbass
Nella “Repubblica di Donetsk” (RPD) e in quella di Lugansk (RPL) sembra ormai quasi portato a termine il lavoro di pulizia interna. Come ampiamente riferito dalle cronache, l’1 gennaio nella RPL è stato ucciso in modo brutale ed eclatante il comandante Aleksandr Bednov “Batman”, esponente della cosiddetta ala radicale le cui truppe erano state rafforzate in autunno da volontari neonazisti della formazione “Rusich”, provenienti dalla Federazione Russa. Dopo la sua uccisione, un altro dei comandanti più importanti di tale ala, Pavel Dremov, che come l’estremista di destra Mozgovoy era uno dei beniamini della sinistra internazionale filoseparatista, ha prontamente chinato il capo accettando di diluire le sue forze in quelle della RPL solo alcuni giorni dopo avere pubblicato un proclama di guerra contro la dirigenza della “repubblica” accusata di essere ladra, terrorista e affamatrice del popolo. Altri comandanti noti sono stati disarmati nell’area al confine con la Russia. Il caso dell’uccisione di Bednov è però un’eccezione: la cosa che più impressiona finora in realtà è come la quasi totalità dei leader più prestigiosi sia andata pacificamente in pensione a Mosca o in Crimea seguendo docilmente quelli che evidentemente sono gli ordini del Cremlino. A rendere ancora più cupo il clima interno delle “repubbliche” c’è stato l’annuncio di Zakharchenko che a gennaio verrà introdotta la pena di morte, sebbene si tratti in realtà di una formalità di valenza più che altro simbolica, visto che nei fatti la pena capitale viene già praticata in modo massiccio nelle due “repubbliche”.

La situazione economica, come già ricordato, è disperata. Ciò è dovuto non solo alla guerra e al blocco economico messo in atto da Poroshenko da dicembre, ma anche alla rapina sistematica operata dai separatisti e agli aiuti economici fino a oggi quasi inesistenti della Russia. E’ in atto un vero e proprio disfacimento della società: non c’è lavoro, nei pochi casi in cui c’è raramente viene retribuito, i pensionati fanno letteralmente la fame, i negozi sono riforniti, ma la popolazione non ha i soldi per acquistare prodotti, fatta eccezione per la borghesia separatista e quella speculatrice che popolano senza ritegno i ristoranti nel centro di Donetsk. Le istituzioni esistono solo sulla carta, tutto va avanti in qualche modo con gli sbrigativi metodi mafioso-polizieschi dei leaderini locali. I separatisti pagano il prezzo della loro stessa natura, cioè quella di essere sempre stati un corpo estraneo alla popolazione locale, capaci di sopravvivere solo grazie al sostegno di quanto è rimasto del sistema oligarchico di Yanukovich e a Mosca. Nei lunghi mesi di pace e di guerra in cui hanno avuto il controllo della situazione non sono mai riusciti a ottenere un sostegno di massa, o comunque il sostegno attivo di settori importanti della popolazione. Quando si sono insediati ad aprile nell’indifferenza della stragrande maggior parte della popolazione, la prima cosa che hanno fatto, invece di lottare per i loro presunti e inesistenti obiettivi di “liberazione”, è stato procedere immediatamente a reprimere ogni possibile opposizione mediante uccisioni ben selezionate di ogni potenziale oppositore politico o sindacale, l’uso sistematico della tortura e arresti arbitrari tra gli elementi emarginati della società (in particolare proletari e giovani). La manifestazione antiseparatista del 28 aprile a Donetsk, che per numeri era analoga alle punte massime raggiunte in rare occasioni dai separatisti, nonostante scendere in piazza volesse dire allora mettere a rischio la propria vita, è stato l’ultimo tentativo di opporsi all’oppressione delle milizie. Dopo di allora, chi ha potuto è fuggito, chi non ha potuto si è dovuto piegare alle repressioni.
