CRISI, AUTONOMIA E SINDACATO: UN CONTRIBUTO PER UNA PROSPETTIVA DI CLASSE E ANTICAPITALISTA DELL’OPPOSIZIONE CGIL.
17 Settembre 2015
Questo contributo è stato presentato
qualche mese fa per il seminario nazionale dell’Area OpposizioneCGIL,
firmato da Luca Scacchi e Franco Grisolia, compagni dell’esecutivo
nazionale di quell’area e del CC del PCL.
Questo
contributo è stato presentato qualche mese fa per il seminario
nazionale dell’Area OpposizioneCGIL, firmato da Luca Scacchi e Franco
Grisolia, compagni dell’esecutivo nazionale di quell’area e del CC del
PCL.
In
un’area sindacale plurale (con diverse sensibilità, impostazioni e
linguaggi), questo contributo si propone di concorrere alla costruzione
di campo di confronto comune, presentando una riflessione che aiuti ad
approfondire la discussione e ad articolare collettivamente
l’elaborazione.
Luca Scacchi e Franco Grisolia
Il
17° congresso della CGIL si è chiuso con la costituzione della nostra
area di opposizione. Non era una conclusione scontata. L’assemblea
congressuale di Rimini si era infatti aperta con la nostra denuncia sul furto di democrazia.
Non segnalavamo la “scontata” sperequazione tra una maggioranza con
migliaia di funzionari e i nostri pochissimi distacchi, ma una palese
manipolazione dei dati. Ad esempio a Trieste, dove “avevano votato” più
di mille pensionati in Croazia e Slovenia, moltissimi con più di 90
anni, alcuni persino morti! “Avevano votato” più a Napoli che a Milano, a
Palermo più che a Torino, a Caserta più che a Brescia: piccole realtà
con partecipazione “bulgare”, quando strutture storiche avevano
registrato partecipazioni molto inferiori. Dove si era “partecipato”,
abbondavano i 100% di votanti, tutti al primo documento e tutti contro
gli emendamenti! Il nostro risultato era stato quindi schiacciato ben
sotto al 3% quando, al netto delle manipolazioni più evidenti, si era
presumibilmente collocato sul 5-7%. Come erano stati compressi gli
emendamenti “critici”. In questo quadro, in alcuni congressi di
categoria ed in alcuni territori eravamo stati esclusi dai direttivi
(FILT, FILCAMS, Firenze, Calabria, ecc). Così sembrava si potesse
concludere anche il congresso nazionale, dove la gestione di Scudiere
preannunciava la nostra marginalizzazione: obbligo del 3% per presentare
liste al Direttivo, esclusione dagli organismi collaterali e annuncio
di una conferenza in tempi brevi per modificare il quadro organizzativo,
l’autonomia delle categorie, le regole interne. Ma se la maggioranza
voleva imporre le proprie scelte, anche un po’ “con le spicce”, ha
trovato una resistenza maggiore del previsto nelle aree critiche (il
risultato della seconda lista, che riuniva landiniani, exCgilchevogliamo e metà di Lavorosocietà),
nella determinazione del nostro documento (presidio, appello al
congresso per le firme, ecc), nelle perplessità di una parte della
stessa maggioranza (intervento di Colla, segretario dell’Emilia, nella
lunga pantomima
finale sulla votazioni delle commissioni). E quindi alla
fine Camusso è uscita dal congresso più debole di prima.
Un passo indietro: nascita e tramonto di una maggioranza unitaria
Il
percorso congressuale si era aperto nell’estate precedente in un quadro
diverso, con la costruzione di un nuovo rapporto tra i gruppi dirigenti
di FIOM e CGIL. Questa convergenza si era prodotta per il combinarsi di
diverse prospettive.
Da
una parte la FIOM cercava un percorso di uscita dal conflitto FIAT:
dopo l’allargamento del modello Marchionne all’intero gruppo (compreso
realtà ad alta sindacalizzazione CGIL come Magneti Marelli o Ferrari),
dopo l’accordo Bertone (comprensivo del modello Marchionne), ci si era
concentrati sul contrasto giudiziario, anche vincendolo (sentenza del
luglio 2013), ma senza comunque cambiare i rapporti di forza. Per
questo, anche in vista del rinnovo del CCNL, si intendeva voltare
pagina: dopo aver isolato la sinistra interna, anche contro lo Statuto
della CGIL (esclusione di Sergio Bellavita dalla segreteria nazionale),
la FIOM stava riflettendo su una linea di gestione contrattata delle
crisi industriali (ipotesi poi sfociate nei contratti Ducati o
Electrolux). La necessità di un cambio di fase suggeriva quindi un
diverso rapporto con la confederazione, in grado magari di produrre un
accordo generale sulla rappresentanza (intesa del maggio 2013) e un
nuovo sistema contrattuale, attraverso cui appunto chiudere la vicenda
Marchionne.
