Prima pagina
La lezione storica di un fallimento riformista
La vicenda greca rappresenta uno
spartiacque nella sinistra europea. L'intera impostazione di Syriza si
era basata su un presupposto falso e fallimentare in partenza: quello
della logica del negoziato e del compromesso fra debitore e creditore.
Ma il capitalismo reale si è vendicato brutalmente di ogni illusione.
Ancora una volta, si riconferma la necessità vitale di un programma e di
una direzione rivoluzionari per la classe operaia greca ed
internazionale.
La
vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella sinistra europea.
L'accordo tra Tsipras e creditori contro la classe operaia e la
popolazione povera della Grecia ha spiazzato le correnti riformiste e
centriste della sinistra. Le prime (Sinistra Europea) avevano assunto
Tsipras a propria bandiera di rilancio attorno al mito sempreverde di un
possibile compromesso progressivo keynesiano tra capitale e lavoro. Le
seconde (la maggioranza del NPA francese) avevano definito Syriza come
“un riformismo di tipo nuovo” capace di guidare una “alternativa
democratica all'austerità” senza rottura col capitalismo. Dopo il trauma
imprevisto, le une e le altre cercano una spiegazione consolatoria. I
dirigenti riformisti che avevano cercato in Syriza la propria salvezza,
spiegano la capitolazione di Syriza come il prodotto della
“insufficienza” della mobilitazione solidale in Europa: è il modo di
assolvere Syriza e cercare di salvare il proprio investimento politico,
sperando che passi in fretta la nottata. In campo centrista e in alcune
aree movimentiste proliferano le razionalizzazioni più disparate.
Ultime, quelle (1) che rimuovono di fatto la capitolazione di Syriza nel
nome dell'immaturità delle masse per la rivoluzione e della necessaria
pazienza della storia. Proprio come alcuni ambienti centristi
giustificarono negli anni '30 la tragedia spagnola, assolvendo il ruolo
delle direzioni.
In
realtà scaricare sull'immaturità delle masse il tradimento delle loro
direzioni è il peggiore servizio che si possa rendere alle masse stesse,
e proprio sul terreno essenziale della maturazione della loro coscienza
politica. Forse può essere utile a chi cerca scusanti per continuare a
rimuovere dal proprio campo di lavoro la costruzione del partito
rivoluzionario, nel proprio paese e su scala internazionale. Ma per chi
cerca seriamente la via della rivoluzione il nodo della direzione
politica è strategicamente il nodo decisivo.
Per
questo è utile ricostruire alcuni tratti della parabola di Syriza, alla
luce della sua natura riformista, ripercorrendo l'esperienza del
governo Tsipras. Fuori da ogni suo abbellimento, e contro ogni falsa
mitologia “giustificativa”.
LA RICERCA DI UNA LEGITTIMAZIONE PREVENTIVA
Syriza
(quale “coalizione della sinistra radicale”) nacque formalmente nel
2004 attorno ad un programma classicamente riformista, ereditato dalla
tradizione del Partito Comunista “dell'interno” e di Synaspismos. Un
programma che contestava le politiche di austerità e rivendicava una
riforma sociale della Grecia dentro il quadro di una riforma democratica
dell'Unione Europea.
È
significativo che l'ascesa di Syriza verso il governo, sospinta dalle
lotte di massa, abbia coinciso con lo stemperamento progressivo di
questo stesso programma in direzione di una sua riformulazione sempre
più moderata.
Il
congresso fondativo di Syriza come partito nel 2013 abbandonava la
parola d'ordine “nessun sacrificio per l'euro, prima la società” - che
aveva rappresentato il cuore della campagna elettorale del 2012 - a
favore di un “piano di ricostruzione nazionale” greca rivolto “a tutte
le classi vitali della società”. Un ostentato ecumenismo interclassista
che tuttavia preservava ancora formalmente “la sospensione del pagamento
del debito sino a quando il PIL del paese non sarà ritornato a
crescere” e la rivendicazione della “nazionalizzazione delle banche”.
Tra
il congresso del 2013 e la vittoria elettorale del gennaio del 2015, la
maggioranza dirigente del partito si dedicò ad una ulteriore ripulitura
del programma. La rivendicazione della nazionalizzazione delle banche
veniva abrogata. La “sospensione del pagamento del debito” si
trasformava nella richiesta della “negoziazione del debito”. Più in
generale Tsipras apriva una autentica campagna di propria legittimazione
preventiva agli occhi delle classi dominanti, in Grecia e in Europa.
In
Grecia Tsipras si rivolse direttamente agli ambienti della borghesia,
sviluppando in forma concentrata la propria apertura interclassista. La
Confindustria greca (SEV) fu invitata a rompere i rapporti tradizionali
coi vecchi partiti dominanti e a scegliere la prospettiva di un governo
Syriza per meglio tutelare i propri interessi e potenzialità. La
proposta rivolta agli industriali era quella di liberarsi dei costi
della corruzione e di scegliere la via della modernizzazione
capitalista, a partire dal rilancio delle esportazioni, in particolare
nel settore agroalimentare: «Magari
pagherete qualche imposta in più ma avrete la certezza di una
amministrazione pubblica efficiente ed affidabile. Non ci sarà bisogno
di ricorrere al sostegno dei politici per conquistare i mercati. Li
conquisterete anche all'esterno, grazie alla vostra credibilità e al
vostro valore».
Questa pubblica lode alle potenzialità di successo del capitalismo
greco sul mercato mondiale, dentro la grande stagnazione, era ed è, per
usare un eufemismo, alquanto dubbia. Tanto più a fronte della
catastrofica depressione dell'economia greca negli anni della grande
crisi (-25% del PIL) e dell'ulteriore arretramento strutturale in essa
del settore industriale, già debolissimo. Ma proprio per questo
l'esaltazione propagandistica da parte di Tsipras delle future sorti del
capitalismo greco acquisiva un significato tutto politico: il gruppo
dirigente di Syriza si candidava a governare a braccetto con la
borghesia greca, non contro di essa.
