«I giornalisti? Sono più disonesti dei politici»
Lunga intervista a Massimo Fini, sull'onestà del giornalismo e sulla fedeltà a sé stessi
Quando sei convinto di avere un appuntamento a casa di Massimo Fini alle 6 di sera e alle 4, mentre stai riguardando le domande che ti sei preparato, il telefono squilla con il suo nome sullo schermo, sei portato a pensare che l’intervista che stavi aspettando da settimane non sia esattamente partita con il piede migliore. Prima di rispondere ti schiarisci la voce, poi scorri il tuo ditone sullo schermo e rispondi: «Sì, pronto, buonasera... sì... effettivamente... alle 6... non c’è problema... in un quarto d’ora sono lì...».
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La prima volta che vidi Massimo Fini fu un pomeriggio di settembre della prima metà degli anni Duemila, mi sembra il 2004. Eravamo a Mantova, lui in una delle sue rare apparizioni festivaliere — a presentare Sudditi. Manifesto contro la democrazia, che era uscito da poco per Marsilio — io nelle vesti di un giovane volontario del Festivaletteratura, di quelli con la maglietta blu. Non avevo idea di chi fosse, non lo avevo mai sentito nominare e men che meno l’avevo sentito parlare o avevo letto qualche suo articolo. Era un perfetto sconosciuto, ma mi capitò di prestare servizio proprio al suo evento, e lo ascoltai, seduto per terra, con le gambe formicolanti, per una bella oretta e mezza. Alla fine, quando mi alzai, ebbi la netta sensazione di non essere esattamente la stessa persona di quando mi ero seduto. E non soltanto perché non sentivo più la gamba destra. Nei dieci anni che separano quella gamba formicolante da quel telefono che vibra sono successe un sacco di cose: Fini ha scritto altri libri — ma non è più tornato a Mantova — ha cominciato a scrivere sul Fatto Quotidiano (che all’epoca ancora non esisteva) e ha fondato un movimento. Io, invece, che intanto sono decisamente meno giovane e non metto più magliette blu nemmeno durante il Festival, di Massimo Fini mi sono letto un sacco di libri: cominciando da Sudditi, che lessi d’un fiato proprio quella sera, passando poi per Il vizio oscuro dell’Occidente, il Di[zion]ario erotico, La Ragione aveva torto?, il Mullah Omar e Ragazzo, fino a Il Conformista, piccola bibbia del giornalismo sulle cui pagine torno spesso, soprattutto nei momenti di difficoltà. Insomma, Massimo Fini è per me un personaggio dannatamente affascinante. E lo è per un motivo che insieme è molto semplice e molto raro: è uno dei pochissimi giornalisti che oggi, in Italia, è dotato di una straordinaria onestà intellettuale, di un’irriducibile coerenza con se stesso che viene sempre prima di ogni altra cosa e che lo ha portato spesso a giocarsi tutto — visibilità, carriera, fama — pur di non sacrificarla. È per tutte queste cose che il 3 giugno, alle 5 del pomeriggio, accompagnato dall’immancabile ansia tipica di questi incontri, mi sono ritrovato nel salotto di Massimo Fini, un salotto stracolmo di libri, impilati sul tavolo, appoggiati disordinatamente su sedie e tavolini, pigiati nella libreria-muraglia, su scaffali dalla tassonomia diligentemente etichettata.
«Sono figlio di un giornalista», attacca lui, alla mia domanda su come ha iniziato a scrivere per i giornali, «ma per ribellismo non ho voluto fare il lavoro di mio padre, almeno all’inizio. È per questo che da giovane ho fatto un sacco di lavori diversi. Ho lavorato alla Pirelli — un lavoro straziante — ho fondato un’agenzia pubblicitaria e molte altre cose».
Uhm, tanti lavori diversi. Mi ricorda qualcosa.
E poi che è successo?
Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre — a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato. Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio padre, in realtà mi piaceva.
Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre — a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato. Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio padre, in realtà mi piaceva.
Bussare alle porte dei giornali per riuscire a cominciare, scontrarsi con la fila di persone che per diritti di nascita o di censo ti precedono, fare esperienza senza essere pagato. Non avrei mai pensato che la vita di un aspirante giornalista negli anni Sessanta fosse così simile alla nostra...
L’Avanti! era organo del partito socialista, o sbaglio? Come ti sei trovato in un contesto del genere?
Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario, interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano intellettuali strani, persone decisamente interessanti.
Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario, interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano intellettuali strani, persone decisamente interessanti.
Perché te ne sei andato?
Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale.
Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale.
Come cambiò la tua vita all’Europeo?
Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo, il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane, mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto, però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976, quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e dilettantesca.
Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo, il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane, mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto, però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976, quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e dilettantesca.
In che senso comica?
Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti: ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso.
Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti: ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso.
Cambiò qualcosa solo all’Europeo o fu un cambiamento più generale?
Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato tutto.
Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato tutto.
Tu come hai vissuto questo cambiamento?
Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma. Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina, un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.
Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma. Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina, un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.
Si accende una sigaretta, io intanto ne rollo una di tabacco e l’accendo anch’io. Lasciamo cadere la cenere in un piccolo posacenere pieno di sigarette spezzate, appoggiato su un libro dalla copertina blu, sporco di cenere: una vecchia e splendida edizione del Viaggio al termine della notte di Céline.
Che genere di colpe?
Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi, che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un organo del partito socialista.
Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi, che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un organo del partito socialista.
E poi?
Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina, perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto — leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature, un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa, della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro, io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni, quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale, mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre carte noi alla fine avevamo la nostra libertà.
Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina, perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto — leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature, un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa, della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro, io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni, quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale, mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre carte noi alla fine avevamo la nostra libertà.
Hai avuto buoni rapporti con i tuoi direttori?
Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro, che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava, certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi lasciavano lavorare.
Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro, che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava, certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi lasciavano lavorare.
E invece con chi hai avuto problemi?
Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979 non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime che ti tolgono energia me le sono potute evitare.
Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979 non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime che ti tolgono energia me le sono potute evitare.
Mi racconti della tua esperienza all’Indipendente?
Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è andato a lavorare per Berlusconi.
Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è andato a lavorare per Berlusconi.
Che tipo di giornale era?
Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da 20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno, quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui, bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato.
Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da 20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno, quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui, bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato.
È curioso, per un trentenne come me, sentir parlare in questo modo di Feltri, per noi nati negli anni Ottanta lui è solo quello che è ora. Che cosa è successo?
Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si dovrebbe mai nascere poveri — al Giornale gli offrivano un miliardo, da noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto, anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra, libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni, però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari, emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle.
Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si dovrebbe mai nascere poveri — al Giornale gli offrivano un miliardo, da noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto, anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra, libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni, però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari, emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle.
Eccoci arrivati alla politica, a Grillo — «siamo amici da trent’anni» — al Movimento 5 Stelle, ovvero a un potenziale pantano. Per un attimo mi spaventa l’idea di vedere la conversazione prendere quella strada, che poco c’entra, anzi quasi per niente, con quello a cui volevo arrivare.
Tornando al giornalismo, che è quello che mi interessa, che cosa significa essere intellettualmente onesti?
L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano, sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti».
L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano, sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti».
Che cosa intendeva?
È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.
È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.
E cosa è cambiato?
Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista.
Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista.
Quale è stato il punto di rottura?
Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità.
Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità.
Che responsabilità hanno avuto i giornalisti?
Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola — hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica.
Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola — hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica.
Dici che intellettuale è una brutta parola. Perché il termine “intellettuale” è diventato un insulto in questo paese?
Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.
Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.
E in Italia?
In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere.
In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere.
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