LIBRE
associazione di idee
Latouche: l’economia, una religione che distrugge la felicità
24/5 •
Considerare
il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista,
l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione. Il nostro
obiettivo deve essere vivere bene, non meglio. Per anni abbiamo pensato
proprio che la crescita permettesse di risolvere più o meno tutti i
conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più elevati. E in
effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine della Seconda
Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Settanta. Un periodo
caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di
un’intensità senza precedenti. Poi è iniziata la fase successiva, quella
dell’accumulazione continua, anche senza crescita. Una guerra vera,
tutti contro tutti. Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni
agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente
possibile. E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che
in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta. Stiamo facendo
la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed
economisti fingono di non vedere: per definizione, una crescita
infinita è assurda, in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non
lo avremo distrutto.
Per
fare la pace dobbiamo abbandonarci all’abbondanza frugale,
accontentarci. Dobbiamo imparare a ricostruire i rapporti sociali. E’
evidente che un certo livello di concorrenza porti beneficio a
consumatori, ma deve portarlo a consumatori che siano anche cittadini.
La concorrenza non deve distruggere il tessuto sociale. Il livello di
competitività dovrebbe ricalcare quello delle città italiane del
Rinascimento, quando le sfide era sui miglioramenti della vita. Adesso
invece siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno
l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo, rendendoci infelici.
Invece non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che
abbiamo. Basti pensare che il 40% del cibo prodotto va direttamente
nella spazzatura: scade senza che nessuno lo comperi. La globalizzazione
estremizza la concorrenza, perché superando i confini azzera i limiti
imposti dallo Stato sociale e diventa distruttiva. Sapersi accontentare è
una forma di ricchezza: non si tratta di rinunciare, ma semplicemente
di non dare alla moneta più dell’importanza che ha realmente.
Dalla
concorrenza, i consumatori possono trarre benefici effimeri: in cambio
di prezzi più bassi, ottengono salari sempre più bassi. Penso al tessuto
industriale italiano distrutto dalla concorrenza cinese e poi agli
stessi contadini cinesi messi in crisi
dall’agricoltura occidentale. Stiamo assistendo a una guerra. Non
possiamo illuderci che la concorrenza sia davvero libera e leale, non lo
sarà mai: ci sono leggi fiscali e sociali. E per i piccoli non c’è la
possibilità di controbilanciare i poteri. Siamo di fronte a una violenza
incontrollata. Il Ttip, il trattato di libero scambio da Stati Uniti ed
Europa,
sarebbe solo l’ultima catastrofe: il libero scambio è il protezionismo
dei predatori. Come si fa la pace? Dobbiamo decolonizzare la nostra
mente dall’invenzione dell’economia.
Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati. Abbiamo iniziato
noi occidentali, fin dai tempi di Aristotele, creando una religione che
distrugge le felicità. Dobbiamo essere noi, adesso, a invertire la
rotta. Il progetto economico, capitalista, è nato nel Medioevo, ma la
sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare
denaro con il denaro.
Eppure
lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la
società. Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre-economica,
ci vorranno secoli per tornare indietro. Preferisco definirmi filosofo,
anche se nasco come economista, perché ho perso la fede nell’economia. Ho capito che si tratta di una menzogna. L’ho capito in Laos, dove la gente vive felice senza avere una vera economia perché quella serve solo a distruggere l’equilibrio. E’ una religione occidentale che ci rende infelici. Ai vertici della politica gli economisti sono molti. Io mi sono allontanato dalla politica
politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico,
ma sociale. Per avere successo ha bisogno soprattutto di un movimento
dal basso come quello neozapatista in Chiapas che poi si è diffuso anche
in Ecuador e in Bolivia. Ma ci sono esempi anche in Europa:
“Syriza” in Grecia e “Podemos” in Spagna si avvicinano alla strada.
L’Expo? Non mi interessa. Non è una vera esposizione dei produttori, è
una fiera per le multinazionali come CocaCola. Mi sarebbe piaciuto se
l’avesse fatto il mio amico Carlo Petrini. Si poteva fare un evento come
Terra Madre: vado sempre a Torino al Salone del Gusto, ma questo no,
non mi interessa. E’ il trionfo della globalizzazione, non si parla
della produzione. E poi non si parla di alimentazione: noi, per esempio,
mangiamo troppa carne. Troppa, e di cattiva qualità.
