IL TORTO DELLA
RAGIONE di G.Tirelli
L’illuminismo,
nonostante la relativa fede e i nobili presupposti dei suoi fautori, ha dato
inizio a quel processo di omologazione che, nel tempo, ha prodotto quello che
oggi, è il liberismo consumista relativista, delle società occidentali.
Nella vita di
ogni giorno, da sempre, esiste una componente dominante in grado di ribaltare e
mortificare ogni supposta logica, ragione e preventiva conclusione, in virtù
delle quali crediamo di controllare ogni cosa ed evento.
Sto parlando
del “Caso” che, a mio giudizio, esula da ogni comprensione umana per attestarsi
nella sfera del divino in virtù della sua imperscrutabile volontà. Non c’è
dubbio che un uso corretto della ragione, migliori l’esistenza umana ma, in
nessun caso, può essere strumento di proselitismo etico, politico, religioso e
culturale.
Definire
l’illuminismo un movimento filosofico, sarebbe una forzatura in quanto, il
pensiero che lo ha prodotto (generato) è viziato da fattori tecnici e
tecnicismi, intrinseci alla Rivoluzione Industriale. Le grandi filosofie,
fondano l’autenticità del loro pensiero, proprio perché sganciate e liberate
dai condizionamenti, luoghi comuni e dogmi, endemici alla realtà presente e,
ancor più se, la loro natura, è di tipo scientifico e meccanico.
Il concetto
cardine dell’Illuminismo è l’affermazione dell’autonomia della ragione, da ogni
autorità esterna ad essa. In pratica, secondo l’illuminismo, l’uomo deve
imparare a ragionare con la propria testa e a ritenere valide solo quelle
verità che egli riesce ad appurare grazie alla ragione, indipendentemente da
ciò che afferma la religione, l’autorità, la politica o la tradizione. In altre
parole, sono ritenuti veritieri, solo quei fenomeni che possono essere
dimostrati, attraverso la ragione, i sensi e un costrutto logico. Niente di più
errato! Un tale ragionamento, per la sua natura utopica avventuristica, può
trovare corrispondenze nel singolo o in un gruppo di eccentrici intellettuali
dai nobili ideali ma, in nessun modo, trovare applicazione in un contesto di
massa. Tanto più, in quel preciso momento storico dove, i canti suadenti delle
seducenti sirene della neo-modernità, inebriavano di aspettative un’avventura
che stava cambiando radicalmente la storia dell’umanità, ma per il peggio.
Prendere poi,
a misura delle proprie supposte convinzioni, gli umori e i pruriti della
metropoli (colta, vanesia e intellettuale), come parametro di riferimento e
piattaforma di lancio verso il futuro, è stato, nella storia dell’uomo, il
grande errore originale e, per questo, imperdonabile. Escludere da tali
intendimenti e dal processo di sviluppo, tutto il resto del mondo, delegando a
una minoranza le sorti del pianeta, ha prodotto quel disastro globale (umano,
di valori, culturale e ambientale) che caratterizza le moderne società
liberiste e consumiste. La modernità, metastasi della Rivoluzione Industriale,
ha separato e codificato, il passato, il presente e il futuro in tre entità
assestanti, svincolate da ogni interazione e comuni finalità. Nel mondo
contadino di un tempo, al contrario, queste tre entità erano fuse fra loro
dentro un’unica realtà, sostanzialmente immutabile e, la proiezione del futuro
era scandita dal raccolto delle messi mentre, il presente, dalla semina. Il
passato, relativamente simile al presente, si esprimeva nelle commemorazioni
dei propri defunti, nel ricordo, nella tradizione e nelle ricorrenze. Altro,
che separasse fra loro in modo netto e autonomo queste tre condizioni
temporali, non esisteva. Era il disegno logico e perfetto di un eterno presente.
Nelle città
industriose e industriali Europee, questo meccanismo imperituro cominciava a
venir meno, per aprirsi alle nuove teorie dell’illuminismo, e a una radicale
svalutazione della realtà, postulata dal movimento nichilista russo. La
Rivoluzione Industriale, dunque, segna lo spartiacque fra due mondi, opposti e
contrapposti, lontani da ogni confronto e parallelismo. Così, è improprio
parlare di una storia del mondo e dell’umanità ma, bensì, di due storie, di due
mondi e di due umanità. Una che ha origine nella notte dei tempi e termina il
suo viaggio agli albori della Rivoluzione Industriale, la seconda, generata
dagli umori mefistofelici del neo industrialesimo rampante e schizofrenico che,
in pochi decenni, ha fatto piazza pulita di ogni ragione, passione, tradizione
e conoscenza, confinando la verità in una dimensione relativa.
Le teorie
illuministe, sono state il terreno di coltura dell’odierno liberismo che, nella
contraffazione della realtà e nella mistificazione della verità (assunte a
pratiche relazionali) incarnano il germe malefico dell’ossimoro al potere
riducendo, la verità, ad un inquietante esercizio di relativismo.
I modelli
teorici dell’illuminismo, guardavano al passato, come ad un cumulo di errori,
responsabile di avere prodotto una società barbara ed arretrata. Gli
illuministi, si immaginano proiettati verso il futuro – un futuro di luce e di
progresso. Per garantire una tale innovazione e dare forma alle moderne teorie
era però necessario liberare l’umanità dalla pesante “schiavitù culturale” (e
spesso anche “materiale”) ereditata dal passato.
L’avere
demonizzato il passato, mortificandolo nella sua sostanza, sull’onda delle
proiezioni futuribili indotte dalle nuove scoperte scientifiche che
promettevano, giustizia, felicità e libertà per tutti, è il falso storico del
pensiero illuminista.
