mercoledì 25 novembre 2015

Il 5 ottobre scorso, ad Atlanta, Stati Uniti e undici paesi dell’area del Pacifico (Giappone, Singapore, Vietnam, Malaysia, Brunei, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Perù, Messico e Canada), che rappresentano il 40% del prodotto mondiale, con un Pil complessivo di circa 28 mila miliardi di dollari, hanno firmato l’accordo detto Trans-Pacific Partnership....Gli imperialismi si schierano

Gli imperialismi si schierano

(25 Novembre 2015)
Il Trans-Pacific Partnership

Il 5 ottobre scorso, ad Atlanta, Stati Uniti e undici paesi dell’area del Pacifico (Giappone, Singapore, Vietnam, Malaysia, Brunei, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Perù, Messico e Canada), che rappresentano il 40% del prodotto mondiale, con un Pil complessivo di circa 28 mila miliardi di dollari, hanno firmato l’accordo detto Trans-Pacific Partnership. Questo, che vide le prime trattative nel 2007, è un accordo economico che tocca vari settori produttivi, dall’agricoltura, all’auto, ai farmaci.

Prevede delle clausole proprio sui brevetti farmaceutici, dove le multinazionali americane, dominanti nel settore, puntavano ad ottenere 12 anni di “protezione”; fra le prime 20 imprese farmaceutiche al mondo 11 sono statunitensi e fatturano circa 130.000 milioni di dollari l’anno. Il compromesso raggiunto da quei vampiri prevede una protezione per i farmaci tra i cinque e gli otto anni. Altre trattative difficili sono state quelle nel settore auto, sui latticini e in generale sulla “proprietà intellettuale”.

Riportiamo da “Il Sole 24 Ore” del 5 ottobre un passo significativo: «L’accordo, dal punto di vista strategico, forgia una nuova alleanza per contenere la crescente influenza economica nella regione della Cina, che è rimasta esclusa dal negoziato ed è impegnata a creare un proprio patto economico asiatico».

Chiarissimo come questa “alleanza” degli imperialismi capeggiata dagli Usa sia proprio in chiave anti-Cina. Riprova ne è il fatto che l’imperialismo cinese, escluso da questa importante fetta di mercato, non sia stato a guardare ma abbia attuato la sua controffensiva. Riporta “Il Fatto Quotidiano”: «All’Apec di Pechino del 2014 la Cina aveva risposto con la proposta di un’area di libero scambio più inclusiva, che comprendesse anche se stessa e la Russia, incassando il sì di tutti, tranne dagli Stati Uniti. Ma da allora non se ne è più sentito parlare. Pechino si è poi sempre più focalizzata sul progetto di Via della Seta, con la neonata Banca Asiatica degli Investimenti e delle Infrastrutture a fare da volano economico. Un istituto finanziario in cui, guarda un po’, non ci sono Stati Uniti e Giappone».

Nell’altro emisfero, nella vecchia Europa, sono in corso i negoziati con gli Usa denominati Ttip, in stallo per una serie di controversie sui prodotti agroalimentari. I “prodotti tipici” sarebbero protetti; ma in questione ci sono gli Ogm; ostili sono gli “ecologisti” e le “sinistre” dei vari paesi europei, ma di fatto «la UE importa ogni anno milioni di tonnellate
per mangimi, e si tratta prevalentemente di soia Ogm».

Gli americani mostrano “prudenza” nel concludere entro il 2015, come vorrebbe l’Europa; probabilmente slitteranno di un paio d’anni per dar tempo all’imperialismo USA di imporre i suoi standard.

Insomma si delineano sempre più gli schieramenti e le alleanze, per ora nella guerra di spartizione dei mercati e accaparramento di risorse e materie prime; in un domani non lontano nell’immane terzo massacro mondiale.

Sempre da “Il Sole 24 Ore” leggiamo: «Ne esce più forte l’alleanza tra Usa e Giappone, a pochi giorni da un altro elemento di rafforzamento, l’approvazione di nuove leggi sulla Difesa in Giappone che consentiranno alle Forze di Autodifesa nipponiche di intervenire anche all’estero, in determinate circostanze, a supporto delle forze armate Usa».

La nostra lunga tradizione di comunisti rivoluzionari impone di schierarci al fianco del proletariato di tutti i paesi per condurlo nella sua rivoluzione, che abbatterà questo infame modo di produzione oramai giunto al capolinea da tempo e che attende solo la spallata finale.

L’imbroglio Volkswagen

A tutto si può pensare quando si prende in considerazione “l’affaire” Volkswagen meno che ad una improvvisa scoperta della truffa. Né alla volontà di difendere “l’ambiente”. Nella vicenda ogni aspetto appare finto, freddamente costruito “a tavolino” per altri scopi, che non son certo quelli della “ecologia”.

Lo scandalo accelera; la stessa Casa tedesca si trova costretta ad ammettere che anche le emissioni di anidride carbonica delle sue auto eccedono il dichiarato. Il governo tedesco vacilla, la potentissima storica casa automobilistica, che raggruppa anche i marchi Audi e Skoda, si trova costretta ad accantonamenti miliardari per pararsi dalle richieste di risarcimento, vede abbassarsi il suo “rating” stilato dall’agenzia americana Moody’s (parametro che serve al sistema bancario per erogare finanziamenti), crollare le vendite nei paesi anglosassoni mentre anche sugli altri mercati mondiali vendite e fatturati iniziano a calare.

È un terremoto produttivo, economico e finanziario per un ramo industriale di enormi dimensioni, che era riuscito nella fase più acuta della crisi del settore a mantenere quote significative di mercato e sfidare con successo i produttori americani e dell’Est; anzi a porsi come modello ed esempio di “produzione di élite” e indiscussa qualità costruttiva. La produzione di autoveicoli, commerciali e privati è un asse portante della produzione industriale mondiale.