Non
meno significativa, in questo contesto, l'apertura ostentata di Tsipras
alla Chiesa ortodossa, componente tradizionale del blocco dominante in
Grecia. Nell'agosto 2014 il segretario di Syriza si recava in visita al
Monte Athos, repubblica monastica in Macedonia, di antichissima
tradizione (già omaggiata peraltro nel 1995 dai dirigenti del KKE
stalinista). «Quando ti trovi di fronte a questi monasteri non importa se sei credente o no. Entri comunque in comunicazione con la divinità»,
dichiarava solennemente Tsipras alle telecamere. Non si trattava
solamente di una dichiarazione pubblica di (improbabile) conversione
religiosa a fini elettorali. Si trattava anche e soprattutto di un
messaggio politico a ben precisi interessi: significava dire che il
governo Syriza avrebbe rispettato lo storico privilegio delle esenzioni
fiscali per le attività produttive dentro il Monte Athos. Infatti,
quando il famigerato governo Samaras presentò, poche settimane dopo, la
legge di conferma delle esenzioni del clero, sia i deputati di Syriza
che del KKE scelsero l'astensione. Cioè la silenziosa condivisione.
Tsipras si candidava dunque a governare a braccetto della Chiesa
ortodossa, non contro i suoi privilegi.
Parallelamente,
sul piano politico, la stessa rivendicazione di un “governo di
sinistra”, assunta al congresso del 2013, sfumava progressivamente in
direzione di una prospettiva di «ampia alleanza democratica, radicale e progressista, di forze politiche e sociali». In particolare Tsipras apriva al centro dello schieramento politico: «Non
dobbiamo lasciare al centro, che nel nostro caso è l'area di
centrosinistra, alcuno spazio per la sua ricostruzione. La maniera
migliore per cadere nella trappola del centrosinistra è assumere un
atteggiamento di chiusura: non volere nessuno, non dialogare con
nessuno, chiudere le proprie porte... Al contrario dobbiamo instaurare
alleanze in ogni direzione»
(Tsipras al CC di Syriza del giugno 2014). Allearsi in ogni direzione
significò innanzitutto incorporare direttamente all'interno di Syriza
settori provenienti dal centro politico greco. L'”apertura delle porte”
fu praticata in particolare in direzione del personale dirigente
centrale e periferico del PASOK in disarmo, desideroso di
ricollocazione. Era un ulteriore segnale di accomodamento verso quegli
interessi dominanti che con tali ambienti avevano intrattenuto lunghe
relazioni di familiarità. E non a caso incontrò forti resistenze
all'interno di Syriza.
Ma la ricerca di legittimazione preventiva si estese al campo internazionale.
Nell'anno
che ha preceduto il proprio accesso al governo, Tsipras ha realizzato
su questo terreno una strategia di relazioni a tutto campo. Molto
spregiudicata.
L'imperialismo
USA ha rappresentato un primo interlocutore d'eccezione. Non appena la
parabola elettorale ascendente candidò Syriza ad una prospettiva di
governo, la diplomazia USA pensò bene di tastare il polso al nuovo
partito. Non a caso l'incaricato d'affari statunitense presenziò in
prima fila al congresso di Syriza del 2013. Tsipras ripagò l'attenzione.
Nel gennaio del 2013 alla Columbia University, nel novembre del 2013
all'Università di Austin in Texas, il segretario di Syriza scelse la
linea del pubblico elogio dell'amministrazione americana assumendola a
modello di riferimento: «Nel
suo discorso di insediamento il Presidente Obama ha posto al centro
della sua politica il sostegno della classe media e dei più
svantaggiati. C'è un orientamento tutto sommato progressista, proprio
mentre dall'altra parte dell'Atlantico dominano posizioni
conservatrici... Passeggiando per strada qui non si riscontra quel senso
di depressione che purtroppo vive attualmente il mio paese».
Salutare il salvataggio statale dei banchieri e dei capitalisti
americani come “progressista” non significava solo scavalcare a destra
gli ambienti più insoddisfatti del progressismo democratico americano,
ma anche cercare di cavalcare l'interesse USA ad una politica più
espansiva nella UE (in funzione delle esportazioni americane) nella
prospettiva del proprio negoziato con la UE. Di certo significava fugare
ogni dubbio sullo “spirito di responsabilità” di un eventuale governo
Syriza: «C'è
qualcuno qui che teme la sinistra greca?... Gli allarmisti vi diranno
che quando il nostro partito assumerà responsabilità di governo
straccerà l'accordo di credito con l'Unione Europea e il FMI, farà
uscire il paese dall'Eurozona, danneggerà i legami con l'Occidente
civile... Questo è allarmismo della peggior specie. Il mio partito non
vuole nulla di tutto ciò...».
Come tutti gli aspiranti di governo della sinistra europea nell'intero
arco del dopoguerra, anche Tsipras versava l'obolo rassicurante della
propria fedeltà all'imperialismo USA e alle sue alleanze internazionali.
Non a caso l'obiettivo dell'uscita della Grecia dalla Nato, ancora
formalmente presente nel programma di Syriza al congresso del 2013, fu
prontamente cancellato. L'”Occidente civile” poteva dormire sonni
tranquilli.
Ma
è soprattutto nella UE che la strategia della legittimazione preventiva
si dispiegò con grande intensità. Lungo tutto il 2014 il segretario di
Syriza ha sviluppato una fitta rete di relazioni politiche e
diplomatiche con gli ambienti dominanti della UE e con gli stessi
ambienti confindustriali e finanziari, finalizzate a rassicurare i suoi
interlocutori circa le intenzioni e i programmi del proprio futuro
possibile governo. Tsipras si è presentato al convegno di Cernobbio dei
capitalisti e banchieri italiani. Si è presentato alla Borsa di Londra,
cuore della City. Ha chiesto udienza presso il gruppo parlamentare
liberaldemocratico europeo. Ha interloquito con l'intero stato maggiore
della socialdemocrazia continentale. Ha incontrato tutti i capi di
governo degli Stati creditori della Grecia, nessuno escluso. A tutti ha
offerto rassicurazioni. A tutti ha presentato la propria proposta
centrale di compromesso col capitalismo europeo: la proposta di
ulteriore ristrutturazione del debito pubblico greco combinata con la
garanzia del pagamento del debito ai creditori. La motivazione fu
esplicitamente formulata proprio in Italia durante un'apposita
conferenza stampa a Roma: «solo riducendo il debito, i creditori saranno sicuri che sul debito restante saranno ripagati».