Dall’altra parte la CGIL aveva visto sbriciolarsi la sua linea “di fase”, la riconquista di una gestione
condivisa della crisi come nella precedente esperienza del ’92-’94.
Dopo il governo Berlusconi-Tremonti e gli accordi separati, dopo il
governo Monti-Fornero e le forzature dei tecnici, la CGIL puntava
infatti sull’atteso “governo amico” come leva per ricostruire una
concertazione sia con CISL e UIL, sia con la Confindustria di Squinzi.
Il risultato elettorale, al contrario, non solo aveva cancellato il
previsto governo Bersani, ma aveva lanciato Renzi alla conquista del PD
ed aveva insediato il governo Letta-Alfano, la cui maggioranza
comprendeva i principali protagonisti del precedente isolamento (da
Brunetta capogruppo PdL alla Camera, a Sacconi presidente della
commissione lavoro del Senato). Il gruppo dirigente della CGIL
propendeva quindi per una gestione unitaria del congresso, chiudendo le
ferite prodotte con l’alleanza anticamussiana degli allora gruppi
dirigenti di FIOM, FP e FISAC (Rinaldini, Podda e Moccia), dalla
rete28aprile, da alcuni residuali settori cofferatiani (Maolucci,
Guzzonato e l’ex-socialista Rocchi).
Nel
corso dell’estate 2013 sembrava quindi delinearsi una larga
maggioranza, con un documento alternativo ridotto alle componenti di
sinistra che rifiutavano tale impostazione: larga parte della rete28aprile
e altri piccoli settori che si schieravano all’opposizione. Alcune
tensioni permanevano comunque nella larga maggioranza, in particolare
per l’intenzione del gruppo dirigente FIOM di non perdere la propria
autonomia di movimento, anche con l’obbiettivo esplicito di conquistare
la direzione della CGIL. Il seminario di Genova (settembre 2013) era
infatti segnato dalla richiesta delle “primarie”, per permettere “una scalata dei gruppi dirigenti”.
L’inverno poi si apriva con la tessitura di una relazione pubblica tra
Landini e Renzi, con l’ipotesi di una nuova legge sulla rappresentanza
da inserire nell’imminente Job Act.
La risposta della Camusso è rapida: il 10 gennaio 2014 è
improvvisamente siglato l’accordo sul nuovo sistema di rappresentanza,
che presenta gravi vizi democratici (presentazione liste, piattaforma
negoziale di maggioranza), irreggimenta le RSU (dimissionate se non più
nell’organizzazione sindacale), impone un elemento centrale del modello
Marchionne (esigibilità e sanzioni) e, contro la FIOM, inserisce una
tutela sulle categorie (commissione arbitrale confederale). L’accordo
del 10 gennaio, quindi, chiudeva la fase unitaria ed apriva il congresso
con una nuova e più acuta tensione tra FIOM e CGIL, nella quale alcune
aree critiche rompevano con la Camusso (Patta e Nicolosi), mentre altre
decidevano di ricomporsi con la segreteria (poddiani, Dettori e
Pantaleo, Botti e Lami).
Lo
scontro tra Camusso e Landini ha quindi al contempo chiuso e dischiuso
alcuni spazi per la nostra area. Ha chiuso degli spazi, perché la
durezza dello scontro nella cosiddetta “maggioranza” è quello che
probabilmente ha determinato le manipolazioni più ampie, contro gli
emendamenti, avendo come effetto collaterale anche quello di schiacciare
i risultati della nostra area. Ha nel contempo dischiuso degli spazi,
perché lo scontro a Rimini ha permesso di riconquistare anche per noi
alcuni minimi spazi democratici (riconoscimento minoranze, presenza nel
direttivo e nelle commissioni, reinserimento nelle strutture dalla quali
eravamo stati esclusi).
Il sindacato è un’altra cosa: per un’opposizione classista e anticapitalista.