Le due matrici del separatismo, cioè il neofascismo panrusso e il sistema capitalista oligarchico dell’Ucraina Orientale, sono sempre ben vive e rappresentate dalla situazione attuale di repressione sistematica e politiche guerrafondaie nel Donbass. Non è un caso nemmeno che i separatisti non siano mai riusciti non solo a mobilitare la popolazione, ma nemmeno a reclutare combattenti in modo consistente. Anche se è impossibile fare stime precise, secondo le ampie testimonianze raccolte dai media indipendenti, e in particolare da quelli russi che meglio riescono a muoversi nella regione, negli ultimi tempi i “volontari” venuti dall’esterno potrebbero costituire addirittura più della metà dei combattenti separatisti. In particolare, nelle ultime settimane sarebbe incrementato il numero e il ruolo di “volontari” ceceni inviati da Ramzan Kadyrov. In questo momento, per esempio, questi ultimi controllano l’importante città di Krasnodon e sono stati loro a disarmare alcuni comandanti locali in altre zone della RPL. Una conferma del loro ruolo sempre più importante la si è avuta quando qualche giorno fa hanno rapito per 24 ore una figura di spicco come il “governatore popolare” Pavel Gubarev al fine di intimidirlo. I separatisti quindi non possono aspirare in alcun modo ad agire in autonomia, tanto meno a rappresentare gli interessi delle popolazioni locali. Rimangono, e anzi sono sempre più, solo delle marionette di Mosca che in qualche occasione in primavera avevano temporaneamente accennato a qualche velleitario colpo di testa per motivi di ambizione personale, ma che hanno comunque messo sempre al primo posto gli interessi del Cremlino. E’ pertanto da escludersi la loro capacità di dare vita a repubbliche anche solo in minima misura indipendenti. Al massimo potrebbero fare da luogotenenti per una nuova versione locale della Transnistria su commissione di Mosca, con un pari brutale sfruttamento della popolazione da parte di un’elite capitalista di stampo mafioso. Tuttavia il Donbass, sia per dimensioni geografiche e di popolazione che per rilevanza economica e geopolitica, difficilmente potrebbe durare a lungo come nuova versione della Transnistria. L’aspirazione della quasi totalità dei simpatizzanti passivi dei separatisti è invece con ogni probabilità quella di un’annessione alla Russia, con le sue pensioni relativamente più alte e il clima di ordine e disciplina. Ma la Russia evidentemente non ne vuole sapere. Per cui anche per i separatisti, visto quanto sopra descritto, l’opzione più razionale appare quella di un Donbass formalmente nei confini dell’Ucraina, ma con un alto grado di “autonomia” e un ampio controllo economico e politico indiretto da parte di Mosca. I loro leader provengono dal sottobosco dell’oligarcato, in collaborazione con il quale potrebbero costruire un nuovo Donbass “etnicamente ripulito” dalla popolazione di nazionalità ucraina maggioritaria fino all’inizio del conflitto. Per farlo sarebbe semplicemente necessario ripulire ulteriormente le proprie fila dalle teste più calde e da chi ha commesso crimini troppo impresentabili: nulla di più facile. In alternativa, in caso di un’operazione militare russa per la conquista della “Novorossiya”, i separatisti potrebbero fare da paravento per l’invasione e da organi repressivi locali. Le operazioni di pulizia effettuate finora dai separatisti nelle proprie fila fanno pensare che Mosca le abbia imposte per disporre sul terreno di strutture locali più affidabili in vista di qualche formula di compromesso sul Donbass e che quindi al Cremlino abbia vinto l’ala più “liberale” (per usare un comodo eufemismo) a svantaggio di quella “radicale” del complesso militare-industriale. Ma potrebbe essere un inganno. E’ possibile infatti che i “radicali” del Cremlino abbiano accettato di sacrificare i comandanti da loro protetti (rimane praticamente solo Mozgovoy) per favorire una maggiore stabilità nelle “repubbliche” dopo avere raggiunto con i “liberali” un compromesso che tenga maggiore conto della linea voluta dalla lobby militare-industriale. Gli sviluppi di questi ultimissimi giorni potrebbero essere un segno di questo spostamento su obiettivi più radicali.