L'argomento non poteva essere più chiaro. Syriza presentava la propria
proposta come soluzione vantaggiosa per il capitale finanziario: se il
capitale finanziario europeo vuole evitare di essere travolto dalla
crisi greca allenti un po' la stretta del cappio. Solo un debitore
sopravvissuto sarà in grado di continuare a pagare i propri strozzini.
Parallelamente Tsipras lanciava la propria proposta di una Conferenza
europea sul debito pubblico per una soluzione continentale della
questione del debito. L'idea era quella di incunearsi nelle
contraddizioni interne al capitalismo europeo e internazionale per
favorire un accordo vantaggioso sul debito greco. Lo sguardo era rivolto
in particolare ai governi francese e italiano in funzione di un comune
controbilanciamento dell'egemonia tedesca. Non a caso Tsipras lodò
pubblicamente il governo Hollande quando esso decise di non rispettare
nel 2014 il limite del 3% nel rapporto deficit/PIL, così come lodò
pubblicamente il governo Renzi, giudicando “interessanti” i suoi
interrogativi sul futuro della UE. I governi (antioperai) di due paesi
imperialisti (e creditori della Grecia) furono presentati ai lavoratori
greci come possibili alleati per una soluzione “onesta” sul debito. Del
resto «se
fu condonato il 60% del debito tedesco nella Conferenza storica di
Londra del 1953, perché non si dovrebbe arrivare nel comune interesse ad
una ristrutturazione concordata del debito greco nel 2015?».
Tsipras presentò questa idea non solo come soluzione equa della crisi
greca ma come leva di un cambiamento di fondo della Unione Europea. In
altri termini il segretario di Syriza pensava che il “compromesso
onorevole” sul debito greco sarebbe stato obbligato per i creditori,
quale condizione della stessa sopravvivenza dell'eurozona; e che a sua
volta quel compromesso sul debito avrebbe aperto la via alla
ridefinizione dei Trattati della UE. La via greca alla riforma sociale e
democratica della UE fu salutata da tutta la sinistra europea come la
via maestra finalmente scoperta del riformismo continentale. La
candidatura di Tsipras a Presidente del Parlamento europeo da parte di
Sinistra Europea nelle elezioni del 2014 coronò la nuova suggestione.
DAL PROGRAMMA DI SALONICCO ALLA PROVA DEL GOVERNO
Intanto,
sul versante greco, la preparazione della scadenza decisiva delle
elezioni politiche del gennaio 2015 fu accompagnata dalla presentazione
del nuovo programma elettorale di Syriza. La sua definizione non si
presentava facile. Da un lato esso doveva onorare o non contraddire le
rassicurazioni preventive di Tsipras alla borghesia greca ed
internazionale circa l'accettazione senza riserve del quadro capitalista
e della UE. Dall'altro lato doveva motivare il voto a sinistra come
voto di svolta agli occhi di una popolazione povera annientata dalle
politiche criminali di austerità dei famigerati memorandum imposti dai
governi precedenti. La soluzione escogitata per quadrare il cerchio fu
quella di un programma minimo di riforme sociali e interventi umanitari.
Si trattava del cosiddetto programma di Salonicco, presentato presso la
Fiera Internazionale della città il 13 settembre 2014. Dare corrente
elettrica a 300.000 famiglie sotto la soglia della povertà e fornire
loro buoni pasto; dare una casa a 25.000 famiglie attraverso l'utilizzo
di immobili vuoti e abbandonati; ripristinare l'assistenza sanitaria
gratuita per tutti; abolire l'odiata tassa sugli immobili; ristrutturare
i debiti interni dovuti al fisco; elevare il livello minimo
dell'esenzione fiscale; aumentare il salario minimo da 430 euro a 750
euro; ripristinare la contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Si
trattava di un programma sufficientemente minimo da non interferire
formalmente con la questione strategica dei rapporti di proprietà, del
rispetto del debito pubblico, della collocazione internazionale della
Grecia. Ma anche di un programma destinato ad apparire agli occhi dei
lavoratori e della grande massa impoverita come promessa di svolta della
propria condizione. Tsipras presentò quel programma come «l'insieme delle misure che siamo certi di poter realizzare», «l'impegno solenne che prendiamo di fronte al nostro popolo», la «linea rossa invalicabile»
del nuovo governo. Nella sua visione si trattava di un programma
realmente compatibile col compromesso onorevole col capitale . Nella
visione del popolo si trattava della speranza finalmente offerta dopo
una stagione di drammatiche privazioni.
La realtà spazzò via rapidamente l'illusione di entrambi.
Le
elezioni politiche del 25 gennaio 2015 portarono Tsipras al governo.
L'enorme polarizzazione a sinistra, combinata col crollo dei vecchi
partiti borghesi, misurava la domanda di svolta. Il comizio notturno di
Tsipras in una piazza Syntagma strapiena e festante, salutava il trionfo
con parole impegnative: «Oggi
è un giorno storico per il popolo greco. La tirannia dei memorandum è
finita. La Troika è fuori dalla Grecia. Da oggi il popolo greco è libero
di decidere del proprio destino. È una svolta per la Grecia e per
l'Europa».
L'intera sinistra europea applaudì incantata la solennità
dell'annuncio, leggendovi l'occasione di un proprio riscatto
continentale.
Ma la retorica della vittoria lasciò subito il posto a scelte politiche imbarazzanti.
Il
26 gennaio Tsipras annunciava un governo di coalizione col partito di
destra xenofobo e omofobo Greci Indipendenti (ANEL). Poche settimane
dopo proponeva e designava come nuovo Presidente della Repubblica un
dirigente Prokopis Paulopoulos, della destra di Nuova Democrazia e già
ministro degli interni. Si trattava dello stesso ministro degli interni
della repressione di piazza della gioventù greca (2008), la stessa
gioventù che aveva accompagnato Syriza al governo. Queste scelte non
erano affatto imposte dai numeri parlamentari. Neppure l'alleanza di
governo con la destra xenofoba. Sull'onda dello straordinario successo
Syriza avrebbe potuto mettere alle strette il KKE, sfidandolo
pubblicamente a un governo comune su un programma di rottura
anticapitalista. Avrebbe persino potuto formare un governo di minoranza
in Parlamento, mettendo il Parlamento e ogni deputato di fronte alle
proprie responsabilità agli occhi dei lavoratori e del popolo.