Il
17° congresso ha quindi permesso la costituzione di un’area di
opposizione in CGIL. Un’area legittimata dal documento alternativo, dal
voto di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, dallo sviluppo
coerente di una battaglia dalle assemblee di base sino all’assise
confederale. Un percorso quindi relativamente sganciato dalle
compatibilità e dalle determinazioni della burocrazia sindacale.
Un’area
che si è costituita su due assi principali. Da una parte l’opposizione
alla linea della CGIL, ritenendo fondamentale e fondante distinguersi
dal gruppo dirigente (Camusso) che aveva testardemente rifiutato il
conflitto, anche quando la crisi aveva determinato l’offensiva padronale
contro occupazione, salari e diritti. Dall’altra parte la distinzione
dalle altre aree critiche. Quella di Dettori e Pantaleo, che saldamente
dentro la maggioranza spera(va) di modificarne gli assetti attraverso
scelte contingenti (dallo sciopero generale alle privatizzazioni).
Quella storicamente organizzata di Lavorosocietà,
più attenta alle compatibilità burocratiche che allo sviluppo coerente
della propria linea. Quella del gruppo dirigente “sabbatiniano”,
autocentrato su un impianto categoriale e sulla conquista della
direzione della CGIL. Essendo questa l’area critica più significativa,
dirigendo la FIOM, soffermiamoci sulla sua impostazione. La linea
sviluppata da questo gruppo, che da un ventennio dirige la FIOM, è
storicamente impostata sul radicamento di fabbrica e su una logica
vertenziale, tendendo quindi ad evitare processi di ricomposizione delle
lotte (come evidenziato sia nel 2002-04, sia dopo il 2010). In questo
quadro, stante l’empasse
determinata dalla vicenda FIAT, avendo abdicato alla generalizzazione
del conflitto quando aveva assunto un ruolo di opposizione generale
(cortei FIOM 2011 e 2012), si è posto l’obbiettivo di fase della
conquista della CGIL.
I
processi di demarcazione che hanno costituito la nostra area si sono
quindi progressivamente determinati nell’ultimo decennio, a partire
dalla Rete28aprile, cioè da quei compagni e compagne della sinistra CGIL
che hanno iniziato a coordinarsi partendo dall’opposizione alla linea
di Epifani prima e Camusso poi, da un bilancio dell’involuzione
burocratica di Lavorosocietà, dal ripiegamento della vasta coalizione della CGILchevogliamo.
Nella CGIL sono sempre vissute diverse sinistre, sulla base delle
diverse appartenenze, dei diversi posizionamenti nei confronti della
segreteria, delle dinamiche di diversi settori di classe. Il compito che
abbiamo oggi è allora quello di dare un fondamento ed una prospettiva
di fase a questa area, che da un percorso di opposizione e distinzione
delinei una propria strategia. Noi pensiamo cioè che sia necessario dare
a quest’area la prospettiva di una corrente classista e
anticapitalista.
Una corrente classista.
Cosa
intendiamo per classista? Intendiamo che, in una società dominata dal
modo di produzione capitalista, gli interessi dei lavoratori e delle
lavoratrici sono direttamente contrapposti a quelli del capitale. Questo
modo di produzione, nei secoli del suo sviluppo, ha composto un mercato
mondiale che domina l’intera organizzazione sociale, intensivamente (in
ogni particolare formazione sociale) ed estensivamente (sul piano
internazionale). Certo, rimangono diversi settori che non sono
direttamente inseriti nei processi di valorizzazione del capitale: da
molti servizi pubblici all’autoproduzione, da organizzazioni cooperative
tradizionali a strutture comunitarie. E conseguentemente si determina
una complessa articolazione di classe: piccoli produttori contadini e
artigiani, commercianti indipendenti, lavoratori e lavoratrici
autonomi/e di vecchia e di nuova generazione; anche nello stesso lavoro
dipendente, ampi settori non sono direttamente subordinati ai processi
di valorizzazione (dal pubblico ad alcuni servizi). La forza dominante
però, quella che organizza il complesso e le dinamiche fondamentali
della società, è data dal modo di produzione capitalista: il ciclo di
crescita o crisi economica, i rapporti tra i diversi paesi e le diverse
aree mondiali, le relazioni tra gruppi e classi sociali, sono
determinati in ultima istanza dai processi di accumulazione e
valorizzazione capitalista. E quindi diritti, salari e condizioni
dell’insieme del mondo del lavoro sono fondamentalmente determinati
dalle relazioni generali tra capitale e lavoro che si determinano nei
processi di valorizzazione capitalista.