Russia
Le mosse della Russia di Putin sono tradizionalmente difficili da anticipare e interpretare. La sicurezza garantitale dalla rendita economica energetica e da un sistema di verticale oligarchica efficace nel garantire l’ordine interno avevano permesso finora al Cremlino di essere spregiudicato nelle proprie mosse. Oggi le cose però stanno cambiando rapidamente. Se l’Ucraina è in situazione di default di fatto, la Russia è sull’orlo del baratro economico, con la differenza che la prima era già in una situazione analoga negli anni di Yanukovich e vi è ampiamente abituata, mentre per il regime di Putin si tratta di una novità. Non si può proprio dire però che sia una novità del tutto inattesa: è come minimo dall’inverno 2013, e comunque prima dell’esplosione di Maidan, che gli analisti spiegavano dati alla mano che la Russia stava andando inevitabilmente verso una grave crisi economica. Si trattava solo di capire se si sarebbe trattato di un vero e proprio sprofondare nel baratro, oppure di una lenta ma chiara discesa. La crisi del rublo è un segno del fatto che la prima ipotesi è all’ordine del giorno. La crisi dei prezzi delle materie prime energetiche acuisce ulteriormente i rischi, e di molto. Era comunque chiaro da più di un anno che il modello economico-politico di Putin, basato su una rendita energetica depredata al solo fine di tenere in piedi un elefantiaco sistema burocratico-capitalista redistribuendo una quota minima al ristretto ceto medio urbano e a parte dei dipendenti statali, non avrebbe più potuto continuare come prima. Si tratta sicuramente di un elemento che ha inciso fortemente sulle scelte del Cremlino riguardo all’Ucraina e che, soprattutto, lo ha spinto ad agire con urgenza per chiudere il capitolo di Maidan. Ora, con il rublo che ha perso l’80% del suo valore, l’inflazione in netto rialzo, la prospettiva che le rendite energetiche rimangano dimezzate per lungo tempo, un Prodotto Interno Lordo dato secondo le stime prevalenti in crollo del 5% nel 2015 e un settore aziendale dall’indebitamento altissimo, la Russia si trova di fronte alla necessità di fare scelte urgenti di portata ancora più ampia.

Nel loro complesso, la crisi economica interna e il conflitto con l’Ucraina rischiano di diventare una mina esplosiva per il regime del Cremlino. Quest’ultimo aveva gestito in modo molto efficace la sua guerra contro Maidan, in particolare con l’operazione dell’annessione della Crimea, portata a termine a regola d’arte anche perché chiaramente organizzata con cura ben prima della fine di Maidan. Nel Donbass le cose sono evidentemente state organizzate più in fretta, e comunque su un terreno molto più difficile per la Russia, vista la rilevanza del sistema oligarchico locale con cui era necessario fare i conti, da una parte, e una comunità russa locale molto meno compatta che in Crimea, dall’altra. Il Cremlino comunque alla fine è riuscito a gestire l’operazione in modo molto abile, soprattutto nell’intervenire militarmente in modo spudorato in estate senza subirne conseguenze diplomatiche disastrose, creando così tra l’altro un secondo importante precedente dopo quello della Crimea. Ma alla fine sembra essere caduto nella trappola in cui sempre più spesso cadono negli ultimi anni le potenze imperialiste: riescono a ottenere successi nel gestire la strategia di guerra e nel vincere militarmente, ma poi sono incapaci di gestire anche solo a medio termine la situazione sul terreno in modo razionale. Sotto svariati aspetti, il pantano russo nel Donbass del dopoguerra assomiglia a quello statunitense nell’Afghanistan o in Iraq. Per inglobare l’Ucraina Orientale o tenerla in vita come entità indipendente dopo una guerra distruttiva la stessa Russia dovrebbe essere uno stato con un sistema di garanzie sociali evolute e un’economia in grado di investire su progetti magari a bassa rendita immediata, ma con prospettive di crescita a lungo termine. Un sistema neoliberale, e per di più di carattere oligarchico-rentier come nel caso russo, è semplicemente incapace di farlo senza mettersi radicalmente in discussione. Il risultato è che le simpatie di cui poteva godere la Russia tra alcuni strati della popolazione del Donbass sono sicuramente calate di molto e continueranno sempre più a calare, dopo che finita la guerra di agosto il Cremlino ha nei fatti abbandonato a se stessa la regione, rendendo così ancora più complessa una soluzione che vada a vantaggio di Mosca.