Soprattutto, e in ogni caso, avrebbe potuto organizzare nella società e
nei luoghi di lavoro la grande forza popolare che l'aveva condotto al
potere, facendone la propria potente base d'appoggio contro la
resistenza della borghesia greca e l'apparato dello Stato. Ma nulla era
più lontano dalla logica di Syriza che un governo dei lavoratori greci
al servizio di una rivoluzione sociale.
Proprio
le prime scelte compiute fotografavano infatti la prospettiva opposta.
L'alleanza con ANEL (già negoziata dietro le quinte prima del voto e per
questo immediatamente proclamata dopo il voto) non era semplicemente un
atto di contraddizione plateale con un programma semplicemente
democratico. Né solo l'annullamento di ogni confine o sembianza
classista del governo, a favore di “un governo della nazione” (ciò che
consentiva ai peggiori populismi reazionari di Europa di inquinare con
la propria propaganda sovranista la vittoria di sinistra del 25
gennaio). Quell'alleanza era anche e soprattutto un atto di
collaborazione con la borghesia greca. Fare ministro Kammenos, già
ministro della marina mercantile, significava non-belligeranza verso gli
armatori, la spina dorsale del capitalismo greco. Fare Kammenos
ministro della difesa significava promettere collaborazione alle
gerarchie militari, di cui ANEL è tradizionalmente protettore. Perciò
stesso significava onorare l'impegno di fedeltà alla Nato. Questa
alleanza avrà un costo sociale nei mesi successivi: 50 milioni spesi per
acquistare aerei Lockheed, 500 milioni spesi per l'ammodernamento
dell'Esercito, in piena crisi sociale e umanitaria.
IL PRIMO ACCORDO CON I CREDITORI. LA CADUTA DELLE ILLUSIONI
Ma
è sul terreno centrale della politica economica e sociale che le
promesse della vittoria evaporarono ben presto, una dopo l'altra.
Tsipras
e Varoufakis si sedettero al tavolo dei creditori col bagaglio delle
promesse elettorali e del “mandato popolare”. L'idea era quella di un
negoziato con i governi creditori per un accordo politico:
ristrutturazione del debito contro garanzia del suo pagamento. La prima
ristrutturazione del debito (2012) aveva avuto come interlocutori le
banche tedesche e francesi, grandi creditrici della Grecia. I famosi
“aiuti” alla Grecia erano finiti nei loro portafogli, in cambio di
sacrifici umilianti. Ma ora i principali creditori della Grecia erano
gli Stati (Germania, Francia, Italia) cui le rispettive banche avevano
per tempo ceduto i propri titoli greci (facendoci un ulteriore affare).
Quindi i primi interlocutori del governo Syriza/ANEL erano i governi dei
principali paesi capitalisti del continente. Se il negoziato è politico
con interlocutori politici, lo spazio di accordo non è forse più ampio?
Che interesse politico avrebbero i governi creditori a rompere con la
Grecia e favorire un Grexit, col relativo rischio di una disgregazione
dell'eurozona? Gli USA e la stessa Cina non premono forse a favore di un
accordo? Del resto, i paesi debitori del Sud Europa, non avrebbero
forse un proprio interesse a controbilanciare al tavolo negoziale le
rigidità della Germania e del blocco nordico, a favore delle ragioni
della Grecia? Così ragionava e sperava il gruppo dirigente di Syriza, e
tutta Sinistra Europea a suo rimorchio. I misurati segnali diplomatici
verso la Russia di Putin da parte di Tsipras portavano indirettamente
sul tavolo negoziale un argomento geopolitico a favore dell'intesa
europea. Nel frattempo il ministro delle finanze Varoufakis condivideva
l'auspicato negoziato politico con la spiegazione tecnica di una
possibile rifondazione dell'eurozona. La sua “Modesta proposta per
superare la crisi dell'euro” - elaborata assieme a Stuart Holland e
James Galbraith - propone che i debiti sovrani vengano garantiti sino al
60% del PIL di ciascun paese attraverso una “riserva federale” europea,
impiegando i fondi così ottenuti per finanziare un programma di
investimenti. Parallelamente, il debito greco di 330 miliardi dovrebbe
essere ridotto di 100 miliardi circa (dal 175% al 120% del PIL),
diluendolo con titoli a lunghissima scadenza o rimborsabili solo con una
quota della “crescita”. Con l'innocenza cattedratica di puntiglioso
economista, Varoufakis presentò questa proposta ai vertici negoziali,
intrattenendo a lungo i suoi colleghi europei con eruditi (e snervanti)
argomenti...
Ma
il capitalismo reale si è vendicato brutalmente del capitalismo
immaginario coltivato dai riformisti. I calcoli politici e i
ragionamenti intellettuali non hanno trovato alcuno spazio al tavolo dei
creditori . Al contrario, la realtà ne ha rovesciato gli stessi
presupposti. Da ogni versante.
In
primo luogo, la natura politica del negoziato chiamava in causa
interessi contraddittori e compositi. Interessi economici: perché gli
Stati creditori non avevano alcun interesse ad una ristrutturazione del
debito greco a detrimento delle proprie casse, tanto più a fronte di
opinioni pubbliche interclassiste aizzate dalla demagogia reazionaria
populista contro “i greci nullafacenti e spendaccioni”. Interessi
politici: perché gli Stati creditori non avevano alcun interesse a
favorire un successo di immagine di Syriza che potesse trascinare la
volata di Podemos in Spagna (segnata da un volume di debito pubblico
enormemente più elevato) e processi di polarizzazione politica a
sinistra in altri paesi. Certo esistevano ed esistono contraddizioni
indubbie, politiche ed economiche, tra i capitalismi creditori della
Grecia. Ma l'ingenua illusione che la composizione di quelle
contraddizioni potesse tradursi in un favore alla Grecia era priva di
fondamento. La Germania, dominus europeo e principale creditore, ha
tenuto la barra dell'intransigenza negoziale, sino a legittimare alla
fine la possibilità di una Grexit. Ciò che per la prima volta ha
spalancato la porta di una possibile disgregazione della UE. La Francia,
cofondatrice della UE, si è spesa in senso opposto, appoggiata
dall'Italia, sia a difesa dell'Unione, sia a difesa del proprio spazio
negoziale nell'Unione sul terreno delle proprie politiche di bilancio.