Le
imprese centrate sulla valorizzazione del capitale (pubbliche o
private), che hanno cioè un’organizzazione capitalistica della
produzione, si sviluppano attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e
delle lavoratrici. In queste realtà, lavoratori e lavoratrici ricevono
un salario sulla base della distribuzione del plusvalore tra capitale e
lavoro: vivono cioè direttamente una relazione antagonistica con il
capitale, che si personifica concretamente nel padrone o nella direzione
aziendale. Certo, lavoratori e lavoratrici produttivi (di capitale)
sono anche capitale vivo: cioè dipendendo la loro riproduzione dal
capitale, propendono anche ad assumerne la prospettiva. Gli uomini e le
donne che vengono subordinati ai processi di valorizzazione del
capitale, però, sviluppano anche una propria autonomia di classe: rimane
cioè un elemento umano irriducibile alle logiche del capitale, alla sua
volontà di sussunzione. Lavoratori e lavoratrici sono quindi una
variabile indipendente, che può ribellarsi ed opporsi al controllo del
capitale.
Il
sindacato per noi si organizza e si fonda su questa autonomia di
classe: sull’irriducibilità oggettiva dei lavoratori e delle
lavoratrici, sui loro interessi antagonisti a quelli del capitale. Per
questo, il sindacato intende organizzare l’insieme dei lavoratori e
delle lavoratrici, senza distinzione di settore o categoria, perché
intende organizzare gli interessi collettivi del lavoro contrapposti
agli interessi collettivi del capitale. Consapevole
quindi di un’articolazione e stratificazione del mondo del lavoro,
intende organizzare il lavoro in senso generale vis-a-vis al capitale in
senso generale.
Una corrente anticapitalista.
Cosa
intendiamo per anticapitalista? Abbiamo già sottolineato che per noi il
sindacato è di classe, perché lavoratori e lavoratrici hanno interessi
antagonistici a quelli del capitale. Non intendiamo quindi ribadire
questo aspetto. Il modo di produzione capitalista, oltre che esser
basato sull’alienazione (controllo del lavoro) e sullo sfruttamento
(estrazione di plusvalore), oltre che determinare crisi cicliche per le
sue modalità di accumulazione, oltre che sviluppare una socializzazione
delle forze produttive mantenendo un’appropriazione privata del valore, è
determinato da una contraddizione di fondo: la ricerca di un’espansione
continua del valore che tende nel contempo a distruggere le basi della
sua esistenza (tendenza alla diminuzione del saggio di profitto).
Il
modo di produzione capitalista, cioè, tende a produrre un’immane
espansione della produzione materiale come veicolo per la sua necessaria
espansione di valore. Così ha determinato una secolare espansione
demografica, l’innalzamento della speranza di vita e la riduzione della
mortalità, la crescita esponenziale del benessere sociale. Questa
incontrollata espansione ha prodotto nel contempo un immane sfruttamento
umano e ambientale, che ha quindi sviluppato forze sociali antagoniste.
Ma il punto principale che si vuole sottolineare non è l’ingiustizia o
il rischio per l’ecosistema umano, che giustificano solamente su un
piano etico l’antagonismo al sistema. Quello che vogliamo indicare con
l’aggettivo anticapitalista è che questo sistema di produzione presenta
anche un’immanente tendenza alla depressione. Non solo il suo sviluppo è
segnato da un ciclico alternarsi di espansioni e crisi, ma è segnato
anche da una tendenza a ridurre progressivamente le basi stesse
dell’estrazione del plusvalore. Nell’alternarsi ciclico di espansioni e
crisi, cioè, si evidenziano alcune fasi generali di crescita, nei quali
salari e profitti possono crescere insieme: fasi che hanno rappresentato
la base fondante dei compromessi tra capitale e lavoro, nei limiti
dell’espansione della valorizzazione e della crescita della
produttività. Ma queste fasi tendono inevitabilmente a collassare in
grandi crisi, risolvibili solo con immani distruzioni di capitale
esterne allo stesso ciclo economico (guerre, lunghe depressioni,
barbarie, ecc). Le ragioni di una lotta sindacale anticapitalista non
stanno quindi né semplicemente nella difesa degli interessi
antagonistici del lavoro, né in una scelta di campo etica contro
l’ingiustizia: stanno nell’immanente tendenza economica alla crisi che
accompagna inevitabilmente l’immane espansione capitalistica.
Nella CGIL, per costruire le condizioni di un sindacato classista e anticapitalista di massa.