Abbandonare definitivamente il Donbass, però, vorrebbe dire perdere fortemente di prestigio come potenza imperialista. Chi più tra i tanti russi che vivono in altri stati oserebbe in futuro guardare a Putin come a un salvatore? Quali altri gruppi si metterebbero con tanto ligio ossequio al suo servizio come manodopera dei suoi piani? Ma anche la crisi economica sta già intaccando fortemente il prestigio di Mosca. Il crollo del rublo sta provocando sconquassi simili nei due più importanti altri membri dell’Unione Eurasiatica, che appare un progetto sempre più fragile. In Bielorussia, Lukashenko ha dovuto svalutare la moneta locale del 30% e licenziare come capi espiatori sia il governo che il governatore della banca centrale. Anche in Kazakistan la moneta locale si è pesantemente svalutata, con tutti i conseguenti problemi. Le rimesse dei moltissimi immigrati dell’Asia Centrale che lavorano in Russia hanno perso drasticamente di valore, causando grandi problemi sia al Kazakistan che ad altri paesi come il Tajikistan e il Kirghizistan, dove le rimesse degli emigrati arrivano rispettivamente al 42% e al 31% del Pil. A gennaio poi è stato registrato un crollo dei rientri in Russia, dopo le feste, degli immigrati dall’Asia Centrale che evidentemente, in mancanza di prospettive di lavoro o di un reddito minimamente ragionevole, preferiscono hanno preferito rimanere nel loro paese: per paesi già fragili il ritorno in massa di una popolazione che rimarrà forzatamente disoccupata è altamente destabilizzante. Come se non bastasse, anche nella finora docile Armenia, una vera e propria colonia russa, sono esplose manifestazioni contro Mosca dopo l’ennesimo episodio di violenza criminale contro la popolazione locale da parte di soldati russi di stanza nel paese. La Russia, insomma, rischia di perdere progressivamente le più importanti leve di controllo proprio su quello “spazio ex sovietico” rispetto al quale ha tentato di ribadire il proprio diritto di veto con la guerra contro l’Ucraina.
Visto questo quadro, la scelta più razionale per il regime russo sembrerebbe essere quella di giungere a un compromesso come quello già dipinto sopra nella sezione sull’Ucraina, cioè qualche forma di “autonomia” larga nel Donbass sotto la tutela del vecchio sistema oligarchico, che consenta a Mosca da una parte di conservare un diritto di veto sul sistema politico-economico dell’intera Ucraina e dall’altra di tornare ai rapporti amichevoli con l’Occidente che erano in atto prima del 2013, guadagnando così più spazio di manovra per risolvere i propri gravissimi problemi economici. Se è questo a cui il Cremlino sta puntando adesso, il recente riaprirsi del conflitto potrebbe essere solo un alzare la posta in gioco in vista di trattative (con il rischio però sempre presente che la situazione sfugga di mano). A tale proposito va rilevato che il ministro degli esteri russo Lavrov ha ripetuto più volte nella sua ultima conferenza stampa che il Donbass deve rimanere nei confini dell’Ucraina, e questo è in sintonia con una possibile intenzione di giungere a un compromesso. Ma a uno Stato in preda a una crisi sistemica profonda come la Russia anche la guerra a tutto campo, magari perfino oltre i confini del Donbass, potrebbe apparire un soluzione accettabile di fronte al rischio di disgregarsi. La storia offre numerosi esempi a riguardo. Quindi riteniamo ancora una volta che tale ipotesi, per quanto appaia in questo momento improbabile, non sia da escludersi.