Ma il compromesso finale tra Germania, Francia, Italia - i tre grandi
paesi creditori - ha presentato il conto proprio alla Grecia. L'Unione
Europea degli Stati imperialisti strozzini è stata (al momento)
“salvata” grazie ad un cappio più stretto al collo del paese debitore.
Già saccheggiato e affamato. La Merkel ha portato al Bundestag il trofeo
politico dello strangolamento del governo greco, col plauso della SPD, a
tutela del “rigore”. Hollande e Renzi hanno vantato a proprio merito la
permanenza della Grecia nella UE grazie alla continuità garantita della
stretta usuraia contro la Grecia. Il ballo dell'ipocrisia dei vincitori
ha chiarito una volta di più la vera natura dell'Unione Europea.
Incompatibile con ogni riforma sociale.
Più
in generale, l'intera impostazione di Syriza si era basata su un
presupposto falso: quello di un “equo negoziato” tra debitore e
creditore. La logica del negoziato con i creditori espone per
definizione il paese debitore al prezzo delle inevitabili contropartite.
Tanto più in presenza di rapporti di forza obiettivamente impari. Ogni
ristrutturazione del debito (la sua riduzione, o l'allungamento dei
tempi di pagamento, o l'abbassamento degli interessi) va “pagata” con
garanzie ai creditori. E i creditori chiedono come pegno ulteriori
sacrifici del debitore. Maggiori sono le richieste di ristrutturazione,
maggiori sono i sacrifici richiesti al debitore. Questa è la logica
usuraia del capitalismo reale. Non ne esiste un'altra . Questa verità è
stata rivelata nel caso greco una volta di più dal ruolo svolto dal FMI
al tavolo negoziale. Il FMI ha ripetutamente insistito per una
ristrutturazione del debito greco, anche in contrasto col ministro
Schäuble, in ragione della sua obiettiva “insostenibilità”. Molte voci
progressiste in Europa, e in Grecia lo stesso Tsipras, hanno più volte
lodato questa disponibilità del FMI contrapponendo la sua “lungimiranza”
alla rigidità “ottusa” dei creditori europei. Con ciò trascuravano uno
spiacevole dettaglio: lo stesso FMI che proponeva la ristrutturazione
del debito greco insisteva per combinarla con contropartite più rigorose
da imporre alla Grecia. Lo scopo del FMI non era la beneficenza alla
Grecia ma la certezza del pagamento del suo debito ai propri azionisti
finanziari. Lo scopo più prosaico della Lagarde era quello di essere
riconfermata alla presidenza del FMI dai suoi azionisti appositamente
tutelati. Non a caso fu proprio il FMI, a fine giugno 2015, a far
saltare un primo accordo ufficiosamente siglato tra Grecia e creditori
europei, attraverso il rilancio di ulteriori condizioni ultimative al
governo ellenico. Aprendo la via ad una conclusione negoziale ancor più
vessatoria per il popolo greco. E senza neppure... ristrutturazione del
debito.
La
verità è che l'intero negoziato tra il primo governo Tsipras e i
creditori si è svolto sul terreno imposto dai creditori, non certo sul
programma di Syriza. È un aspetto cruciale. Coloro che anche a sinistra
hanno storto il naso di fronte all'esito del negoziato, magari imputando
a Tsipras un eccesso finale di arrendevolezza, non colgono che il piano
stesso del negoziato era inclinato verso quell'esito. Il famoso
programma di Salonicco, quello “realistico”, quello delle misure “certe e
urgenti” a favore del popolo, quello delle “linea rossa invalicabile”
promessa a piazza Syntagma, è stata infatti la prima vittima sacrificale
del negoziato con i creditori. Non l'esito finale, ma la premessa
iniziale del negoziato. Il 20 febbraio, a meno di un mese dalla grande
vittoria del 25 gennaio, il primo accordo tra governo greco e creditori
spazzava via in un solo colpo l'intero programma delle riforme sociali
promesse. L'accordo, che estendeva di sei mesi l'assistenza finanziaria
della Grecia da parte dei creditori, sanciva nero su bianco la prima
capitolazione di Tsipras. Il ministro Varoufakis così formalizzava per
parte greca i termini dell'accordo in una lettera a Dijsselbloem: «Lo
scopo della richiesta di proroga di sei mesi della durata dell'accordo
ha come obiettivo: a) accettare i termini finanziari e amministrativi la
cui attuazione, in collaborazione con le istituzioni, stabilizzerà la
posizione fiscale delle Grecia, permetterà di raggiungere adeguati
avanzi di bilancio primario, la stabilità del debito... b) garantire, in
collaborazione con i nostri partner europei e internazionali, che le
nuove misure siano integralmente coperte, mentre ci asterremo da azioni
unilaterali che potrebbero pregiudicare gli obiettivi di bilancio... c)
consentire alla BCE di reintrodurre l'esenzione in conformità ai suoi
regolamenti... e) iniziare a lavorare con i team tecnici circa un nuovo
contratto per la ripresa e la crescita tra Grecia, Europa, FMI... f)
concordare circa la vigilanza di UE, BCE e - con lo stesso spirito - del
FMI per la durata dell'estensione dell'accordo... g) discutere il modo
di attuare la decisione dell'Eurogruppo del novembre del 2012...».
Il dato è inequivocabile: il 20 febbraio lo stesso governo greco che
aveva giurato “mai più la Troika” firmava la propria subordinazione alla
Troika . La rinuncia preventiva ad “azioni unilaterali” non concordate
annullava ogni spazio di manovra indipendente. L'obiettivo degli
“adeguati avanzi di bilancio primario” rispettava la continuità della
logica recessiva. Il richiamo alle “decisioni dell'Eurogruppo del 2012”
riprendeva persino formalmente la continuità del vecchio memorandum.
Quello contro cui Tsipras aveva vinto le elezioni. Non a caso il
quotidiano di Confindustria in Italia titolava “Per Syriza brusco
risveglio dal sogno: il confronto tra le promesse elettorali e l'accordo
approvato è impietoso” (25 febbraio). Era la verità. Scompariva
l'aumento del salario minimo, lo stop alle privatizzazioni, il
ripristino della tredicesima sulle pensioni, l'aumento della soglia di
esenzione fiscale... Scompariva a maggior ragione ogni vagheggiamento di
Conferenze europee sul debito. Ricompariva invece in tutta la sua
portata la logica intatta dell'austerità. L'esatto contrario di quanto
gli esimi economisti Varoufakis e Galbraith avevano teorizzato. Dato
questo piede di partenza, era possibile pensare dopo sei mesi un altro
sbocco?