Un’area
sindacale classista e anticapitalista, quindi. Ci si può domandare, di
fronte agli ultimi decenni, le ragioni per costituirla in CGIL,
invece di cercare di avviare percorsi di raggruppamento con e fra le
altre organizzazioni classiste e di base (i diversi Cobas, USB, CUB,
ecc).
La
CGIL ha infatti assunto oramai stabilmente un’impostazione
“concertativa”: la ricerca di una gestione condivisa con il capitale sia
nelle fasi di espansione, sia in quelle di crisi (patto dei
produttori). Cioè una linea strategica che tende a circoscrivere, se non
a negare, l’antagonismo tra lavoro e capitale, nella prospettiva di
trovare forme di regolazione del modo di produzione capitalista. Quindi
una concertazione non tanto rivolta al governo, quanto principalmente al
padronato stesso. Questa impostazione appare immodificabile, per la
profondità con cui si è strutturata negli anni e nella complessa
struttura burocratica che innerva questo sindacato. E anche perché, al
fondo, questa strategia si inscrive nell‘intera storia di questa
organizzazione. Tralasciamo pure le vicende della CGdL prima del ventennio,
le sue profonde responsabilità nell’ascesa del fascismo e la scelta del
suo gruppo dirigente di scioglierla nel 1927 (vero e proprio tradimento
della lotta antifascista). La CGIL del dopoguerra, quella rifondata nel
1944 con il patto di Roma (PCI, PSI e DC), ha comunque mantenuto una
propensione di fondo a rispettare le compatibilità di sistema, le
esigenze di sviluppo “del paese”.
Infatti non solo il gruppo dirigente socialista, ma anche la
larghissima parte di quello del PCI ha impostato nel dopoguerra una
linea strategica di inserimento nel ceto dirigente del paese senza
mettere in discussione il quadro capitalistico del paese (linea che fu
poi definita organicamente da Togliatti nell’VIII congresso del
partito), elaborando anche per questo un’analisi sull’arretratezza del
capitalismo italiano e sulla necessità di sostenere lo sviluppo delle
forze produttive (i cui principali propugnatori furono Amendola, Sereni,
Roveda). Di conseguenza, anche dopo la scissione della CISL e della
UIL, la CGIL si è contraddistinta in diversi passaggi storici per la
ricerca di un accordo di fase con il padronato. Dalla linea di
moderazione salariale centralizzata nell’immediato dopoguerra alle
priorità industriali del Piano del lavoro; dall’accordo quadro del
1972 alla linea dell’Eur nel 1978; dall’accordo Scotti del 1983 alla
fine della scala mobile nel 1992; dal nuovo sistema contrattuale del
1993 alla riforma delle pensioni del 1995.
La
CGIL è comunque sempre stata un’organizzazione di massa, il principale
sindacato italiano, schierata a sinistra dopo la scissione del luglio
1948: nel quadro della strategia del PCI (che ne ha mantenuto controllo
ed egemonia sino al suo scioglimento), nel quadro di una gestione
condivisa con il PSI, ha però raggruppato storicamente diverse
sensibilità. La CGIL ha quindi sviluppato nella sua storia una
dialettica ed una pluralità di linee, anche negli anni del più rigido
stalinismo: diverse sinistre sindacali, dissensi e minoranze hanno
sostenuto linee che si sono differenziate o contrapposte a questa
impostazione moderata dell’organizzazione. La CGIL, infatti, nonostante
il controllo del PCI ed il patto di gestione con il PSI, ha attraversato
diverse fasi e diversi gruppi dirigenti, intrecciando sensibilità e
linee diverse. Così negli anni cinquanta e sessanta diversi settori
hanno condotto una battaglia per analizzare la nuova fase espansiva del
capitale italiano, per dare autonomia contrattuale alle categorie, per
avviare una contrattazione decentrata, per aprire vertenze sulle
condizioni e l’organizzazione del lavoro. Così nel corso dell’autunno
caldo si è combattuta (e vinta) la battaglia per introdurre la
rivendicazione degli aumenti uguali per tutti. Così anche da settori
militanti della CGIL si sono sviluppati i comitati di base e il
movimento dei consigli, così nel 1972 si è imposto il CCNL
metalmeccanico prima che “l’accordo quadro” potesse acquistare solidità.