Occidente
I veri tre attori di questo conflitto sono la Russia, l’Ucraina e i separatisti. Le potenze imperialiste occidentali vi svolgono un ruolo importante, spesso con pesanti ingerenze sia politiche che economiche, ma in ultimo sono attori esterni. Per questo saremo più brevi in merito. Prima però una premessa che ci riallaccia direttamente a quanto scritto sopra a proposito della Russia. A sinistra sono molti coloro i quali ritengono che la Russia sia costretta a difendersi da quello che è un accerchiamento da parte della Nato (degli Usa), una posizione condivisa in termini simili anche da molta estrema destra e da numerosi conservatori che adottano una visione esclusivamente geopolitica. Tra questi ultimi sono non pochi quelli secondo cui la Russia agisce per ottenere una garanzia che l’Ucraina non entri a fare parte della Nato. Si tratta a nostro parere di un’ipotesi ridicola: quale mai “garanzia” sicura può ottenere uno stato sul comportamento futuro degli altri stati nelle odierne relazioni interimperialiste? L’Ucraina per esempio ha rinunciato al proprio arsenale nucleare a fronte della garanzia scritta della Russia e delle potenze occidentali che in cambio la sua integrità territoriale sarebbe stata rispettata: alla prima occasione la garanzia scritta è finita direttamente nella pattumiera. Non si fa una guerra per ottenere una garanzia che non ha nessun valore pratico in prospettiva: al Cremlino siedono sì dei guerrafondai, ma non così stolti da non rendersene conto. Riguardo all’accerchiamento da parte della Nato/degli Usa da un punto di vista puramente geopolitico non vi è alcun dubbio sulla sua esistenza, come testimoniano le innumerevoli cartine che i sostenitori di questa tesi producono di solito a grande volontà. Ma se si prova a guardare a tali sviluppi da un punto di vista diverso, cioè quello delle popolazioni dell’ex impero sovietico, la prospettiva cambia. L’Europa Orientale, cioè il terreno di espansione della Nato (insieme ai paesi dell’Asia Centrale che ospitano basi Usa), è un’area che ha vissuto per decenni una terribile oppressione a opera della Russia, basta prendere a esempio, tra i tanti possibili, proprio il caso dell’Ucraina. L’attuale regime russo è guidato da un erede diretto di questo sistema, l’ex agente del Kgb Putin, e l’intera dirigenza russa ha un’ascendenza analoga. La Russia è un paese profondamente autoritario, repressivo e reazionario, che da questo punto di vista non ha pari in Europa. In più, è uno stato fortemente retrogrado in termini economici e istituzionali, che non ha nulla da offrire ai paesi dall’area, come tra l’altro testimonia la mafia economico-politica che difende i suoi non irrilevanti interessi economici nell’area. A questo va aggiunto che lo stesso Stato russo ha centinaia di testate nucleari puntate sui paesi dell’area. Insomma, anche senza la Nato, la Russia sarebbe accerchiata da paesi ostili ed è lo stesso Cremlino che ha creato le condizioni fondamentali che favoriscono l’espansionismo imperialista occidentale. Non è secondo noi un caso che in realtà la Russia abbia convissuto per lungo tempo senza problemi, e la sua borghesia abbia prosperato non poco, con una Nato che si faceva sempre più vicina alle sue porte, e arrivava addirittura ai suoi confini nei Paesi Baltici. L’accerchiamento della Nato, sviluppatosi per un paio di decenni, non la ha mai portata a reagire con i fatti, nemmeno sotto il “duro” Putin, mentre una mobilitazione popolare come quella di Maidan, che metteva invece sì in discussione la sua esistenza, la ha spinta a intervenire immediatamente, a cominciare dalla Crimea. La tesi dell’accerchiamento come motivo che ha spinto la Russia “a reagire”, non sta in piedi di fronte a un’analisi meno ideologica rispetto a quelle geopolitiche. E così come viene promossa, questo tipo di analisi costituisce anche un ostacolo a un’autentica lotta contro l’imperialismo della Nato e dell’Ue, perché è di impedimento a una solidarietà con i lavoratori dell’Europa Orientale, che la realtà dell’imperialismo russo la hanno vissuta a lungo, sono ancora oggi concretamente esposti alle sue minacce di ogni natura e, di conseguenza, giustamente non potranno mai essere solidali con una posizione così reticente e ideologica.
