La posta in gioco in Siria e l’importanza di lottare contro l’ennesima “guerra umanitaria”
di Marco Benevento e Sergio Cararo |
Siamo alla vigilia di un conflitto che ancora non sappiamo se rimarrà circoscritto alla sola Siria o si estenderà ad altre aree di crisi in Medio Oriente, come l’Iran, ma rileviamo che in giro c'è molta propaganda e altrettanta confusione .
Nel caso delle guerre civili in Libia ed in Siria abbiamo potuto riscontrare, per l’ennesima volta, l’incapacità da parte della sinistra (usiamo una definizione generica) di dotarsi di una lettura autonoma e dialettica degli eventi, una mancanza che alla fine produce l’acquisizione di un punto di vista eurocentrico e quindi subalterno agli apparati ideologici dell’imperialismo, sia nella sua componente statunitense che in quella europea. Spesso prevale, nell’interpretazione di questi conflitti, la lente “umanitaria” anziché l’analisi dei rapporti sociali e dei soggetti politici nella realtà concreta. Si arriva all’assurdo che, per la Siria come per la Libia, troviamo compagni antagonisti, libertari, marxisti, che condividono lo stesso giudizio di liberali, democratici, conservatori nel condannare le dittature o nel riconoscere nei vari CNT o CNS gli interlocutori del cambiamento democratico. In alcuni casi si è arrivati perfino a sostenere o a richiedere l’intervento militare in “difesa dei civili” e contro il tiranno, giustificando il linciaggio di quest’ultimo, come nel caso di Gheddafi. Il dibattito su tali vicende è importante perché coinvolge il nostro “popolo”,cioè quello che è chiamato a creare mobilitazione solidale, antimilitarista e antimperialista nel nostro paese e che anche a causa di questa lettura della realtà è disorientato, paralizzato, indeciso e indefinito sulle iniziative da prendere, mentre vere e proprie guerre di aggressione coloniale coinvolgono pienamente anche l’Italia. In questo scenario occorrerebbe cercare di non sbandare tra Scilla e Cariddi, tra una lettura emotiva acritica e un bel po’ eurocentrica che sposa tout court i movimenti di opposizione nel mondo arabo (come è accaduto prima in Libia ed oggi in Siria) e una posizione altrettanto acritica, acefala e “campista” centrata solo sulla lettura del complotto atlantista propugnata dai comunitaristi di Eurasia o dal sito Aurora. Sono organizzazioni da cui abbiamo imparato a stare alla larga sia per la loro versione perniciosa dell’ideologia fascistoide che per le loro ambigue frequentazioni. Ma si tratta – purtroppo – di organizzazioni che godono di molte relazioni e di un impianto teorico che talvolta anche a sinistra trova qualche consenso. Per prima cosa è bene sottolineare che, se la guerra è un orrore, la guerra civile lo è ancora di più; secondo, le contraddizioni sociali e politiche in Siria non si possono ignorare né sintetizzare nella infelice dicotomia “da una parte il popolo, dall’altra la dittatura”; terzo, , in tutto questo gli interessi di classe in campo non sono uguali. Ma questo non ci esime dal porci e dal porre interrogativi rispetto alla spinta verso la guerra contro il popolo siriano, al pericolo di smembramento della Siria e sulla direzione politica dell’opposizione siriana.
Com’è possibile arrivare a non vedere che i conflitti sociali e politici in Siria sono letti, interpretati e “agiti” anche da soggetti politici che non hanno affatto una prospettiva progressista? Non ci sono solo le ingerenze esterne ormai ampiamente documentate da parte degli Usa, delle potenze europee, della Turchia e delle petromonarchie del Golfo (con interessi magari non convergenti sul futuro ma sicuramente sul presente). E’ difficile infatti non riconoscere lo spessore, il radicamento e l’egemonia della politica delle alleanze sviluppati dai network dell’islam politico. Il protagonismo che la Fratellanza Musulmana ha espresso negli ultimi mesi nei diversi paesi arabi è ormai un dato politico assodato, così come è evidente che le sue diramazioni - a partire da Hamas - si sono svincolate dalla precedente alleanza del Fronte della Resistenza (Iran, Hezbollah e Siria) approdando nel network delle petromonarchie del Golfo e/o della Turchia.