Così si sono espresse resistenze alla linea dell’EUR (a partire dai
pochi voti contrari all’assemblea generale del 1978), si è costituita
una componente di opposizione (Democrazia consiliare),
si è sviluppata la lotta contro l’accordo Scotti prima (1983) e con il
movimento degli autoconvocati poi. Un intreccio di diverse linee che ha
caratterizzato la CGIL in un senso, e anche nell’altro: ricordiamo
infatti che la FIOM, nei primi anni novanta, si vantava di rinnovare il
CCNL senza neanche un’ora di sciopero, diretta da Fausto Vigevani (primo
segretario socialista), con Cesare Damiano come aggiunto (sì, quel
Damiano, attuale presidente della Commissione Lavoro alla Camera che ha
votato “criticamente” il JobAct).
Certo,
in questi ultimi vent’anni i processi di degenerazione burocratica sono
stati particolarmente significativi, parallelamente all’indebolimento
della classe e della sinistra politica nel nostro paese. Certo, dopo lo
scioglimento del PCI si è espressa più esplicitamente la sua
impostazione moderata, tesa a negare l’irriducibile antagonismo tra
capitale e lavoro. Questi processi, inoltre, sono stati accompagnati
dallo sviluppo del sindacato dei servizi, dalla crescita dello SPI,
dalla riduzione delle categorie che organizzano il nucleo centrale di
classe (quello produttivo di capitale e più organizzato). Negli ultimi
congressi è diventata sempre più arrogante la gestione burocratica
dell’apparato e delle segreterie, con manipolazioni evidenti dei
risultati e della selezione dei gruppi dirigenti. Come vediamo la
gravità delle scelte e anche dei tradimenti di questi anni (a partire da
quello del 10 gennaio 2014), che hanno coinvolto anche componenti
percepite come conflittuali (ad esempio la FIOM su Termini Imerese, la
Bertone o l’accordo preliminare del 31 maggio 2013 sulla
rappresentanza).
Nonostante
questo, la CGIL mantiene ancora una dimensione di massa, la capacità di
innescare mobilitazioni di massa (articolo 18 nel 2003, vertenza FIAT
nel 2010, JobAct nel 2014), un’impostazione di sinistra, la vocazione a
organizzare il mondo del lavoro in generale. In questo quadro, la CGIL
rimane un’organizzazione sindacale senza possibili paragoni con
l’insieme del sindacalismo di base e dintorni: raccoglie infatti oltre
2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici attivi, contro al massimo
150mila per l’insieme di tutti i diversi sindacati conflittuali
extraconfederali (dalla CUB alla USB, dai diversi Cobas ad alcune
strutture categoriali come i CAT nelle ferrovie). Permangono quindi in
CGIL dinamiche contraddittorie, che ne fanno un luogo centrale di
battaglia e di organizzazione di una linea anticapitalista e di classe a
livello di massa. In un contesto in cui non secondario è il suo
carattere plurale (pur con tutti i limiti che abbiamo evidenziato), con
lo stesso riconoscimento statutario dai primi anni novanta delle aree
organizzate.
Per
noi ha quindi senso provare a rilanciare un sindacato classista e
anticapitalista nella CGIL, non limitandosi alla critica o al dissenso
negli organismi dirigenti. Il senso di una nostra presenza organizzata
nella CGIL è quello di sfruttarne articolazioni e contraddizioni per
sostenere il conflitto di classe, e quindi per sviluppare in una
dinamica di massa un’azione sindacale di classe e anticapitalista. In
questo quadro, è necessario intervenire come area sindacale nelle
dinamiche del conflitto di classe. Anche per contrastare la tendenza ad
esser inglobati in una logica burocratica di pura riproduzione, che
ritmi, prassi e ritualità di una grande organizzazione di massa tendono a
innescare. Nella limitatezza delle nostre forze, è quello che abbiamo
provato a sperimentare in questi pochi mesi di vita. Dopo l’annuncio
della controriforma della scuola,
non ci siamo limitati a criticare il giudizio articolato della FLC o a
chiedere lo sciopero nel Direttivo nazionale: abbiamo contribuito a
organizzare assemblee e iniziative di lotta, come il percorso degli
“autoconvocati”, anche invitando come area nella FLC,
con comunicati e volantini, a partecipare allo sciopero del 10 ottobre
convocato dai sindacati di base. Nello stesso modo, come area lombarda e
nazionale, abbiamo contribuito a organizzare la contestazione a Renzi
in Val Seriana, all’assemblea della Associazione industriale bergamasca,
una delle prime ad ottenere un’attenzione sui media e nel paese. Come, a
livello ancor più generale, sin dall’estate abbiamo lanciato come area
un appello per un autunno di lotta; abbiamo partecipato allo Street Meeting
di Roma; ci siamo coordinati in questo percorso con i sindacati di
base; abbiamo partecipato ed invitato a partecipare, con comunicati e
volantini, allo sciopero generale del 14 novembre.