LE LEGGI DEL CAPITALE
In
realtà, durante l'intero arco dei sei mesi successivi, il piano
inclinato già imboccato fu ulteriormente piegato dalla logica ferrea
delle leggi materiali del capitale. L'estenuante braccio di ferro tra
Grecia e creditori circa l'applicazione dell'accordo del 20 febbraio non
è solo quello formale che si è svolto nelle stanze di Bruxelles o di
Strasburgo, tra creditori strozzini che massimizzavano le proprie
richieste e un governo greco che cercava di minimizzare le implicazioni
pratiche di ciò che aveva firmato per salvaguardare la propria base di
consenso (e l'unità di Syriza). È avvenuto ben altro. I creditori e la
borghesia greca hanno usato a proprio vantaggio tutte le leve di
pressione del capitalismo reale, che il governo Syriza aveva lasciato
intatte nelle loro mani. I capitalisti greci, a partire dagli armatori e
dai grandi costruttori, hanno praticato la fuga dalle banche al ritmo
di 300 milioni al giorno. Si trattava degli stessi armatori cui
l'articolo 96 della Costituzione greca garantisce l'esenzione fiscale
sui profitti realizzati all'estero. Nel solo mese successivo alla
vittoria elettorale di Syriza i depositi delle banche sono scesi di
oltre il 10%, da 164 a 147 miliardi. Mentre nello stesso periodo le
prime quattro banche greche (National Bank of Greece, Piraeus, Alpha e
Eurobank) hanno lasciato sul terreno il 40% della loro capitalizzazione
(11 miliardi). Non era che l'inizio. La crisi bancaria portava alle
stelle il tasso d'interesse sui titoli di stato della Grecia aggravando
il dissesto finanziario del paese. La nuova caduta recessiva
dell'economia operava nella stessa direzione. Le banche greche finivano
sempre più sotto dipendenza della BCE e della sua assistenza
straordinaria (ELA). Ma la concessione dell'assistenza era a sua volta
vincolata alla tenuta patrimoniale delle banche assistite, chiamate a
mostrare la propria solvibilità, nel momento stesso in cui le loro
azioni crollavano in borsa per effetto della crisi. Il governo operava
il sequestro delle disponibilità finanziarie degli enti locali per
tamponare il dissesto. Ma senza esito. Mentre la continuità rispettosa
del pagamento del debito ai creditori strozzini, ad ogni scadenza
comandata, contribuiva a svuotare le casse dello Stato. C'era un solo
modo di rompere l'assedio: adottare misure anticapitaliste. Tanto
drastiche quanto drastica era la situazione: nazionalizzare le banche
per bloccare la fuga dei capitalisti e garantire i risparmi popolari;
espropriare gli armatori e le loro fortune; cancellare il debito
pubblico verso la Troika; riversare sugli strozzini e sulla borghesia
greca i costi della crisi. Una politica rivoluzionaria avrebbe potuto
organizzare e mobilitare le grandi energie del popolo greco e favorire
la mobilitazione in Europa. “Fare come la Grecia” avrebbe potuto
diventare la bandiera di riferimento di milioni di sfruttati contro i
propri capitalisti e i propri banchieri in tutto il vecchio continente,
rompendo immaginari populisti e nazionalisti, e ricostruendo una
frontiera internazionale classista. Ma l'impostazione generale di Syriza
si fondava sulla esclusione pregiudiziale di questa politica
anticapitalista. La bussola restava, contro ogni evidenza, il
“compromesso onorevole” col capitalismo greco e col capitalismo europeo.
Nel momento stesso in cui il capitalismo aggrediva il popolo greco e
destabilizzava lo stesso governo della Grecia.
LA CAPITOLAZIONE DI TSIPRAS
Nei
mesi di giugno e luglio 2015 la morsa dei creditori si è stretta al
collo di un paese assediato. Ma non arreso. Il referendum del 6 luglio
resta una pagina importante di resistenza popolare al ricatto
capitalista. Per Tsipras il ricorso referendario fu un atto contrattuale
di replica al siluramento all'ultimo secondo di un accordo già
virtualmente concluso a fine giugno con i creditori. E serviva a
coprirsi a sinistra per liberare la via al recupero sostanziale e
conclusivo dell'accordo raggiunto. Ma per i lavoratori, per i giovani,
per la popolazione povera di Grecia, l'”Oxi” ai creditori era
innanzitutto la riconferma di una volontà di svolta, di rifiuto della
rapina e del ricatto. Il valore del 62% di No ai creditori,
plebiscitario nelle città e tra i giovani, era tanto più rilevante a
fronte di quanto accaduto nella settimana del referendum: il rifiuto
della BCE di estendere l'assistenza alle banche greche; la chiusura
delle banche; le restrizioni indotte alla riscossione di prelievi e
pensioni; una campagna ossessiva di tutta la stampa borghese in Grecia e
in Europa a sostegno del Sì e di demonizzazione del No tesa a produrre
il panico e la resa. Il No era dunque un atto di ribellione di massa a
tutto questo. Era di fatto una nuova e ultima prova di appello a Syriza e
a Tsipras. La piazza Syntagma del 13 luglio, la piazza più affollata
della storia greca del dopoguerra, misurava la reale possibilità di
trasformare l'entusiasmo orgoglioso di un popolo in forza organizzata e
leva di rottura anticapitalista. La scelta di Tsipras fu opposta: la
capitolazione ai creditori. Il licenziamento di Varoufakis, la
convocazione di una nuova maggioranza parlamentare di emergenza con i
vecchi screditati partiti del memorandum, la lacerazione verticale dello
stesso partito di Syriza, il varo di un nuovo governo amputato dei
ministri più scomodi, offerto come garanzia ai creditori.
Di
certo i creditori non hanno premiato tanta disponibilità. Al contrario.
Tsipras aveva promesso “un accordo migliore” di quello respinto dal
referendum. Invece al tavolo cui ha scelto di sedere ha dovuto pagare un
prezzo assai più salato. E soprattutto l'ha pagato la popolazione
povera di Grecia. Oggetto non solo di una nuova aggressione sociale, ma
di una punizione politica: la punizione della ribellione del No, quale
ammonimento preventivo ai lavoratori e ai popoli degli altri paesi.