Non bastano le migliaia di manifestanti in piazza per dare un giudizio progressista dei movimenti: sono infatti le rivendicazioni e la natura sociale della dirigenza a segnarne il progetto politico. E purtroppo non sono i movimenti progressisti e di sinistra ad avere l’egemonia, o un’influenza sui movimenti di protesta e di piazza nei paesi arabi, né sono essi ad aver tratto vantaggi consolidati dall’esito delle rivolte dell’ultimo anno, meno che mai in Libia o in Siria, dove le “rivolte” assumono i caratteri della guerra civile. Le primavere arabe stanno virando velocemente in inverni politici. Le organizzazioni che hanno ottenuto i maggiori risultati, come i Fratelli Musulmani, i Salafiti o Enhada, non mettono affatto in discussione le relazioni sociali, al contrario sottomettono le istanze sociali e democratiche alla religione. In maniera dolorosa e non priva di tensioni, si evidenzia il tentativo di riportare l’ordine nelle aree della delocalizzazione e dello sfruttamento a basso costo di energia e manodopera. In tal senso sta funzionando una sorta di “compromesso storico” tra l’imperialismo – statunitense ed europeo – e l’islam politico.
E’ facile immaginare quale democrazia hanno in mente per i siriani i leader delle varie potenze capitaliste e le teocrazie del Golfo, oppure gli stessi businessmen siriani che - a detta del loro portavoce, il professor Ghalioun della Sorbona - finanziano al 90% il CNS e l’Esercito Siriano Libero. Come non vedere che a causa della crisi economica e sistemica c’è una tendenza generale alla chiusura degli spazi democratici (come del resto in Europa) perché i larghi strati di popolazione dovranno essere resi esclusivamente competitivi con le altre aree capitaliste del pianeta? Se questo è vero, come è possibile anche solo pensare che questo network (islam politico, petromonarchie e democrazie capitaliste) voglia concedere spazi democratici e crescita economica diffusa al popolo siriano?
In tale contesto – perché anche il contesto fa la differenza tra una fase e un’altra della storia - la scelta più giusta rimane la condanna di ogni aggressione esterna – soprattutto quando impegna anche il nostro paese, come in Libia - e il sostegno al processo di emancipazione democratica e sociale retto dai comunisti e progressisti siriani. Ma, nei media internazionali e quindi nel dibattito anche a sinistra, i soli soggetti politici titolati a rappresentare tale processo sono le opposizioni siriane; scompaiono invece altri soggetti, come i comunisti siriani ed i progressisti che da tempo denunciano la politica delle privatizzazioni e la necessità di riforme politiche e sociali nel sistema ancora cristallizzato dal monopolio del Baath. Nell’impostazione dominante c'è innanzitutto la critica alla dittatura di Assad, che, valutata come tale e in quanto tale, non può che avere il volto della repressione e della brutalità dipinta nelle tinte più truci. Questo schema è stato utilizzato sistematicamente per togliere ogni credibilità negoziale all’interlocutore, il quale, in quanto dittatore, può essere solo rimosso (anche violentemente); con lui scompaiono anche le dimostrazioni dei settori popolari che manifestano a sostegno del governo. Il risultato è l’inevitabilità della guerra civile e dell’intervento militare esterno come processo di cambiamento politico. Un meccanismo che oggi è utile per la Siria, ma che in futuro potrà essere utilizzato contro il Venezuela o Cuba, ma mai per i regimi reazionari del Golfo o per Israele.
Com’è possibile sottovalutare il ruolo delle potenze militari della NATO o delle petromonarchie del Golfo in questa operazione? Com’è possibile essere così miopi da sottovalutare che siamo nel pieno della più grave crisi economica dal 1929 ad oggi e che questa crisi determina una crescente tendenza alla guerra e alla competizione per accaparrarsi risorse?
La Libia e la Siria, trovandosi in aree di interesse economico e strategico, sono state messe al bando e tenute sotto pressione - nel caso della Libia aggredite militarmente - da parte delle potenze della Nato e dei paesi del Golfo, in attesa che si presentasse l’occasione per cambiare a proprio vantaggio l’ordinamento statale esistente. La posta in gioco sono ormai le risorse da mettere a profitto, in tempi di forte competizione globale, e la stabilità nelle aree strategiche può avvenire anche attraverso lo smembramento del paese-target e lo stabilirsi di nuove alleanze regionali. L'intervento militare straniero in Siria c'è già. Su questo ci sono ormai numerose conferme. La tattica dell'insurrezione e della guerra civile destabilizzatrice richiede retrovie, supporto logistico, politico militare e finanziario. Il passaggio di armi ed il supporto logistico in questo caso avviene attraverso il Libano, la Giordania e la Turchia.