Contro lo “sciopero sociale”, per un fronte di lotta vasto e articolato.
Costruire un’area classista e anticapitalista nella CGIL
non significa distanziarsi dagli altri movimenti. Anzi. In una fase
segnata dallo sfondamento padronale e dalla scomposizione di classe, è
importante costruire fronti di lotta con diverse opposizioni sociali.
Siamo consapevoli infatti che esistono altre soggettività, che
interpretano e costruiscono mobilitazioni con una diversa prospettiva di
lotta. Ad esempio quelle redistributive, che intendono contrastare le
politiche neoliberiste e costruire sistemi regolativi del modo di
produzione capitalista (vedi la popolarità di Piketty in questi mesi).
Inoltre, ed in particolare, dopo il successo dei cortei antagonisti
(ottobre 2011, ottobre 2013, aprile 2014), si è diffusa con il 14
novembre la proposta dello “sciopero sociale”. Questa rappresentazione
politica del conflitto, di natura biopolitica (Toni Negri, Michel Hardt) o da capitalismo cognitivo
(Andrea Fumagalli, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré), ritiene che
la produzione è oggi “socializzata”: sono le relazioni che valorizzano
il capitale, attraverso le potenze del general intellect
e la diffusione di prodotti immateriali (conoscenze, creatività, brand,
ecc). Secondo queste impostazioni, il dominio “del capitale” si
determina attraverso forme diffuse di controllo sociale o sistemi
finanziari transnazionali (dalla microfisica del potere alla gestione
della moneta e del debito pubblico). In questo quadro di riferimento non
c’è più alcun senso nel condurre una lotta sul salario (spartizione
del plusvalore tra lavoro e capitale) o sull’organizzazione del lavoro
(tempi, ritmi e intensità del lavoro), in quanto il lavoro stesso è
sussunto all’interno di un sistema che vede altrove l’origine del
valore. Né ha senso, d’altra parte, uno sciopero politico, in quanto lo
Stato è sussunto dal “sistema imperiale” e “biopolitico” del potere. Il
conflitto si trasferisce allora in un diverso sistema di riferimento,
dove l’elemento centrale è la volontà di potenza collettiva, la
costruzione di un potere costituente policentrico che riunisce l’insieme
dei liberi autoproduttori sociali di valore (“una sola moltitudine”).
E’ quindi una strategia che privilegia dinamiche di ribellione sociale
(“sollevazione”, striscione di apertura e parola d’ordine del corteo
romano del 19 ottobre), la costruzione di zone liberate, la produzione
sociale autovalorizzante (come per beni comuni o open source) o al
limite la battaglia per il riconoscimento del contributo di tutti alla
produzione di valore (reddito di cittadinanza). La lotta può quindi
esser condotta attraverso uno “sciopero sociale”, cioè il rifiuto
volontaristico del nuovo proletariato cognitivo e relazionale di
assoggettarsi al capitale: in generale tutte le persone che, non avendo
altro bene se non la propria mente, sono produttivi anche se non
lavorano in quanto connessi alle reti sociali creative; in particolare
ci si rivolge a quei settori di lavoratori autonomi di seconda
generazione, professionisti ICT, giovani precari e inoccupati che si
organizzano nelle reti dei movimenti antagonisti.
Questa
rappresentazione del conflitto è radicalmente altra rispetto alla
nostra prospettiva di un sindacato di classe e anticapitalista, perché
nega persino il senso di un’organizzazione sindacale. E’, appunto,
un’altra prospettiva. Con cui possiamo costruire iniziative comuni ed un
fronte di lotta, tenendo conto che talvolta tende ad oscillare tra un
vuoto radicalismo di piazza e accordi di vertice con amministrazioni
locali o burocrazie sindacali. Ma che, in ogni caso, non ha senso
assumere come impostazione del nostro intervento.
Nel pieno di una fase di lunga crisi e depressione.
La
costruzione di un’area classista e anticapitalista avviene in una fase
particolare. Siamo nel pieno di una delle grandi crisi del capitalismo.