Se
l'accordo del 20 febbraio 2015 aveva sancito il ripristino della
subordinazione alla Troika, l'accordo di sei mesi dopo (13 luglio)
recava il prezzo sociale di quella subordinazione. Un prezzo terribile e
umiliante. Innalzamento dell'età pensionabile; taglio dell'85% dei
sussidi alle pensioni minime; aumento dell'IVA su beni alimentari e di
prima necessità; allargamento delle privatizzazioni; nuova demolizione
della contrattazione collettiva; nuovo incremento dell'avanzo primario
nelle politiche di bilancio; infine il pignoramento dei beni pubblici
della Grecia quale garanzia di ultima istanza alla Troika, e sotto la
vigilanza della Troika. Il tutto in cambio della promessa di 85 miliardi
di “aiuti” che serviranno unicamente a due scopi: consentire alla
Grecia di continuare a pagare agli strozzini un debito pubblico
ulteriormente accresciuto, dentro una rincorsa senza fine;
ricapitalizzare le banche greche, ossia riempire i buchi provocati nei
loro patrimoni e bilanci dalla fuga dei capitalisti greci (naturalmente
coi soldi presi dalle tasche dei lavoratori europei). Un accordo,
dunque, contro i lavoratori greci e contro i lavoratori europei.
Ma anche un accordo politicamente disastroso su scala continentale.
Le
borghesie di tutta Europa presentano la capitolazione di Tsipras come
la prova provata dell'impossibilità di ogni resistenza alle leggi
superiori del mercato: “se persino Tsipras si è arreso”, la resa non ha
alternative. Parallelamente, l'accordo tra Tsipras e creditori è cibo
prezioso per la demagogia reazionaria del populismo nazionalista:
l'immagine della “Germania che umilia la Grecia”, e della “sinistra
greca che regala la Grecia alla Germania” indebolisce ogni demarcazione
classista a vantaggio della demarcazione sovranista. A beneficio di Alba
Dorata, di Le Pen, della Lega e del M5S, tutti saliti in groppa, in
forme diverse, alla capitolazione del governo greco: l'“alternativa vera
siamo noi. L'unica alternativa è la Nazione e la Sua Moneta”.
IL BILANCIO STORICO DI UN FALLIMENTO RIFORMISTA
La
vicenda greca è tutt'altro che chiusa. La natura stessa di un accordo
economicamente insostenibile, assieme alle accresciute contraddizioni
nella UE che l'intera vicenda ha trascinato con sé, aprono prospettive
di instabilità. Nella stessa Grecia lo scenario politico è in movimento,
a partire dalla vicenda interna di Syriza, con la possibilità di nuove
crisi politiche e cambi di scenario. L'immagine pubblica di Tsipras
sembra reggere, nonostante il trauma dell'accordo, in assenza di
alternative credibili. Ma alla sua sinistra possono svilupparsi nuove
ricomposizioni. E le stesse masse oggi provate da una estenuante prova
di forza e dagli effetti della delusione, potranno prendere nuovamente
parola, riaprendo dal basso nuove prospettive.
E
tuttavia un ciclo si è chiuso. I primi sei mesi del governo Syriza
configurano un'esperienza compiuta, di inestimabile valore politico.
Nell'Europa capitalista non è disponibile uno spazio storico riformista.
L'alternativa reale è tra rivoluzione sociale o regressione storica. Il
rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria trascina la capitolazione
alle controriforme: questa è la lezione di fondo dell'esperienza del
primo governo Tsipras. La parabola di Syriza dal 2012 al 2015
(moderazione progressiva del programma riformista originario e ricerca
di legittimazione interna e internazionale presso le classi dominanti;
accesso al governo sulla base di un programma riformista minimo; primo
accordo coi creditori e conseguente accantonamento del programma
riformista; secondo accordo coi creditori sulla base di un programma di
drastiche controriforme sociali) è la metafora concentrata nel tempo di
questa verità.
Colpisce,
a bilancio, l'insostenibile leggerezza del programma riformista di
Syriza e dei suoi riferimenti culturali e storici. Il libro “La sfida di
Atene” di Dimitri Deliolanes riporta le lodi di Tsipras all'esperienza
del primo governo della sinistra greca a guida PASOK, nel 1981, attorno
alla figura di Andreas Papandreu. Tsipras sembra assumere
quell'esperienza come riferimento esemplare per Syriza, in
contrapposizione al successivo tradimento del PASOK riformista da parte
del liberista Simitis. Ricorda la redistribuzione della ricchezza,
l'estensione della previdenza pubblica, l'ampliamento del sistema
sanitario, l'allargamento delle libertà democratiche. Avrebbe potuto
ricordare anche alcune nazionalizzazioni emblematiche come quella della
Piraiki Patraiki, la più grande industria tessile del Balcani. Ma il
piccolo particolare è che quell'esperienza di riformismo borghese maturò
in un contesto storico assai diverso dall'attuale. Era un contesto
ancora segnato dalla presenza internazionale dell'Unione Sovietica. E la
prima preoccupazione dell'imperialismo americano e della borghesia
greca era evitare che la caduta del regime fascista dei colonnelli greci
(1967/1973), e poi del governo parlamentare della destra di Karamanlis,
potesse aprire la via di una dinamica rivoluzionaria anticapitalista.
Il ruolo del PASOK fu esattamente quello di incanalare in un alveo
istituzionale controllato la pressione di massa della classe operaia
greca. Le riforme sociali erano figlie di questa operazione. Inoltre, il
contesto economico capitalistico era molto diverso. Nonostante
l'arresto del boom postbellico alla metà degli anni '70, l'economia
europea ancora beneficiava dell'effetto inerziale della stagione
precedente con relativi margini di grasso. Quelli che avevano alimentato
la crescita della Spagna capitalista del postfranchismo sotto la
direzione di Gonzales. Quelli che ancora beneficiavano la Grecia -
entrata nel 1980 nella Comunità Europea - con fondi cospicui riservati
al welfare e all'agricoltura. È possibile fondare su questo richiamo
storico l'attualità di un programma riformista oggi?
Ma
l'argomento che meglio esemplifica l'illusione riformista di Syriza sta
nell'assunzione della Conferenza europea di Londra del 1953, col
relativo taglio del debito tedesco, quale paradigma di riferimento per
una analoga conferenza europea sul debito greco e continentale.