Fatta questa fondamentale premessa, torniamo all’attuale posizione delle potenze occidentali rispetto al conflitto ucraino. Come abbiamo già rilevato all’inizio di questo articolo, nelle recenti settimane di frenetiche trattative gli Usa sono rimasti fuori dalla scena. Nessun loro rappresentante ha preso parte agli incontri e Washington non ha nemmeno rilasciato dichiarazioni rilevanti riguardo a un eventuale processo di pace. Anche se gli Usa sono stati fin dall’inizio meno attivi dell’Ue nella gestione di questo conflitto, si tratta di una differenza notevole. E’ impossibile in questo momento dire se si tratta di una ancora maggiore delega all’Ue, più direttamente coinvolta fin dall’inizio della crisi, oppure se è il preludio a un cambiamento di rotta. Prima degli ultimi sviluppi il senato Usa aveva per la prima volta autorizzato il Presidente a fornire aiuti militari all’Ucraina, ma finora Obama, come già in precedenza, si è astenuto dal mettere in atto una tale opzione. E’ possibile che nell’amministrazione americana siano in atto discussioni sull’eventuale percorrimento di questa strada. Nel momento in cui scriviamo tra l’altro, Poroshenko ha dichiarato che ci sarà presto un incontro nel “formato di Ginevra”, cioè tra Ucraina, Russia, Ue e Usa. Le numerose stragi civili dell’ultima settimana potrebbero perseguire tra le altre cose proprio il fine di spingere Washington a un maggiore impegno diplomatico, visto che l’Ue rimane poco efficace. Bruxelles da parte sua ha investito molto negli ultimi negoziati, ma c’è stata un’evidente differenza di linea tra la Germania, meno possibilista, e la Francia, più conciliante verso la Russia. Sullo sfondo c’è la scadenza delle sanzioni contro Mosca, sul rinnovo delle quali sarà complesso trovare l’indispensabile unanimità: quelle adottate in occasione dell’annessione della Crimea scadono a marzo, le altre (più rilevanti) scadono a luglio. L’Ue e gli Usa sono comunque di sicuro consci del rischio che si sta prospettando nell’area: se l’Ucraina va in default e se la Russia precipita verso una crisi economica tale da minare le basi del suo Stato il rischio è che si destabilizzi in modo caotico e incontrollabile l’intero “spazio ex sovietico”, con riflessi anche sul Medio Oriente e l’Asia. Per questo siamo convinti che cercheranno di fare il possibile per trovare una soluzione di compromesso senza perderci la faccia. A tale proposito va rilevato che recentemente, in occasione del forum di Davos, Merkel ha offerto a Putin la creazione di uno spazio commerciale comune tra Ue e Russia. Il suo vice Gabriel si è spinto più in là prospettando la creazione di un’area di libero scambio che comprenda l’Ue e l’Unione Eurasiatica e si estenda quindi “da Lisbona fino a Vladivostok”, utilizzando significativamente una formulazione coniata a suo tempo da Putin. L’opzione di una reciproca apertura dei mercati tra Ue e Unione Eurasiatica era già stata ipotizzata a settembre da funzionari di Bruxelles, subito dopo gli accordi di Minsk. Il fatto che un attore di primo piano della recente ondata di trattative sia stato proprio il presidente kazako Nazarbaev, e che il fatidico summit conclusivo, poi rimandato, avrebbe dovuto tenersi nella capitale kazaka Astana, è una testimonianza di come questa ipotesi venga realmente messa in gioco.