(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate a Giuliano Balestreri per l’intervista “L’economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza”, pubblicata da “Repubblica” il 10 maggio 2015).
Considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica
capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione.
Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio. Per anni
abbiamo pensato proprio che la crescita permettesse di risolvere più o
meno tutti i conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più
elevati. E in effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine
della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Settanta. Un periodo
caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di
un’intensità senza precedenti. Poi è iniziata la fase successiva, quella
dell’accumulazione continua, anche senza crescita. Una guerra vera,
tutti contro tutti. Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni
agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente
possibile. E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che
in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta. Stiamo facendo
la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed
economisti fingono di non vedere: per definizione, una crescita
infinita è assurda, in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non
lo avremo distrutto.Articoli Recenti
Mosca non teme la Nato, e il vero sconfitto sarà l’Europa
23/5 • segnalazioni •
Per
il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama
guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti –
prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia
russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo
dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato
attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è
stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non
farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non
sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile
deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una
Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione
dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe
esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà
vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si
arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le
linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in
terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».
Il
Pentagono, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”,
sa benissimo che la Russia «ridurrebbe le forze della Nato in frantumi
in poche ore». Poi «arriverebbe la scelta decisiva di Washington:
accettare la bruciante sconfitta o passare alle armi tattiche nucleari».
Il Pentagono sa che la Russia «ha le capacità difensive, aeree e
missilistiche, per controbattere qualsiasi arma», incluse quelle del
programma “Prompt Global Strike” statunitense (Pgs). Secondo il generale
Kirill Makarov, numero due delle forze di difesa aerospaziali russe,
l’attuale infrastruttura militare della Nato è la maggiore minaccia alla
sicurezza di Mosca, che però avrebbe «un paio di generazioni di
vantaggio» nei propri armamenti difensivi. Spiegazione: «Mentre il
Pentagono era impegolato nei suoi problemi in Afghanistan e Iraq, si è
completamente perso il salto in avanti tecnologico compiuto dalla
Russia», scrive Escobar. «Lo stesso vale per la capacità cinese di
colpire i satelliti statunitensi e quindi polverizzare il sistema di
guida satellitare degli Icbm statunitensi», cioè i missili balistici
intercontinentali.
«Lo
scenario corrente – continua Escobar – è che la Russia guadagna tempo
fino a che non avrà completamente protetto il proprio spazio aereo dagli
Icbm statunitensi, aerei stealth e missili cruise, con il sistema
S-500». Ciò non è sfuggito all’attenzione del “British Joint
Intelligence Committee” (Jic), che aveva simulato tempo fa l’eventualità
di un primo attacco di Washington ai danni della Russia. Secondo il
Jic, Washington potrebbe avere seri problemi in tre casi: se un governo
“estremista” dovesse prendere il potere negli Usa, se ci fosse una crescente caduta di fiducia negli Usa
e nei loro alleati occidentali a causa di sviluppi politici nelle
nazioni stesse, e se ci fosse qualche repentino avanzamento nella sfera
degli armamenti statunitensi, tanto che l’impazienza possa prendere il
sopravvento. Smontata l’ipotesi che gli Usa
possano sferrare il “primo colpo” per abbattere la capacità difensiva
di Mosca, resta una pesante incognita: cosa accadrebbe se domani gli
Stati Uniti disponessero di una tranquillità strategica come quella di
cui oggi gode la Russia?
Tutto il gioco, continua Escobar, ruotava attorno a chi controllava il mare – il regalo geopolitico che gli Usa
hanno ereditato dal Regno Unito. «Controllare i mari significa
ereditare cinque imperi: Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e
Paesi Bassi. Tutti quei natanti statunitensi che pattugliano i mari per
garantire “libero mercato” – come sostiene la macchina della propaganda –
potrebbero essere usati di colpo contro la Cina. È un meccanismo simile
all’operazione finanziaria “governare da dietro” attentamente
architettata per contemporaneamente distruggere il rublo e lanciare una
guerra del petrolio per ridurre alla sottomissione la Russia». Il piano
principale di Washington, aggiunge Escobar, resta semplicissimo:
«“Neutralizzare” la Cina dal Giappone e la Russia dalla Germania, con
gli Stati Uniti a fare da spalla ai due puntelli. La Russia è de facto
l’unico paese dei Brics ad opporsi». Questa era la situazione fino a che
Pechino non ha lanciato le nuove “vie della seta”, ovvero il progetto
di unire tutta l’Eurasia sul piano economico e commerciale su binari ad
alta velocità, trasferendo tonnellate di merci dal trasporto marittimo a
quello terrestre. Mentre Washington continua a demonizzare la Russia
per colpire la partnership sino-russa, in un futuro non remoto Germania,
Russia e Cina avranno «ciò che serve per diventare i pilastri di
un’Eurasia totalmente integrata».
Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si
chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti
– prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia
russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo
dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato
attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è
stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non
farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non
sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile
deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una
Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione
dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe
esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà
vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si
arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le
linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in
terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».Il Guardian: perché continuiamo ad eleggere questi idioti
22/5 • idee •
Politici.
La loro reputazione è davvero bassa. In tutta onestà, questa è di gran
lunga la loro più grande colpa, ma sarebbe stupido pensare che ogni
politico sia tale. Se tutti lo fossero, il mondo intero collasserebbe
prima ancora che si possano pronunciare le seguenti parole: “posso
mettere nel rimborso spese?”. Tutti pensano che i politici siano
riprovevoli e quindi pensano sempre al peggio. Un politico mette in atto
una cattiva politica?
E’ una persona terribile. Cambia idea e fa retromarcia? È debole e non
propenso alla leadership. I politici promettono miglioramenti (tagli
delle tasse, aumento della spesa)? Naturalmente stanno mentendo. I
politici promettono di fare qualcosa di non popolare (aumentare le
tasse, tagliare la spesa)? Sarà una garanzia assoluta. È una situazione
da cui nessuno esce vivo, quindi perché importunano? Molti politici
sono nelle loro posizioni per scopi personali, ma sicuramente ce ne sono
tanti che cercano realmente di fare del loro meglio e si rassegnano
alle opinioni negative che ricevono.
Dunque,
per la cronaca, non tutti i politici sono idioti (sebbene la vostra
definizione di idiota possa variare). Ma ne è comunque pieno. Gli Stati
Uniti sembrano particolarmente toccati dalla questione; Sarah Palin, Ted
Cruz, queste persone stavano/stanno contendendo la presidenza. Esempio:
George W. Bush è stato presidente. Per 8 anni. L’uomo le cui stupide
riflessioni sono state in grado di sostenere affari con un arsenale
nucleare al suo comando. Non che il Regno Unito possa sentirsi
compiaciuto, con il grado di comprovata idiozia che ha al suo interno.
Michael Gove, Chris Graylng, Grant Shapps, Jeremy Hunt, David
Tredinnick, un partito laburista ridicolo (un insieme di babbei),
l’ascesa dell’Ukip e il caro sindaco Boris Johnson. Un gran numero di
persone è pronto a dire che Boris Johnson sia davvero
intelligente/pericoloso, e che stia solo facendo finta di essere un
buffone. Ma questo supporta la nostra tesi: una persona intelligente
deve fingersi stupida per raggiungere il successo politico.
Cosa
sta succedendo? In teoria, si dovrebbe voler avere una persona
intelligente e che capisca l’approccio e i metodi migliori per governare
un paese nel miglior modo possibile. Ma non è così, la gente sembra
attratta da esempi di discutibile abilità intellettuale. Ci sono tutta
una serie di fattori coinvolti tra cui quelli ideologici, culturali,
sociali, storici, finanziari; i politici comprendono tutti questi
aspetti, ma ci sono anche dei processi psicologici che contribuiscono a
questo fenomeno. La sicurezza ispira sicurezza. Le persone sicure di sé
sono più convincenti. È stato dimostrato in molti studi. La maggior
parte di questi prende spunto dall’ambiente dell’aula di tribunale e
suggerisce che un testimone sicuro è più convincente per la giuria
rispetto a uno nervoso e titubante (il che ha ovviamente implicazioni
preoccupanti per la giustizia), ma può essere dimostrato anche altrove. È
un fenomeno che è stato sfruttato per decenni dai venditori di
automobili e dagli agenti immobiliari. I politici ne sono chiaramente
consapevoli, e così tutti i media
e il management delle public relations; un politico che non si presenti
convinto e sicuro di sé viene (metaforicamente) distrutto. Dunque la
sicurezza è importante in politica.
Comunque,
l’effetto Dunning-Kruger rivela che le persone meno intelligenti sono
incredibilmente sicure di sé. Le persone più intelligenti, al contrario,
non lo sono. L’autovalutazione è un’utile abilità metacognitiva, ma
richiede intelligenza; se non ne hai abbastanza, non ti consideri con
difetti o ignorante, perché non ne hai l’abilità tecnica per farlo.
