(24 Dicembre 2015)
Azzardo alcune riflessioni di tipo filosofico ed
esistenziale, quindi politico. La realtà, che supera puntualmente ogni
più fervida immaginazione, ispira un'elaborazione critica di
straordinaria attualità storica. Il sistema creato dalla borghesia
capitalista ha predicato nel mondo, a decorrere dal secondo dopoguerra,
quella che è la religione più diffusa e vincente di ogni tempo e luogo:
la fede cieca ed incondizionata nel mercato, nel totem della finanza. Il
culto idiota e mondano del denaro e del successo. Il feticismo della
merce e del profitto. La morale utilitarista dell’avere e dell’apparire
ad ogni costo in luogo dell’essere, sacrificando tutto e tutti. Il
corollario finale è l’avvento di una sottocultura di massa improntata al
consumismo esasperato, acritico ed alienante, all’edonismo ebete,
egoista e conformista. Quella che nell’età contemporanea è l’ideologia
più ottusa ed onnipotente, una mentalità assai pervasiva e totalitaria,
più feroce e persuasiva di qualsiasi tipo di fascismo e di assolutismo
che si sia mai visto nella storia millenaria dell’umanità. Negli ultimi
decenni, alle popolazioni del mondo occidentale si è imposto uno stile
di vita iperconsumista: hanno bombardato i cervelli per convincere la
gente che bisognava lavorare e produrre al massimo per guadagnare e
consumare il più possibile, con il risultato che gli individui sono
nevrotici, insoddisfatti ed infelici. Si potrebbe arguire che la scelta
più saggia sia quella di moderarsi in modo da lavorare il meno possibile
ed avvelenarsi il meno possibile, sentirsi meno stressati e puntare ad
arricchirsi soprattutto a livello umano, affettivo e spirituale. In
altri termini, si potrebbe decidere di condurre uno stile di vita più
sobrio sul piano dei consumi in modo tale da permettersi un’esistenza
emancipata dal bisogno, libera dallo stress e dalle tossine della vita
moderna. Certo, se un individuo non si accontenta di un cellulare, ma ne
vuole due di ultima generazione, se invece di un’auto per ogni famiglia
si avverte il “bisogno” di un’auto a persona, se si desidera la villa
in campagna e l’appartamento al mare, inseguendo ed assecondando
ossessivamente le mode consumiste, si moltiplicano i falsi bisogni
indotti dal mercato, inevitabilmente non basta uno stipendio e si
rischia di essere assoggettati ad un “benessere” fittizio, finendo
succubi del bisogno e del lavoro, alienati ed infelici. Sia chiaro che
tale ragionamento non inneggia alla filosofia della “decrescita”, né
risponde ad una visione “pauperistica” o “francescana” del mondo, ma si
limita a suggerire un’ipotesi oggi realistica e praticabile,
un’attitudine assai pragmatica che potrebbe rivelarsi utile per
affrontare le difficoltà legate all’attuale fase di recessione
dell’economia capitalista. Bisogna rendersi conto che la decrescita è
già oggettivamente immanente nella realtà dei fatti, in Italia ed
altrove, nel senso che il tasso di crescita economica del nostro Paese è
in costante diminuzione da quasi mezzo secolo, esattamente dal “boom
economico” degli anni ‘60. Occorre prendere atto che la decrescita o,
meglio, il sottosviluppo e la miseria sono le conseguenze di un sistema
di distribuzione iniqua, irrazionale e distorta delle ricchezze sociali,
sono il risultato delle contraddizioni strutturali insite nel
funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tornando al tema
precedente, è ovvio che il discorso non vale in termini assoluti bensì
relativi, per cui sono esclusi, ad esempio, coloro che versano già in
condizioni di estrema (o relativa) povertà, o chi vive in realtà
metropolitane in cui il costo della vita è altissimo e si è costretti a
spendere oltre la metà dello stipendio per pagare l’affitto mensile. In
questi casi temo che la filosofia “stoica” o la morale “francescana”
servano a poco. È chiaro che la condizione proletaria non va
idealizzata, bisogna battersi per l’abolizione del proletariato comr
classe, e la sobrietà intesa come stile di vita, saggezza o moderazione,
non va vissuta “stoicamente”, bensì come una necessità contingente.
Stiamo vivendo una fase in cui occorre misurarsi con le condizioni
storicamente determinate, senza cedere alle mode consumistiche, né ad
uno stile di vita francescano. È altresì evidente che lo sfruttamento e
la violenza di classe non possono durare a lungo senza essere accettati
dagli sfruttati. A questo compito era chiamata in passato la religione.
Ma oggi questo strumento di convincimento è superato, inadatto
nell’epoca dell’economia di mercato. Una nuova forma di condizionamento e
debilitazione morale è intervenuta: dall’idolatria trascendente
all’idolatria delle merci. Le osservazioni esposte finora servono ad
introdurre un ragionamento sulla nozione di “proletariato” e sul
significato (non solo simbolico) che assume oggi un vocabolo che per
molti ha un sapore anacronistico e veterocomunista di segno
ottocentesco. È noto che i proletari sono coloro che possiedono
esclusivamente la prole, cioè i figli. Il termine indicava in origine
una classe di lavoratori il cui ruolo, nel modo di produzione
capitalista, è di prestare la forza lavoro in cambio di un salario, ma
nel corso del tempo il senso è mutato, adeguandosi alle nuove
circostanze storico-sociali. Se in passato il termine designava
specificamente una classe di operai che hanno come sola ricchezza la
prole, in seguito il senso letterale è stato sostituito da un’accezione
più ampia che comprende la totalità dei salariati, inclusi i lavoratori
intellettuali ridotti in uno stato di precarietà e che percepiscono un
salario miserabile. È indubbio che negli ultimi cinquant’anni il
proletariato che vive nei Paesi sviluppati del mondo occidentale, si è
imborghesito, in particolare sul piano mentale. Nel contempo conviene
ragionare sul fatto che l’attuale recessione produce effetti di
proletarizzazione dei ceti intermedi, un tempo benestanti, ed
immiserisce le classi operaie occidentali. Non serve rammentare che un
numero crescente di famiglie italiane (ma il discorso vale per i Greci, i
Portoghesi e via discorrendo) non arriva alla fine del mese, se non
alla terza settimana, quando va bene. Aggiungo una chiosa finale per
chiarire che l’esperienza storica pregressa dovrebbe insegnarci che un
rovesciamento radicale dell’ordinamento sociale senza una corrispondente
rivoluzione di tipo intellettuale che proceda in senso
anti-autoritario, senza un processo di affrancamento mentale dei singoli
individui, non ha molto senso e rischia di rivelarsi fallimentare in
quanto non genera un’effettiva emancipazione delle persone, come è già
accaduto in altre rivoluzioni politiche-sociali compiute dal genere
umano. La trasformazione dell’esistenza si compie attraverso processi
paralleli che investono l’assetto sociale e la formazione etica, civile e
psicologica delle persone, che altrimenti rischiano di sottostare a
nuove forme di oppressione, di tipo non solo politico e materiale, bensì
spirituale.
Lucio Garofalo
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