Conclusioni
Arrivare a una pace sarebbe in realtà facilissimo. Basterebbe fare tacere i cannoni, ritirare tutte le forze militari e i mercenari, fare tornare i profughi, mandare in galera i criminali di guerra e gli affamatori del popolo, lasciando che gli abitanti del Donbass decidano in piena autonomia che futuro vogliono per sé. Il Donbass ha una classe operaia con una lunga tradizione di autorganizzazione e che si è tenuta totalmente al di fuori da questa guerra, a differenza dei capitalisti russi e della borghesia oligarchica locale (ivi compresi i capi dei separatisti, che sono per la maggior parte imprenditori proprietari di aziende): potrebbe essere la garante di una tale transizione. Si potrebbe anche smilitarizzare la Crimea, chiudere l’inutile base militare di Sebastopoli, che ha l’unica funzione di esercitare una minaccia contro i popoli dell’area, e fare tornare in Russia i suoi militari con il relativo ampio indotto di importazione, lasciando che gli abitanti della penisola decidano anche loro in modo autonomo e democratico il loro futuro. Naturalmente nella situazione attuale tutto questo appare solo come fantascienza. Ci sono interessi troppo grandi, e in possesso di armi troppo micidiali, per potere ipotizzare una soluzione del genere a breve termine. Ma l’unica soluzione per garantire una pace autentica e duratura è questa. Poiché i cannoni in questo momento lo impediscono, è necessario che trovino ogni spazio possibile le iniziative e le mobilitazioni che vanno in questo senso. I lavoratori del Donbass, nonostante la loro tragica situazione e a rischio della propria vita, hanno cercato di recente in più occasioni di mobilitarsi contro l’oppressione dei separatisti. Pretendere da loro che si prendano da soli carico di un tale compito, viste le stragi e il terrore di cui sono continuamente oggetto, sarebbe però troppo. In Ucraina sono in netto aumento le mobilitazioni contro le politiche di austerità del regime che, anche se per ora sono solo su temi sociali interni, minano oggettivamente le politiche guerrafondaie di Poroshenko e Yatsenyuk. Ci sono state questa estate anche piccole mobilitazioni di familiari delle reclute e molti ucraini cercano di sfuggire alla chiamata alle armi. In Russia ci sono coraggiose associazioni delle madri dei soldati che hanno denunciato l’intervento militare diretto di Mosca in Ucraina, ci sono state partecipate marce per la pace e con l’approfondirsi della crisi economica sono cominciate le prime piccole mobilitazioni dei lavoratori, che hanno però tutto il potenziale per crescere e minare il regime di Putin, cioè il motore primo di questa guerra. Ogni iniziativa che porti a un tacere dei cannoni avrebbe sicuramente un ruolo positivo in questo momento, perché darebbe più spazio a queste dialettiche. Nell’Europa Occidentale invece manca totalmente un movimento per la pace. La maggior parte della sinistra fa il tifo per gli imperialisti russi arrivando in alcuni casi addirittura a definirli “antifascisti”, un’altra parte spende tutte le proprie energie per trovare un’assurda equidistanza a priori tra le parti che le impedisce di definire le cose con il loro nome e la assolve dal difficile compito di analizzare e di lottare su basi concrete. Ciò non fa altro che rendere più difficile il compito di chi, sul terreno e a rischio della propria incolumità fisica, lotta per la pace e per l’emancipazione in assenza della necessaria solidarietà internazionale.