Sbriciolare la Siria, con missili Usa e mercenari jihadisti
«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa
in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese
senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un
osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice:
scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere
in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale
non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che
l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo
irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del
Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la
Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre
americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti –
afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire
efficacemente la Siria».
La comunità internazionale, scrive l’analista Usa,
dovrebbe «lavorare a creare sacche» fuori dal controllo di Damasco, per
poi «espanderle nel tempo». Letteralmente: «Forze americane, saudite,
turche, britanniche, giordane e di altri Stati arabi agirebbero da
costante supporto, non soltanto via aria, ma anche mediante l’uso di
forze speciali di terra quando necessario», al fianco degli “elementi
moderati” sul terreno (“moderati” come quelli che fecero uso di armi
chimiche per poi incolpare della strage il regime). «Questo approccio –
continua O’Hanlon – consentirebbe di trarre vantaggio dagli ampi spazi
aperti desertici siriani che consentirebbero la creazione di zone
cuscinetto che si potrebbero tenere sotto costante controllo per
riconoscere in tempo ogni possibile segno di attacco nemico».
L’obiettivo intermedio, aggiunge lo stratega del Brookings Insitute,
sarebbe «una Siria confederale, costituita da varie zone largamente
autonome», cioè sottoposte a una forza occidentale «che addestri e
equipaggi ulteriori reclute, in modo che le zone possano essere
stabilizzate ed eventualmente espanse».
«Non
è questa la strategia di fondo che vediamo in gioco in Siria già
adesso?», si domanda Whitney in un post su “Counterpunch” tradotto da
“Come Don Chisciotte”. «E’il caso di notare come O’Hanlon non considera
mai neanche un attimo le implicazioni morali di cancellare una nazione
sovrana, di uccidere decine di migliaia di civili e di sradicarne
altrettanti dalle loro dimore. Questo genere di cose sono semplicemente
indifferenti per gli esperti che concepiscono queste strategie
imperiali. E’ solo altra farina da macinare». Whitney fa notare inoltre
che l’autore dello studio si riferisce a “zone cuscinetto” e “zone
sicure”, ovvero «i medesimi termini che sono stati usati ripetutamente
nell’ambito dell’accordo Usa-Turchia sull’uso da parte degli americani della base aerea di Incirlik». La Turchia ha chiesto agli Usa
di assistere nella creazione di queste “zone sicure” lungo il confine
Nord della Siria, in modo che fungano da “santuari” per l’addestramento
delle cosiddette forze moderate da impiegare nella “guerra
contro l’Isis”. Questo è il piano di O’Hanlon per frammentare lo Stato
in milioni di enclaves disconnesse tra loro, «ognuna retta da un
manipolo di mercenari armati, affiliati ad Al Qaeda o signori della guerra locali».
«Ecco
il sogno di Obama di una “Siria liberata”, uno Stato fallito
precipatato nell’anarchia con una bella spruzzata di basi americane
sopra, così che si potranno arraffare ed estrarne tutte le risorse senza
impedimenti», aggiunge Whitney. «Quello che Obama vuole evitare a tutti
i costi è un altro imbarazzante flop come l’Iraq, dove la rimozione di
Saddam ha lasciato un vuoto di potere e una sensazione di insicurezza che ha portato a violenta e protratta rivolta che è costata cara agli Usa
in termini di sangue, finanze e credibilità internazionale». Ecco la
strategia oggi è diversa: «Gli obiettivi non sono mai cambiati, cambiano
solo i metodi». Il piano, ammete lo stesso O’Hanlon, «non sarebbe
diretto soltanto contro l’Isil, ma in parte anche contro Assad, senza
mirare a rovesciarlo direttamente, ma piuttosto a negargli ogni
possibilità di tornare a governare i territori su cui potrebbe aspirare a
riottenere il controllo». Le “zone autonome” sarebbero “liberate” «con
l’esplicito intendere che non torneranno mai sotto controllo di Assad o
eventuale successore». E attenzione: «Se Assad continuasse a rifiutare
di accordarsi per l’esilio, prima o poi si ritroverebbe vicino a
costanti minacce al suo potere, se non alla sua persona».
Tutto
questo, conclude Whitney, significa che «la Siria è designata come
laboratorio per la gran strategia per i cambi di regime di O’Hanlon, una
strategia nella quale Assad figura come porcellino d’India da
esperimenti numero uno». E’ lo stesso O’Hanlon a spiegare che questo
piano «scoraggerebbe chi possa pensare che Washington si accontenti di
tollerare il governo Assad in quanto male minore». In pratica, per come
la vede O’Hanlon, la Casa Bianca dovrebbe «abbandonare la pretesa di
stare combattendo l’Isis e ammettere esplicitamente che l’imperativo è
“Assad deve sparire”», chiarisce Whitney. Secondo O’Hanlon, «questo
aiuterebbe a sistemare le cose con altri membri della coalizione che
hanno dubbi rispetto alle reali intenzioni di Washington». L’uomo del
Brookings Institute parla chiaro: «Squadre di supporto multilaterali,
divise in forze speciali di terra e unità di difesa aerea devono essere
sempre pronte al dispiegamento nelle diverse parti della Siria ogni
volta che le forze di opposizione riescano a conquistare e mantenere
nuove postazioni sicure. Questa chiaramente sarebbe la parte più
delicata, e il dispiegare squadroni sarebbe sempre pericoloso. Non
bisognerebbe mai ordinare missioni in fretta e furia, ma farlo in
maniera ponderata, tuttavia è parte indispensabile dello sforzo».
