IL MONELLO
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venerdì, aprile 18, 2003
INTERVISTA A PAOLO BARNARD
Paolo Barnard è un giornalista di quelli che ti fanno ricredere in fretta sugli stereotipi classici del mestiere. E’ un freelance, un libero professionista del giornalismo investigativo e d’inchiesta. Lavora principalmente per Report,trasmissione in onda la domenica alle 23 su Rai Tre, un programma che ha rivoluzionato il modo di fare giornalismo eliminando quasi totalmente il concetto di redazione interna. Viene dato spazio a collaboratori esterni in grado di curare ogni passaggio di lavorazione del servizio: ricerca, interviste, riprese, realizzazione dei montaggi audio e video e consegna del prodotto finito pronto per la trasmissione. Artefice di questa piccola grande rivoluzione è Milena Gabanelli, conduttrice del programma.Barnard ha realizzato per Report servizi importanti su argomenti come le cure palliative, l’uso terapeutico della cannabis, la terapia del dolore, l’eutanasia e la cura dei malati terminali, argomenti sui quali “il nostro” è uno dei massimi esperti in campo nazionale. In particolare sul tema dell’assistenza ai malati terminali affetti da Aids (o presunto tale) ha pubblicato nel 1999 per Interlinea Edizioni di Novara un libro bellissimo dal titolo: “Aiutami a morire” che raccoglie le sue esperienze personali come volontario.Negli ultimi anni ha seguito da vicino i problemi legati all’economia occidentale e delle multinazionali (famosa una sua inchiesta sempre per Report sulla Glaxo Smith Klein, potentissima industria farmaceutica), interessandosi ai problemi connessi alla globalizzazione e seguendo la crescita dei movimenti no global, oggi new-global. Ha elaborato anche un importante documento, dopo il raduno mondiale new-global di Porto Alegre, teso a non disperdere il patrimonio di idee ed energie emerso dal forum brasiliano.
Il Monello ha incontrato Paolo Barnard a Bologna durante un incontro pubblico sui temi della pace e della lotta alla guerra.
- Paolo, alla luce di quello che sta accadendo (lo scoppio della guerra in Iraq), qual è il tuo giudizio critico rispetto ai movimenti pacifisti?
Personalmente credo ci siano dei grossi limiti nel movimento pacifista. Innanzitutto, non mi piace l’atteggiamento deresponsabilizzante di accusare organismi o soggetti esterni per le condizioni attuali. Credere che la colpa della situazione attuale sia sempre e comunque di Bush, del WTO, del G8, delle banche, delle multinazionali lo trovo irresponsabile, molto comodo oltre che sbagliato. Dati alla mano, non basterebbero tutti i soldi delle multinazionali per coprire certi buchi. Neanche se domani, per esempio, potessimo convogliare a scopi benefici i fatturati annuali delle più grosse industrie risolveremmo i problemi. Lungi da me difendere le organizzazioni di cui sopra, spesso colluse con i poteri forti, ma bisogna dirlo chiaramente che non ci sarà mai pace se non accetteremo di ridurre i nostri consumi e ridimensionare il tenore di vita. Dobbiamo capire che la pace passa dalle nostre mani e dalle nostre scelte. - Il pacifismo, quindi, è un movimento perdente ? Sì, a mio avviso sì. Il movimento pacifista perde perché nonostante centodieci milioni di persone in piazza in tutto il mondo nella stessa giornata, la guerra comincia ugualmente. Al di là di tutta la retorica, qualcuno dovrà pur fare i conti con questi dati di fatto. Dieci anni fa si protestava contro la guerra del Golfo, oggi siamo di nuovo qui in una situazione simile. E’ vero che qualche passo in avanti c’è stato, ma è stato microscopico e non cambia di molto le cose. Trent’anni fa protestavamo contro la guerra del Vietnam a guerra già abbondantemente cominciata, ora protestiamo prima che la guerra cominci, se vogliamo considerare questo un passo avanti. Io non riesco ad accontentarmi. E’ anche un problema generazionale, mi rifiuto di lasciare ai ragazzi un modo vecchio e stanco di manifestare contro la guerra. Io mi rifiuto di credere che la mia generazione non riesca a trovare di meglio da lasciare in eredità a quelli che verranno dopo. - Perché è perdente, vecchio e stanco questo pacifismo? Sinceramente credo che sia altamente antieconomico. Non voglio dire che andare in piazza non serve a niente, probabilmente serve a noi per contarci e prendere forza. Ma dobbiamo capire che andare in piazza è uno sforzo grande per un risultato minimo. Dobbiamo trovare altre strade, altri modi più efficaci. - Per esempio? Per esempio essere molto critici rispetto all’informazione e ai consumi. Diventare consapevoli delle possibilità che abbiamo singolarmente nella vita di tutti i giorni. Ma soprattutto diventare consapevoli che i motivi delle guerre sono legati al modo di vivere che abbiamo noi. Non si può pensare che il pianeta sopporti che sei miliardi di persone vivano con il nostro tenore di vita. Dobbiamo capire che la fine delle guerre per il petrolio, per cui noi lottiamo, passa inevitabilmente per un drastico abbassamento delle nostre comodità e delle nostre abitudini. Siamo pronti a questi sacrifici? Siamo pronti a fare i conti con un’ economia diversa? A possedere, quindi comprare, meno oggetti? Se non siamo pronti a tutto questo, la protesta pacifista è davvero inutile. - Sei di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti e in Medio Oriente che hai compiuto proprio alla vigilia della guerra (n.d.r.: per preparare la puntata diReport del 6 aprile scorso sui motivi del presunto odio arabo verso l’Occidente). Che idea ti sei fatto dei motivi di questa guerra ? Da quello che ho visto e sentito mi sono fatto l’idea, e non è solo un idea ma qualcosa di più concreto, che gli americani abbiano una grande paura di essere visti deboli. Credono che Bin Laden li abbia attaccati perché li crede vulnerabili, dopo i passi falsi degli americani stessi in Israele, Iran, Somalia. Gli USA non vogliono fare la figura dei deboli. Mentre gli europei vogliono trattare, loro vogliono tutto e subito. Per loro non esiste il lungo termine. E questa è un’altra cosa che dobbiamo avere ben in mente. Soltanto un lavoro a lungo termine può portare a qualcosa, ma un lavoro a lungo termine ha un prezzo che bisogna sapere di dover pagare. Lasciamo Paolo Barnard ai suoi impegni. Saluta Il Monello con entusiasmo, in piena coerenza rispetto all’idea di portare ognuno il proprio mattone. Nessun convenevole, però, nessuna concessione alla volgarità e alla smanceria. Nessuna paura di giocarsi gli spigoli caratteriali per cui il Monello lo rispetta e stima tanto. (grazie a Nicola Longhi)
Ciao, mi piace Barnard, ho scaricato tutto il suo sito prima che chiudesse per fortuna, approvo e condivido le sue opinioni, tranne una e li qualcosa non mi torna, come fa a sostenere che gli arabi avrebbero fatto l'attentato del 9\11. Per carità non voglio criticarlo, ma solo questo mio dubbio non trova una risposta sensata e logica.
Ciao Dioniso, ti consiglio di rivedere il contesto di tutta la frase(si rivolge agli Americani, cioe' a quella che era l'opinione generale), tenendo conto che certe verità, ancora non erano state scoperte(siamo nel 2003) e che ancora oggi, c'e' chi sta parlando solo ora per paura. Ciao a presto. |
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