Un crisi che non trova il suo fondamento nei disequilibri del mercato
mondiale o nella mancanza di controllo di un sistema finanziario
ipertrofico, e neanche in una riduzione salariale imposta dalle
politiche neoliberiste che restringe la domanda aggregata. Nonostante
nella sinistra e nel mondo sindacale queste siano le analisi prevalenti,
politiche keynesiane di espansione della spesa pubblica o aumenti
diffusi dei salari non riavvieranno una fase di espansione della
valorizzazione capitalistica. Al più, introdurranno delle controtendenze
che dilazioneranno i tempi della crisi stessa. Perché la causa fondante
dell’attuale grande crisi (come delle precedenti) è strutturale, è la
riduzione tendenziale del saggio di profitto e la conseguente
sovrapproduzione di capitali. Una tendenza che è stata combattuta
attraverso diverse controtendenze: la crescita esponenziale del sistema
finanziario, che permette di impiegare e distruggere grandi quantità di
capitale in speculazioni sempre più immani; l’espansione in nuovi
territori, prodotti o spazi (l’inserimento nei processi di
valorizzazione capitalista di nuove popolazioni, di nuove merci, dei
servizi pubblici o sociosanitari); la diminuzione del salario diretto,
indiretto e sociale con le politiche neoliberiste. Ma alla fine si è
comunque inevitabilmente prodotta una grande crisi sistemica.
Come
abbiamo già detto, il sistema capitalista ha conquistato da tempo
l’articolazione di un mercato mondiale, che è stata rilanciata dal
crollo del “socialismo reale” e dalla conseguente espansione
capitalista. In questa articolazione mondiale, il ciclo capitalista è
segnato anche da uno sviluppo ineguale e combinato. L’articolazione cioè
tra poli imperialisti, formazioni sociali a capitalismo avanzato, paesi
in via di sviluppo, aree periferiche, zone in regressione si organizza
quindi su diverse dinamiche tra loro fortemente interconnesse. In questo
quadro, l’attuale lunga crisi è segnata dall’emersione di nuovi poli
capitalisti (Cina), come dallo sviluppo capitalista in Africa, in Asia
ed in altre periferie. Aree del mondo nelle quali centinaia di milioni
di persone sono entrate nei circuiti di valorizzazione capitalista,
hanno abbandonato i loro piccoli mercati di autoproduzione contadina o
artigianale, hanno conosciuto migrazioni di massa verso le città (oggi
più del 50% della popolazione è urbana). In diversi territori (Cina,
Cambogia, Vietnam, Indonesia, ecc) stiamo attraversando una fase di
lotte sospinte da salari crescenti, dalla conquista di un salario
indiretto (pensioni) e di un salario sociale (sanità, istruzione, ecc),
nel quadro di un accelerato sviluppo capitalista.
Questa
non è però la fase che noi stiamo vivendo. I percorsi di integrazione
europea hanno avviato processi di redistribuzione del sistema produttivo
tra il suo nucleo e la sua periferia. La rigidità di un sistema
monetario unico, impedendo svalutazioni ed adattamenti tra diverse aree,
ha innescato nelle periferie processi di deflazione salariale e di
restringimento della base produttiva. Ha cioè determinato una fragilità
di questi apparati, su cui è precipitata la recessione del 2008/09
(crollo della produzione e del PIL in Grecia, Spagna, Portogallo,
Italia, Irlanda), che la successiva crisi dei debiti pubblici nel 2012
ha semplicemente aggravato (riduzione investimenti pubblici e sostegno
ai propri capitali). Dall’adozione dell’Euro, ad es., l’Italia ha visto
un’erosione delle proprie esportazioni: tra il 1999 e il 2010 sono
aumentate in media del 2% all’anno, contro il 4,2% della zona euro
(ISTAT 2013). Questa dinamica ha rilanciato lo sviluppo del nucleo
produttivo continentale, attraverso la crescita delle esportazioni intra
ed extra europee (maggior surplus mondiale per la Germania, crescita
Polacca ed in genere centroeuropea)
In
questo quadro, l’Italia è stata segnata non tanto da una doppia
recessione (2009-2012), quanto da una vera e propria lunga depressione.
Il PIL italiano è infatti oggi inferiore di circa il 10% rispetto a
quello del 2007, senza mai aver recuperato quanto perso nel 2009. Nello
stesso tempo, la produzione industriale si è ridotta del 25% (dati ISTAT
2014). Ma soprattutto si è determinato un restrin
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