Traduzione
di Whitney: «Stivali americani marceranno sul suolo della Siria,
possiamo scommetterci. Va benissimo fare il miglior uso della carne da
cannone jihadista per condurre la carica e indebolire il nemico, poi al
momento giusto basta mandare la prima squadra e si è chiuso l’affare.
Questo vuol dire invio di forze speciali, “no fly zone” su tutta la
Siria, basi militari sul campo e una bella campagna di propaganda per
continuare a convincere la “sheeple” (sheep+people, popolazione gregge)
che per difendere la sicurezza nazionale Usa occorre necessariamente distruggere la Siria». Tutto questo, aggiunge Whitney, diventerà chiaro nella “fase due” della guerra, che è sul punto di intensificarsi. Per O’Hanlon, nonostante i rischi, il livello di coinvolgimento militare diretto degli Usa «non sarebbe particolarmente più sostanziale di quello che è stato necessario in Afghanistan durante l’ultimo anno».
Per
cui, «sarebbe auspicabile che il presidente Obama non guardasse alla
questione come un problema da lasciare in eredità al successore, ma
piuttosto come una crisi
urgente che richiede tutta la sua attenzione e la definizione di una
nuova strategia al più presto». Ed ecco dunque il piano per «fare a
pezzi la Siria, precipitarla in una crisi
umanitaria anche peggiore di quella in cui già si trova e fare crollare
Assad senza dover andare in prima persona a rimuoverlo dall’ufficio»,
scrive Whitney. «Un bel po’ di massacro e distruzione», in un
mini-saggio di appena 1.100 parole. «Complimenti all’autore per le doti
di sintesi. A noi non resta che domandarci se questi cervelloni
stretegici pensano mai a quanto dolore comportano le loro grandi
strategie, se gliene freghi almeno qualcosa delle conseguenze». Il
piano, peraltro, sembra già in marcia. Subito dopo l’accordo con l’Iran,
Obama ha promosso la “no fly zone” sul Kurdistan siriano: prima mossa
dell’atroce risiko di cui parla O’Hanlon.
«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa
in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese
senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un
osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice:
scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere
in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale
non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che
l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo
irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del
Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la
Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre
americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti –
afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire
efficacemente la Siria».La comunità internazionale, scrive l’analista Usa, dovrebbe «lavorare a creare sacche» fuori dal controllo di Damasco, per poi «espanderle nel tempo». Letteralmente: «Forze americane, saudite, turche, britanniche, giordane e di altri Stati arabi agirebbero da costante supporto, non soltanto via aria, ma anche mediante l’uso di forze speciali di terra quando necessario», al fianco degli “elementi moderati” sul
terreno (“moderati” come quelli che fecero uso di armi chimiche per poi incolpare della strage il regime). «Questo approccio – continua O’Hanlon – consentirebbe di trarre vantaggio dagli ampi spazi aperti desertici siriani che consentirebbero la creazione di zone cuscinetto che si potrebbero tenere sotto costante controllo per riconoscere in tempo ogni possibile segno di attacco nemico». L’obiettivo intermedio, aggiunge lo stratega del Brookings Insitute, sarebbe «una Siria confederale, costituita da varie zone largamente autonome», cioè sottoposte a una forza occidentale «che addestri e equipaggi ulteriori reclute, in modo che le zone possano essere stabilizzate ed eventualmente espanse».
«Non è questa la strategia di fondo che vediamo in gioco in Siria già adesso?», si domanda Whitney in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”. «E’il caso di notare come O’Hanlon non considera mai neanche un attimo le implicazioni morali di cancellare una nazione sovrana, di uccidere decine di migliaia di civili e di sradicarne altrettanti dalle loro dimore. Questo genere di cose sono semplicemente indifferenti per gli esperti che concepiscono queste strategie imperiali. E’ solo altra farina da macinare». Whitney fa notare inoltre che l’autore dello studio si riferisce a “zone cuscinetto” e “zone sicure”, ovvero «i medesimi termini che sono stati usati ripetutamente nell’ambito dell’accordo Usa-Turchia sull’uso da parte degli americani della base aerea di Incirlik». La Turchia ha chiesto agli Usa di assistere nella creazione di queste “zone sicure” lungo il confine Nord della Siria, in modo che fungano da “santuari” per l’addestramento delle cosiddette forze moderate da impiegare nella “guerra contro l’Isis”. Questo è il piano di O’Hanlon per frammentare lo Stato in milioni di enclaves disconnesse tra loro, «ognuna retta da un manipolo di mercenari armati, affiliati ad Al Qaeda o signori della guerra locali».