Non possiamo considerare casuale il fatto che i centri "politici" delle insurrezioni si siano sviluppati fra i dissidenti esuli in Francia ed in Inghilterra, paesi le cui borghesie hanno retaggi coloniali e rinnovate esigenze di rapina delle risorse economiche e degli idrocarburi, cosa ampiamente dimostrata con la guerra in Libia. Proprio il ruolo che giocano le borghesie europee ed il polo imperialista rappresentato dall’Unione Europea ci impegnano a condannare ed a contrastare la spinta all’ingerenza e all’intervento armato contro il popolo siriano. L’UE ed i singoli governi nazionali stanno facendo in modo che la situazione in Siria precipiti verso la guerra civile.
L’assenza di indipendenza politica delle opposizioni nei confronti dei “protettori stranieri” determina in negativo il carattere di queste formazioni.
Molti dei sostenitori delle “rivolte” in Libia ed in Siria si dicono convinti della necessità dell’intervento straniero a supporto del processo democratico e relegano il protagonismo dei paesi della NATO e del Golfo in seconda posizione. Ripetono a se stessi e agli altri che nel passato anche altri movimenti di liberazione si sono avvalsi del supporto di eserciti e forze straniere, non ultima la resistenza partigiana in Italia. Ma non possiamo certo nasconderci – almeno noi - che la Resistenza partigiana in Italia ha dovuto fare i conti con il supporto straniero, pagare un alto prezzo e alla fine subire la presenza degli Stati Uniti. Le 113 basi militari della Nato e degli Usa in Italia hanno operato, insieme ad altri fattori, per blindare la democrazia italiana, regalandoci anche decenni di violenza stragista.
Per questo motivo restiamo convinti che i movimenti popolari che possono pensare e rappresentare un futuro sono quelli che si basano sull’indipendenza dall’imperialismo. I fatti lo hanno dimostrato sistematicamente in ogni quadrante del mondo. Le dichiarazioni dell’establishment francese si intrecciano con quelle dell’amministrazione Obama e con le accelerazioni verso il conflitto impresse dalla Lega Araba, su imprimatur del Qatar e dell’Arabia Saudita; esse spingono verso il conflitto armato dentro e contro la Siria. Ma nel mirino non c’è solo la Siria: se salta Damasco si stringe il cerchio intorno all’Iran e intorno al fronte della resistenza, che ha rappresentato un contrappeso oggettivo ai progetti imperialisti per la regione. Non è un caso che Israele si rallegri delle difficoltà del governo siriano, con cui ha uno storico conflitto e di cui occupa illegalmente il Golan, rispetto al quale il portavoce dell’opposizione siriana, il summenzionato professor Ghalioun della Sorbona di Parigi, ha dichiarato che “facciamo conto sul nostro rapporto speciale con gli europei e le potenze occidentali perché ci aiutino nel recupero del Golan il più velocemente possibile”. Una dichiarazione che evidenzia sia un rapporto speciale che una smaccata dipendenza dalle potenze occidentali.
La guerra dentro e alla Siria è - che piaccia o meno - un indebolimento del fronte di resistenza in Medio Oriente e con esso un attacco a tutti i movimenti di lotta dell’area, a cominciare da quelli libanese e palestinese. Quello che avanza infatti è un processo di normalizzazione armata dell’area, dal quale trarranno vantaggio non il popolo siriano o i popoli arabi, ma Israele, Stati Uniti e petromonarchie del Golfo. Questo non azzera certo le contraddizioni sociali e politiche esistenti in Siria, contraddizioni rispetto alle quali gli Stati arabi – incluso quello siriano – reagiscono assai spesso con la forza senza prevedere alternative più avanzate sul piano politico: ma ci dice anche che ci sono forze che stanno lavorando per orientare in funzione dei propri ed esclusivi scopi lo scontro politico in Siria. Facilitare il loro lavoro non rientra nel nostro orizzonte politico.
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martedì 17 gennaio 2012
La posta in gioco in Siria e l’importanza di lottare contro l’ennesima “guerra umanitaria”
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