Quindi se vuoi una persona intrinsecamente sicura di sé per
rappresentare pubblicamente il tuo partito politico, una persona
intelligente sarebbe una cattiva scelta sotto molti punti di vista.
Tuttavia questo potrebbe avere un risvolto positivo; alcuni studi hanno
evidenziato che quando si dimostra che una persona sicura di sé mente o
si sbaglia, viene considerata decisamente meno affidabile e attendibile
rispetto a una persona non sicura di sé. Questo può in parte spiegare la
cattiva fama dei politici, che riguarda per lo più una serie di
persuasive individuali grandi promesse e una serie di miserabili
fallimenti nel riuscire a mantenerle. Queste cose disgustano i
cittadini. Effettivamente, governare un paese di decine di milioni di
persone, ciascuna delle quali ha diverse richieste e necessità, è un
lavoro incredibilmente complicato. Ci sono talmente tante variabili che
devono essere considerate. Sfortunatamente è impossibile far rientrare
tutto ciò in una conveniente formula onnicomprensiva da usare con i media
moderni, quindi le personalità cercano di venire alla ribalta più
spesso. E le personalità meno intelligenti sono più sicure, quindi più
persuasive e così via.
La
gente è spesso infastidita da temi intellettuali e complessi e più in
generale dalle discussioni. Potrebbero non avere esperienza nel tema, o
ritenere superfluo avvicinarsi per la quantità di tempo e di sforzo che
sarebbe necessaria. Ma la politica, e in particolare la democrazia,
richiede una partecipazione attiva delle persone. Diversi studi sulla
personalità suggeriscono che molte persone dimostrano una propensione
agli obiettivi, una “indole verso lo sviluppo o la dimostrazione di
abilità a raggiungere delle situazioni”. Sentire che si sta attivamente
influenzando qualcosa (per esempio le elezioni) è una motivazione
potente, ma se un qualche tipo ben informato inizia a sparare paroloni
su tassi di interesse o sulla mancata gestione dei fondi di health care,
questi alienerebbe quelli che non seguono tali questioni e non se ne
intendono. Quindi se una persona sicura di sé dice che c’è una soluzione
semplice o promette di far sparire le cose difficili, loro sembrano
molto più appagati.
Questo
è anche dimostrato dalla legge sulla banalità di Parkinson, secondo cui
le persone passano molto più tempo e sforzo focalizzandosi su qualcosa
di effimero che possono capire rispetto a qualcosa di complicato che non
possono afferrare. Nella prima situazione, c’è una possibilità più
ampia per la partecipazione e l’influenza. E la gente ama davvero le
cose effimere, ergo le persone meno intelligenti riducendo i grandi
problemi a rapidi (e inaccurati) ritagli sono potenziali vincitori del
voto. Alla gente piace connettersi, comunicare. Una delle più citate
frasi di George W. Bush era che la gente sentiva che avrebbe potuto
“bersi una birra con lui”. Quindi, sentivano che potevano connettersi a
lui, sentirlo vicino. Al contrario, l’elitarismo è una qualità negativa.
L’idea che coloro che governano il paese siano al di fuori delle norme
della società è allarmante per molti e da qui i costanti sforzi dei
politici per “rientrare” nella definizione.
La
maggior parte della gente è naturalmente propensa a preconcetti
inconsci, pregiudizi, stereotipi, e preferisce stare nei propri
“gruppi”. Nessuna di queste cose è particolarmente logica né supportata
da realtà o indizi evidenti e alle persone davvero non piace che venga
detto loro quello che non vogliono sentirsi dire. La gente è anche
terribilmente attaccata allo status sociale; abbiamo bisogno di sentirci
superiori agli altri per pensare che continuiamo a valere la pena. Come
risultato, qualcuno più intelligente dicendo cose complicate che
contengono fatti scomodi (e accurati) non susciterà interesse alcuno, e
qualcuno chiaramente meno intelligente che non andrà a turbare la
percezione dello status sociale se dirà cose semplici e magari
intrinseche di pregiudizi che negano quei fatti scomodi, ancora meglio. È
una situazione infelice, ma questo sembra essere il modo in cui
funziona la mente delle persone. C’è molto di più di quanto detto in
queste righe, ma includendo più aspetti avremmo reso il tutto più
complicato e questo, come risulta da quanto detto fino ad ora, non è il
modo per far piacere le cose alla gente.