«Ecco il sogno di Obama di una “Siria liberata”, uno Stato fallito precipatato nell’anarchia con una bella spruzzata di basi americane sopra, così che si potranno arraffare ed estrarne tutte le risorse senza impedimenti», aggiunge Whitney. «Quello che Obama vuole evitare a tutti i costi è un altro imbarazzante flop come l’Iraq, dove la rimozione di Saddam ha lasciato un vuoto di potere e una sensazione di insicurezza che ha portato a violenta e protratta rivolta che è costata cara agli Usa in termini di sangue, finanze e credibilità internazionale». Ecco la strategia oggi è diversa: «Gli obiettivi non sono mai cambiati, cambiano solo i metodi». Il piano, ammete lo stesso O’Hanlon, «non sarebbe diretto soltanto contro l’Isil, ma in parte anche contro Assad, senza mirare a rovesciarlo direttamente, ma piuttosto a negargli ogni possibilità di tornare a governare i territori su cui potrebbe aspirare a riottenere il controllo». Le “zone autonome” sarebbero “liberate” «con l’esplicito intendere che non torneranno mai sotto controllo di Assad o eventuale successore». E attenzione: «Se Assad continuasse a rifiutare di accordarsi per l’esilio, prima o poi si ritroverebbe vicino a costanti minacce al suo potere, se non alla sua persona».
Tutto questo, conclude Whitney, significa che «la Siria è designata come laboratorio per la gran strategia per i cambi di regime di O’Hanlon, una strategia nella quale Assad figura come porcellino d’India da esperimenti numero uno». E’ lo stesso O’Hanlon a spiegare che questo piano «scoraggerebbe chi possa pensare che Washington si accontenti di tollerare il governo Assad in quanto male minore». In pratica, per come la vede O’Hanlon, la Casa Bianca dovrebbe «abbandonare la pretesa di stare combattendo l’Isis e ammettere esplicitamente che l’imperativo è “Assad deve sparire”», chiarisce Whitney. Secondo O’Hanlon, «questo aiuterebbe a sistemare le cose con altri membri della coalizione che hanno dubbi rispetto alle reali intenzioni di Washington». L’uomo del Brookings Institute parla chiaro: «Squadre di supporto multilaterali, divise in forze speciali di terra e unità di difesa aerea devono essere sempre pronte al dispiegamento nelle diverse parti della Siria ogni volta che le forze di opposizione riescano a conquistare e mantenere nuove postazioni sicure. Questa chiaramente sarebbe la parte più delicata, e il dispiegare squadroni sarebbe sempre pericoloso. Non bisognerebbe mai ordinare missioni in fretta e furia, ma farlo in maniera ponderata, tuttavia è parte indispensabile dello sforzo».
Traduzione di Whitney: «Stivali americani marceranno sul suolo della Siria, possiamo scommetterci. Va benissimo fare il miglior uso della carne da cannone jihadista per condurre la carica e indebolire il nemico, poi al momento giusto basta mandare la prima squadra e si è chiuso l’affare. Questo vuol dire invio di forze speciali, “no fly zone” su tutta la Siria, basi militari sul campo e una bella campagna di propaganda per continuare a convincere la “sheeple” (sheep+people, popolazione gregge) che per difendere la sicurezza nazionale Usa occorre necessariamente distruggere la Siria». Tutto questo, aggiunge Whitney, diventerà chiaro nella “fase due” della guerra, che è sul punto di intensificarsi. Per O’Hanlon, nonostante i rischi, il livello di coinvolgimento militare diretto degli Usa «non sarebbe particolarmente più sostanziale di quello che è stato necessario in Afghanistan durante l’ultimo anno».
Per cui, «sarebbe auspicabile che il presidente Obama non guardasse alla questione come un problema da lasciare in eredità al successore, ma piuttosto come una crisi urgente che richiede tutta la sua attenzione e la definizione di una nuova strategia al più presto». Ed ecco dunque il piano per «fare a pezzi la Siria, precipitarla in una crisi umanitaria anche peggiore di quella in cui già si trova e fare crollare Assad senza dover andare in prima persona a rimuoverlo dall’ufficio», scrive Whitney. «Un bel po’ di massacro e distruzione», in un mini-saggio di appena 1.100 parole. «Complimenti all’autore per le doti di sintesi. A noi non resta che domandarci se questi cervelloni stretegici pensano mai a quanto dolore comportano le loro grandi strategie, se gliene freghi almeno qualcosa delle conseguenze». Il piano, peraltro, sembra già in marcia. Subito dopo l’accordo con l’Iran, Obama ha promosso la “no fly zone” sul Kurdistan siriano: prima mossa dell’atroce risiko di cui parla O’Hanlon.
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