L’obiettivo
dell’illuminismo era di porre, alla base della morale e della politica, la
ragione umana atemporale. Credere di rinnovare la società, spiegando alle masse
che la povertà e la sopraffazione erano dovute all’ignoranza e alla
superstizione, è stato un grande errore di ingenuità e di presunzione, relativo
ad una scarsa comprensione di quel disegno sovrannaturale che, proprio in virtù
del valore imprescindibile e imperituro della diversità, suggella la sua
ragione d’essere.
A più
diversità corrisponde più libertà! E questo è un principio indiscutibile!
L’illuminismo,
nonostante la relativa fede e i nobili presupposti dei suoi fautori, ha dato
inizio a quel processo di omologazione che, nel tempo, ha prodotto quello che
oggi, è il liberismo consumista relativista, delle società occidentali.
Voltaire
sostiene che, “esiste un Dio ma i dogmi religiosi, e le raffigurazioni della
sua immagine, sono invenzioni umane”. Diversamente da Voltaire, trovo, questa
tesi, alquanto riduttiva e poco avveduta, ritenendo le suddette “invenzioni”,
la rappresentazione iconografica del divino e della divinità; un’espressione
artistica di natura spirituale, in forma di dono votivo e commemorativo che, da
sempre, ha caratterizzato l’individuo, le comunità e le grandi civiltà del
passato, come momento di aggregazione, comunione e tradizione della storia del
mondo. Dio esiste, in quanto baluardo di speranza e di auspicio e, per tanto,
non può accampare alcun diritto all’interno della sfera del razionalismo e
della ragione illuminata – salvo l’eccezione di volere interpretare la natura e
le sue leggi, come la sua espressione ultima e la più evidente.
Se gli uomini,
in nome della religione, si perseguitano e si uccidono, (continua Voltaire),
questo succede per la loro ignoranza e stupidità. L’illuminismo, in realtà, è
stato, un inedito movimento politico, tendenzialmente ateo e materialista che,
per una semplificazione, ha coniugato (anticipandoli in forma profetica), il
pensiero marxista con l’odierno liberismo, dentro un sussulto anarcoide. Tale
alchimia, prodotta dalla convergenza di principi e fattori inconciliabili fra
loro, ha prodotto un sincretismo gelatinoso che, nell’arco di due secoli, è
mutato in perverso relativismo, trasfigurando la licenza in libertà, la
furbizia in intelligenza e la menzogna in regola relazionale.
Dio, in quanto
puro spirito (entità trascendente, concetto astratto) non era considerato dagli
illuministi una verità assoluta, così come non godevano di molta fortuna gli
altri misteri delle fedi e delle religioni. La maggior parte degli illuministi,
infatti, era convinta che l’universo funzionasse, non grazie all’intervento
divino, ma in virtù di un preciso meccanismo di autoregolamentazione: il ciclo
perenne della natura: nascita, crescita, morte e trasformazione della materia.
Promuovere,
imporre e volere “globalizzare” i lumi della ragione (pur apprezzandone le
buone intenzioni), è un esercizio di illusionismo che non tiene in nessun conto
le imprescindibili esigenze individuali e gli equilibri sincroni e vitali
dell’esistenza essendo, la stessa ragione, per definizione, soggetta e relativa
alla consapevolezza, alla capacità di discernimento, alla forza di volontà, a
fattori culturali, religiosi, geografici e, più in breve, al libero arbitrio.
Quando la ragione diventa razionalità e logica e, le parole che presumono
spiegarla, i numeri infiniti di un’equazione algebrica, il risultato finale
sarà un materialismo omologante e un appiattimento culturale verso il basso,
scevro da ogni individualismo, personalismo, giudizio critico e sentimento di
passione.
Per non dare
addito a fraintendimenti (vista la delicatezza dell’argomento trattato e il
rischio di diversa interpretazione), il mio giudizio critico sulle teorie
illuministe, non entra nel merito del suo ambizioso quanto utopico programma
ma, sugli effetti postumi che, il processo industriale e in seguito,
tecnologico, hanno prodotto. Per brevità, se il mitico Voltaire potesse
“buttare un’occhiata” sulla realtà odierna, si rivolterebbe nella tomba.
“Si può dunque
affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere,
è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare
tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione
borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema
d’informazione…” Pasolini – Scritti Corsari 1975 – Avere previsto o più
semplicemente immaginato un mondo alla mercé dei mezzi di comunicazione e mediatici,
e future società che sul consumo sistematico di beni voluttuari, accreditavano
la loro sopravvivenza, sarebbe stato troppo anche per Voltaire e illuminati
seguaci.
“Gli italiani,
continua Pasolini, hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la
televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di
benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono
davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente,
diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che, in misura così
minima, da diventare vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono
ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi
anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza.
Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti, in possesso però
del mistero della realtà e della ragione. Guardavano con un certo disprezzo
spavaldo ì “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche
quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario essi cominciano a
vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello
culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente
perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo
e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari – umiliati – cancellano nella loro
carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica
di “studente”. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della
loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica
piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo
stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello televisivo – che,
essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente
naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono
imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi
producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico,
impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro, di svilupparsi. Da ciò deriva
in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La
responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in
quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa.
Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un certo
elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che
altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della
televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è
dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e
repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo – un virus letale e
globale. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans
mussoliniani fanno sorridere; come (con dolore) l’aratro rispetto ad un
trattore. Il fascismo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire
l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di
comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha
scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre….”
Quel processo di semplificazione “ragionato”
che ha traghettato l’uomo da un passato industrioso a un presente industriale,
è dunque miseramente fallito.
Gianni Tirelli
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