Tutte le tipologie di motori a combustione interna sono sostanzialmente derivate dalle invenzioni di fine ‘800. La tecnologia ha fatto progressi sulle altre componenti dell’autoveicolo, ma il cuore, il dispendiosissimo motore a combustione interna, rimane con i limiti originali. Malgrado tutte le migliorie in un secolo di sviluppo, le innovazioni dei materiali, l’affidabilità delle diverse componenti, l’utilizzo di carburanti con caratteristiche più o meno “verdi”, concettualmente la sua struttura rimane la stessa, e la diminuzione delle sostanze “inquinanti” – qualunque cosa ciò significhi di fronte alla follia produttiva del sistema del profitto che impesta il mondo intero con gli scarti del suo incessante produrre – non superano qualche decina percentuale.

Magari gli ingenui sognatori del capitalismo “dal volto umano” e razionale possono pensare che il futuro “non inquinante” dell’autotrasporto – individuale, ben s’intende! – sia magari nella trazione elettrica, ma viene da domandarsi come questa possa venir prodotta in modalità “verde” per la ricarica delle batterie. Le bugie, le baggianate in questo campo si sprecano, per il solo uso della istupidita pubblica opinione. Basta rilevare che le stesse denunce alla Volkswagen sarebbero sicuramente da ribaltare su tutte le altre Case produttrici.

Disquisire sul valore etico delle dichiarazioni truffaldine, sui trucchi per fare rientrare i valori nei parametri dichiarati a noi comunisti non interessa nulla; e del resto stimiamo il capitalismo il sistema produttivo che per eccellenza si basa sulla truffa e sull’inganno, il fondamento di ogni “sana” concorrenza, quindi non diamo nessun valore agli scontri che si svolgono sul piano fittizio dell’ “etica”.

Allora si possono ipotizzare il o i motivi di questo attacco ad un gigante produttivo europeo, attacco che, rivolto ad una potenza industriale e commerciale di quelle dimensioni, si devono traslare direttamente alla stessa Germania.

In primis spiegare semplicemente questo “scandalo” come un episodio nel puro campo del commercio internazionale appare non sostenibile. Indubbiamente è un mercato colpito dalla crisi capitalistica. La Cina si conferma come il primo produttore al mondo, e l’Asia da sola quota oltre la metà della produzione mondiale, circa 40 milioni di auto; il Giappone supera (anno 2014) gli 8 milioni. La Germania è il terzo produttore mondiale, dopo Cina e Giappone. Degli altri produttori europei si può fare a meno di parlare: l’Italia è ormai superata anche dalla Repubblica Ceca. Negli Stati Uniti la produzione interna complessiva è inferiore alle immatricolazioni. Come vendite il gruppo Volkswagen è al secondo posto nel mondo dopo Toyota.

È alla luce di queste considerazioni che si evidenzia come l’attacco arrivato dagli USA non sia un semplice episodio di guerra commerciale, una concorrenza, sia pure scatenata con mezzi “non convenzionali”, ma sia da riferire al quadro generale che nella presente fase storica di lunghissima crisi acutizza lo scontro politico tra gli Stati imperialisti. L’attacco si rivolge allo Stato tedesco per interposta Volkswagen.

Su questo piano si possono trovare molte motivazioni che spaziano dalle posizioni in politica internazionale che contrastano nella sostanza le iniziative statunitensi in Medio Oriente e relative alle sanzioni alla Russia mai applicate sul serio, al potenziale economico che la impone come leader nella Comunità europea non allineata alle iniziative americane, alla sua aperta opposizione agli accordi TTIP che condiziona gli altri Stati membri, alla politica monetaria della Bundesbank che sta entrando in collisione con quella della FED, e via enumerando. Queste cause specifiche di frizione e scontro sono espressione di un unico formidabile processo in atto tra gli Stati, che si sta sviluppando a ritmi sempre più accelerati nel senso della storica evoluzione degli imperialismi verso lo scontro diretto.

La Germania è stata dal dopoguerra in poi un alleato occidentale su cui contare per il controllo dell’Unione Sovietica. Il suo peso e il ruolo che ha giocato sono però lentamente cambiati dall’unificazione Ovest-Est, fino allo spazio di autonomia attuale e di guida nell’Europa. Sebbene membro della Nato, sebbene formalmente tutta nel campo occidentale, è uno Stato che si va distaccando da un blocco geopolitico che mostra già molte vistose crepe.

Se con la Russia, che tenta di riproporsi con forza sullo scacchiere mondiale, gli Stati Uniti hanno potuto operare direttamente con strumenti economici palesi, oltre che con esibizione di forza militare, costringendo gli altri riottosi o rinunciatari Stati europei ad adeguarsi, per la Germania i tempi non sono ancora maturi per simili iniziative. Né del resto lo Stato tedesco si è mai posto in modo aperto contro gli alleati imperialisti di un tempo, quando i loro capitali costituirono la base per la rinascita della nazione. Ecco quindi gli avvisi obliqui, le dure pressioni indirette, le sanzioni non apertamente comminate: per ora un avviso che mette in crisi la maggior industria del Paese. Una pratica già nota e sperimentata nella storia degli scontri tra gli Stati.

In quasi otto anni di fasi più intense e di temporanei allentamenti, la crisi del capitalismo sta portando in modo lento ma costante a questo esito, previsto ed anticipato dalla nostra dottrina.

Sono queste indicazioni forti che non devono essere trascurate o sottovalutate dal Partito, anche se le condizioni generali del movimento rivoluzionario sono ad un livello minimo. Ma la Storia opera per la nostra parte.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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