(Dean Burnett, “Perché continuamo a eleggere degli idioti – democrazia vs psicologia”, dal “Guardian” del 28 aprile 2015, tradotto da Guendalina Anzolin per “Come Don Chisciotte”).
Politici. La loro reputazione è davvero bassa. In tutta onestà,
questa è di gran lunga la loro più grande colpa, ma sarebbe stupido
pensare che ogni politico sia tale. Se tutti lo fossero, il mondo intero
collasserebbe prima ancora che si possano pronunciare le seguenti
parole: “posso mettere nel rimborso spese?”. Tutti pensano che i
politici siano riprovevoli e quindi pensano sempre al peggio. Un
politico mette in atto una cattiva politica?
E’ una persona terribile. Cambia idea e fa retromarcia? È debole e non
propenso alla leadership. I politici promettono miglioramenti (tagli
delle tasse, aumento della spesa)? Naturalmente stanno mentendo. I
politici promettono di fare qualcosa di non popolare (aumentare le
tasse, tagliare la spesa)? Sarà una garanzia assoluta. È una situazione
da cui nessuno esce vivo, quindi perché importunano? Molti politici
sono nelle loro posizioni per scopi personali, ma sicuramente ce ne sono
tanti che cercano realmente di fare del loro meglio e si rassegnano
alle opinioni negative che ricevono.Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia
21/5 • segnalazioni •
Renzi
bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori
trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia.
Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a
raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation
del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva”
incarnata da proconsoli come Mario Monti, nel suo “Word Economic
Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire
gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della
flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto
sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del
lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per
l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi
dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il
Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono
importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e
dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più
qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al
contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
Per
questo, scrivono Iodice e Palma su “Left”, il Fmi suggerisce alle
economie avanzate un costante sostegno alla domanda per «incoraggiare
investimenti e crescita del capitale», nonché «l’adozione di politiche e
di riforme che possano aumentare in modo permanente il livello del
prodotto potenziale». Politiche di segno diametralmente opposte rispetto
a quelle attualmente adottate dai vari governi, di centrodestra e
centrosinistra, tutti allineati ai diktat austeritari dei grandi padroni
del mercato, l’élite finanziaria che impiega i suoi tecnocratici e i
suoi politici per condurre la grande privatizzazione colpendo l’economia
reale, lavoratori e imprese. Il Fondo Monetario raccomanda politiche
diverse, per «coinvolgere le riforme del mercato dei prodotti, dare
maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo e garantire un uso più
intensivo di manodopera altamente qualificata», oltre che «di beni
capitali derivanti dalle tecnologie dell’informazione e delle
comunicazioni». Si richiedono inoltre «più investimenti in
infrastrutture per aumentare il capitale fisico» e, infine, «politiche
fiscali e di spesa progettate per aumentare la partecipazione della
forza lavoro».
Secondo
Iodice e Palma, «il Fmi arriva buon ultimo, dopo che in moltissimi –
anche tra gli economisti mainstream – hanno sottolineato che la “via
bassa” alla flessibilità, vale a dire ridurre le garanzie e le tutele e
agevolare i contratti precari, è nei fatti un incentivo per le imprese a
non innovare, sostituendo il capitale e le tecnologie con più lavoro
mal retribuito». In altri termini, «con la flessibilità si indebolisce
quel “vincolo interno” che costringe le imprese a trovare modi migliori
per produrre, invece che vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi
della manodopera», come sembra suggerire l’italico Jobs Act creato da
Renzi per accontentare la Confindustria. «Nonostante ciò – aggiungono i
due analisti di “Left” – l’incrollabile convinzione che una maggiore
flessibilità porti ad accrescere la produttività la fa da padrona nel
dibattito pubblico. Ma l’idea che la deregolamentazione del mercato del
lavoro abbia effetti espansivi nel lungo periodo non è meglio fondata
dell’ipotesi – dimostratasi ampiamente fallimentare – che il
consolidamento fiscale produca maggiore crescita del Pil».
Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori
trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia.
Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a
raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation
del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva”
incarnata da proconsoli come Monti e Fornero, nel suo “Word Economic
Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire
gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della
flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto
sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del
lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per
l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi
dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il
Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono
importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e
dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più
qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al
contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
Nessun commento:
Posta un commento