È
vero: la Germania ha conosciuto nel secolo scorso ripetute
ristrutturazioni del proprio debito. Ma solo in virtù dell'esistenza
dell'Unione Sovietica.
La
prima ristrutturazione del debito fu dopo la prima guerra mondiale. I
Trattati di Versailles del 1919 umiliarono la Germania imponendole
gravosi pagamenti delle riparazioni di guerra. Ma la paura del contagio
della rivoluzione bolscevica - innanzitutto in Germania - indusse le
potenze vincitrici e creditrici a ripetuti condoni. Prima col piano
Dawes del 1924, poi con il piano Young del 1929, si provvide a
ristrutturare il debito delle riparazioni, che si convenne sarebbero
state pagate in 59 rate annuali, di cui l'ultima con scadenza nel 1988.
Il pagamento delle riparazioni fu ancora sospeso nel 1931, a ridosso
della grande crisi capitalistica mondiale che si abbatté sulla stessa
Germania, in attesa di un nuovo accordo. L'avvento di Hitler cambiò
naturalmente il quadro.
Un
nuovo accordo di ristrutturazione del debito tedesco subentrò
successivamente alla seconda guerra. La Germania era stata divisa dalle
truppe di occupazione, tra la parte occidentale e la parte orientale
sotto controllo russo. La Conferenza di Londra, con la riduzione del
debito tedesco del 60%, intervenne in questo contesto. Salvare la
Germania capitalista non era solo una scelta economica, ma anche e
soprattutto una scelta politica: si trattava di investire nella cortina
di ferro antisovietica in funzione delle esigenze della guerra fredda.
Il gigantesco piano Marshall in Europa, l'investimento nel piano da
parte degli USA del 4% del PIL americano, era figlio di questa
operazione strategica. La potente espansione produttiva dell'Occidente
capitalista del dopoguerra forniva una sicura base materiale alla
riduzione del debito tedesco. Ma ancora una volta era la presenza
dell'URSS, quale eredità seppur trasfigurata della rivoluzione
d'Ottobre, a determinare un intervento d'eccezione a favore della
Germania. Come è possibile trasferire questo esempio storico dentro un
quadro politico mondiale drasticamente mutato, e per di più sullo sfondo
della più grande crisi del capitalismo europeo?
Nulla
chiarisce meglio l'abbaglio del riformismo di Tsipras quanto gli esempi
storici di cui si nutre. La nostalgia dei trent'anni gloriosi che non
torneranno più.
La
sconfitta di Tsipras è la sconfitta della sinistra europea. Essa si era
affidata alla locomotiva greca assumendola a proprio faro e guida. Ne
aveva assunto la cultura e i miti (la Conferenza europea sul debito),
amplificandoli su scala continentale. Attorno ad essa aveva provato a
rilanciare le proprie fortune politiche nel nome di un nuovo possibile
compromesso riformatore tra capitale e lavoro in Europa.
Quell'investimento si è trasformato in un boomerang. Il fatto che larga
parte dei gruppi dirigenti delle sinistre riformiste nei diversi paesi
abbiano approvato o giustificato l'accordo tra Tsipras e creditori,
affermando che “al suo posto” avrebbero fatto altrettanto (da Iglesias
di Podemos a Laurent del PCF, da Garzon di Izquierda Unida a Vendola e
Ferrero in Italia), misura sicuramente la fedeltà al marchio del proprio
investimento. Ma rappresenta anche una confessione in piena regola
della sottomissione del riformismo alla società borghese. Quando il
conflitto sociale precipita, quando lo scontro tra capitale e lavoro
annulla ogni margine di mediazione, rinvio, evasione letteraria, quando
insomma s'impone una drammatica scelta di campo, i gruppi dirigenti
riformisti scelgono il capitale contro il lavoro, in cambio, ove
possibile, di incarichi ministeriali. Anche al prezzo di sottoscrivere
le misure di austerità, antioperaie e antipopolari, che i loro programmi
formalmente negano e combattono. Da questo punto di vista la
collocazione internazionale della sinistra europea sulla vicenda greca è
la riproduzione allargata delle proprie esperienze di governo in
patria. A partire, più che in ogni altro caso, dalla sinistra riformista
italiana.
L'AUTOEPITAFFIO DI VAROUFAKIS
Yanis
Varoufakis, quando era ancora ministro, scrisse un pamphlet di
involontario umorismo, raccontando le contraddizioni esistenziali della
propria esperienza ministeriale: «...
Indirizzandoci a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali
ai gestori dei fondi speculativi, l'idea è quella di creare alleanze
strategiche persino con persone di destra con le quali condividiamo un
semplice interesse:... porre fine al circolo vizioso tra austerità e
crisi... Probabilmente non farò a tempo a vedere adottato un programma
più radicale... Io so di correre il rischio di alleviare la tristezza
dell'abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso
della mia esistenza, indulgendo nel sentimento di essere diventato
gradevole agli occhi degli appartenenti ai circoli della buona
società... Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso
dovremmo fare per stabilizzare l'Europa odierna, si corre il rischio di
venire cooptati... Se dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo
Monetario Internazionale)... dobbiamo evitare di diventare come i
socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a
migliorare la propria situazione personale... Il trucco è evitare il
massimalismo rivoluzionario che alla fine aiuta i neoliberisti ad
aggirare ogni opposizione... ma allo stesso tempo mantenere la nostra
visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio, mentre cerchiamo
di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso...».
Nessuna
confessione poteva riassumere in termini più efficaci la disperazione
di un ministro riformista: la sua rassegnazione al capitalismo
“malvagio”, da “salvare” e “stabilizzare”, in cambio della pretesa
purezza della propria “visione” e coscienza individuale. Non sappiamo
della coscienza di Varoufakis. Sappiamo invece che la rivendicata
salvazione del capitalismo, contro la rivoluzione, condanna gli
sfruttati a un futuro di miseria. Senza neppure assicurare al ministro
esuberante... la cooptazione consolatoria nel potere. Varoufakis potrà
vendicarsi del proprio fallimento con qualche libro e qualche fortuna
editoriale. La classe operaia greca ed europea ha sicuramente bisogno di
un altro programma e di un'altra direzione. Un programma e una
direzione rivoluzionari.
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