IL SISTEMA PINOCCHIO di G.Tirelli
Pinocchio aveva il brutto vizio di dire la verità e,
giustamente, non gli credeva nessuno. Quando affermava il vero, il suo lungo
naso si ritraeva - a volte fino a scomparire. E questo gli creava non pochi
problemi con gli amici, che lo deridevano! Dopo avere frequentato con successo
la scuola dell’obbligo, un giorno espresse al padre la sua ferma intenzione e
il desiderio di continuare gli studi. Il padre preso da disperazione e
sconforto, lo implorava e lo supplicava di recedere da quella decisione
insensata, che lo avrebbe condotto alla rovina certa, dentro una vita di stenti
e di privazioni. “Perché mi fai questo?” disse Geppetto, “vuoi veramente finire
in miseria? Qui c’è tutto ciò che ti serve: una bottega ben avviata, un lavoro
sicuro e ben pagato, creativo e indipendente, che ti riempirà di tante
soddisfazioni – studiare non ti renderà libero, ma schiavo!”, concluse
minaccioso!
Pinocchio, che era tutto di un pezzo, rimase fermo
sulle sue posizioni e, usci senza ribattere sbattendo la porta blindata. Per
ore, girovagò per la città a bordo della sua nuova decapotabile di colore
grigio perla, fantasticando sul giorno di quell’agognata laurea che avrebbe
coronato quel suo grande sogno.
Il Gatto e la Volpe (l’una laureata in scienze della
comunicazione e l’altro, ingegnere informatico), apparvero in quel pomeriggio
assolato mentre Pinocchio, seduto su di una panchina del parco della “Cultura e
della Tecnica”, era assorto nella lettura di un testo di fisica quantistica di
David Bohm e J.Krishnamurti: “Dove il tempo finisce”.
Dopo avere scambiato quattro chiacchiere
sull’argomento, i due prospettarono a Pinocchio l’idea di avventurarsi in un
viaggio, ai confini del tempo, dove esisteva un posto dal nome enigmatico: “la
Città del Se Relativo”. Li, poteva trovare tutto il sapere del mondo – dalle
sue origini, alla realtà presente e così ascoltare e disquisire con i più
grandi luminari e depositari della conoscenza di sempre.
Allettato ed eccitato dall’intraprendere quella
meravigliosa avventura, accettò senza indugiare la loro proposta.
L’indomani, di buon mattino, senza avvertire il
padre Geppetto del suo proposito, si mise in cammino con i due sapientoni verso
l’ingresso del tunnel di Higgs che, ad una velocità superiore a quella della
luce, li avrebbe portati a destinazione.
La “Città del Se Relativo”, ubicata al centro di un
immenso deserto, era avvolta da una perenne luce crepuscolare che, in
quell’atmosfera irreale, contrastava con l’accecante bagliore di migliaia di
fari che la illuminavano a giorno, simile a un enorme sole al tramonto sul mare.
I tre avanzavano verso la grande, porta di ingresso
che appariva ai tre visitatori
come un enorme specchio concavo, che capovolgeva ogni cosa e realtà.
Dentro la città, un chiacchiericcio assordante
sovrastava sopra tutto e tutti.
Non si vedevano alberi, siepi, parchi o aiuole ma
tutto era lastricato di infiniti specchi di ogni forma e colore. Un mondo, di
luci e di riflessi, privo di ombre, dove ogni corpo e cosa, erano esposti allo
sguardo, allo stupore e alla paura dell’altro. Così, seguendo le indicazioni di
una voce metallica proveniente da chissà dove, i tre raggiunsero il centro di un
immenso spazio chiamato “la Piazza della Ragione” dove, una folla straboccante
di strani e singolari individui parlava ininterrottamente, senza sosta. Molti,
seduti per terra, scrivevano e appuntavano, altri formulavano teorie
fantascientifiche sulla necessità di una nuova razza di ultima generazione, in
grado di pacificare l’umanità e dispensare benessere e felicità per tutti.
Altri ancora, esibivano con fierezza i prototipi delle loro scoperte,
decantandone i benefici, vantaggi e le mille applicazioni sulla società, mentre
i più, si sperticavano in lodi e applausi a suffragare il narcisismo e la
vanità dei grandi scienziati e ricercatori.
Pinocchio si rese conto che quelle non erano vere
persone e che piano, piano i loro corpi trasfiguravano in macchine. Atterrito
da quella circostanza paradossale, si allontanò di fretta dalla piazza in
direzione dell’uscita. Ma le sue gambe non rispondevano più ai comandi del
cervello e, presto, si accasciò al suolo, tremante di paura.
A nulla valsero le suppliche di Pinocchio, che
contava su un intervento provvidenziale e risolutivo della Fata Turchina – Lei,
che inascoltata e dileggiata, lo aveva sempre esortato a considerare i saggi
consigli di Geppetto. Troppo tardi il cuore di Pinocchio comprese le parole del
padre, mentre un paio di antenne gli spuntavano dalle orecchie e le sue grida
di orrore erano più simili a uno stridulo rumore di ferraglie. La
trasformazione era già in atto.
Alcune lacrime gli solcarono il viso - ultimo,
estremo brandello di un’umanità tradita - prima di trasformarsi in un robot.
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*Alfabetizzazione e omologazione, procedono allo
stesso passo, e sono le due facce di una stessa medaglia. Spingono gli
individui a uniformarsi alle tendenze dell’idea dominante. Un opera di
condizionamento e di plagio senza precedenti che, in pochi decenni, ha scardinato
ogni preesistente regola e personalismo, e costretto l’individuo a tradire la
sua vera natura, per sottomettersi all’egemonia dell’industrialesimo idolatra e
alle seducenti sirene del consumismo.
Quella che oggi, impropriamente, definiamo “la
cultura”, si è rivelato arido apprendimento; improduttivo e inconcludente.
Quanti giovani, oggi, hanno buttato il loro prezioso
tempo, chini sui banchi di scuola, dentro atenei caotici fra, master, stages e
improbabili specializzazioni? Quanti hanno rinunciato a vivere, per rincorrere,
il mito di una laurea, svuotata di ogni significato e intenzione, per coronare
l’ambizione dei loro padri? Quante energie e sudati risparmi, è costato tutto
questo?
Meglio sarebbe stato per loro zappare un campo,
coltivare patate - raccogliere i frutti della fatica, dando alla propria
esistenza, un senso, una dignità e una vera libertà. Meglio sarebbe stato per
loro impastare cemento. Costruire una casa di pietra, sulla collina, fra i
sugheri le querce. E poi al tramonto, rincasare, e perdersi nella magia dei
sorrisi e garriti di gioia, di marmocchi analfabeti, gonfi d’amore e di sincera
meraviglia.
Gianni Tirelli
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