LIBRE
associazione di idee
Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
17/10 •
Gender:
tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa
di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci
sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto
troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative.
«Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle
scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una
specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche
per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in
classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe
credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi,
sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta
invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due
papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina
costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la
questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il
ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere
che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
A
livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che
dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe
società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a
farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog:
c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in
privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e
quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E
all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e
ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi
e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose
denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di
Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa
Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro,
“Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi
confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti
allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in
Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e
nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.
Di
fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida
divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e
porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata
“poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è
visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con
molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti
uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato
chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo
poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso,
o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La
teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose,
introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze
individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della
sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si
prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro
con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una
donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al
bar».
Idem
per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da
due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà
in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal
fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina».
Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per
l’educazione sessuale in Europa”,
commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole.
Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello
viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli
insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di
varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo
una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi
innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni.
L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere
esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e
utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi,
distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata
dai media».
E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità
(baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni
su masturbazione, piacere e orgasmo».
Amarcord
inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice
Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle
ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu
denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non
il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere
lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato».
Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché
«improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive
europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un
mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano
ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole»,
capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo
rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale
ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».
L’insegnante-modello,
inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà
sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva»,
che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad
accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito,
massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente
che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta
l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come
un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da
se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli
dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno
questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il
nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha
raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella
vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi
perfetto è praticamente introvabile».
La
realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale,
la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma
ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi:
eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo».
E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni
ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non
parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e
proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia
Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di
educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il
rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora
non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se
non sai nemmeno curare te stesso?
Sicché,
le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una
conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della
pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo
teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto
che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere,
di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo)
l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e
nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e
conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti
e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica
come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri,
tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali
contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro
insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in
cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i
bambini».
Tradotto:
anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute
dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico,
finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della
società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale
ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste
Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto
delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini
alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il
risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano
libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle
scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si
vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati
all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un
rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i
giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia
(salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no,
veramente ha detto tutt’altro”)».
Stefania
Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi
sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare
sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe
solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali
escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una
preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare
l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha
mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento
della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle
suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla
masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono
firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false
e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno
preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che
in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni,
di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti,
il che è sacrosanto».
Le
teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma
la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel
privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti –
ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di
tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha
ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue
parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta
che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a
riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare
conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e
retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo
quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie
posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece
la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione
favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come?
Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia
famiglia, troppo spesso assente, o peggio.
«Lo
sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia
porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei
valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso
abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da
sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione
l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da
sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre
traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in
tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa
inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin
da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere
sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla
dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica
che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice
Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La
fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.
Niente
di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un
ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli
ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa
situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi
qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza
delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti.
«Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava
male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma
Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di
dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare
loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non
un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove
esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si
spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli
un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado
di decidere da solo quali esperienze diverse provare».
E
di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo
che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il
genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente
l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare
queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di
portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore
anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci
più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché
la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare
«si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio
questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga
riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la
famiglia».
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la
faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A
rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un
soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità
educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua
diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva
proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e
all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo».
L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo
Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un
derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore.
Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità
(“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar;
se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di
approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando
ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi
osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».Articoli Recenti
Uranio e diamanti, gli Usa in Africa coi tagliagole Seleka
17/10 • segnalazioni •
La
scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra
milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica
Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo
che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande
armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie
contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari
delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è
sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato
la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone –
la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori
dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il
peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo
troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere
benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.
Il gruppo con il quale le forze Usa
hanno instaurato un collegamento è conosciuto come i ribelli Seleka, i
cui membri sono a maggioranza musulmana. Negli ultimi due anni, i Seleka
si sono impegnati in una guerra di bassa intensità con la fazione
cristiana rivale “anti-Balaka” in una lotta di potere per il controllo
del paese. La Repubblica Centrafricana è ricca di oro, diamanti, legname
e uranio. Lo Stato, senza sbocco al mare, ha una massa equivalente a
quella della sua ex potenza coloniale francese, ma una popolazione
inferiore al 10% della Francia. Dall’ottenimento dell’indipendenza dalla
Francia nel 1960, il paese ha assistito a cinque colpi di Stato, alcuni
con il coinvolgimento segreto francese. Migliaia di civili sono stati
uccisi finora nel ciclo di violenza settaria che dura da due anni, con
milioni di sfollati, che spesso cercano rifugio in nascondigli di
fortuna nella giungla. Il reale pericolo è che il percepito sostegno
americano per un lato rispetto all’altro potrebbe innescare una strage
ancora su maggiore scala.
La
scorsa settimana, il “Washington Post” ha riferito che le forze
speciali americane avevano istituito una base nella giungla del nord-est
della Repubblica Centrafricana, dove la milizia Seleka ha la propria
roccaforte. «Il Pentagono non aveva precedentemente rivelato che stava
cooperando con i Seleka ed otteneva informazioni dai ribelli. L’accordo
ha messo le truppe americane in una posizione scomoda», secondo il
“Post”. L’obiettivo dichiarato delle forze armate statunitensi è dare la
caccia ad un noto signore della guerra, Joseph Kony, che gestisce un
gruppo di guerriglia conosciuto come l’Esercito di Resistenza del
Signore (Lord’s Resistance Army – Lra). Kony e il suo Lra sono da
ritenersi responsabili di atrocità di massa e del reclutamento di
bambini soldato. Originario dell’Uganda, Kony e l’Lra guadagnarono
notorietà quando l’ente di beneficenza statunitense Invisible Children
diffuse un video quasi quattro anni fa che pubblicizzava le violazioni
commesse del gruppo.
Con le varie celebrità americane che avallavano il video, il presidente Usa
Barack Obama inviò forze speciali in quattro paesi africani con la
missione di rintracciare Kony ed i suoi complici. Questi paesi sono
l’Uganda, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la
Repubblica Centrafricana. Finora, Kony ha eluso la cattura, anche se
Washington ha posto una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa.
Si ritiene che egli sia rintanato in una zona remota della giungla a
cavallo tra i confini dei quattro paesi africani in cui le forze
speciali degli Stati Uniti operano. Il terreno è costituito da una fitta
giungla con poche strade e si dice copra un’area delle dimensioni della
California. «Immaginate la ricerca di 200 criminali in un’area delle
dimensioni della California coperta dalla giungla», afferma un
funzionario militare statunitense citato dal “Post”. «Tra bracconieri,
commercio di avorio e l’Lrs, non si sa chi è chi».
In
questa caccia sfuggente al signore della guerra Kony ed al suo Lra, i
militari americani si stanno rivolgendo alla milizia Seleka per
“informazioni”. Ma, come noto, quel legame con i Seleka sta causando
qualche preoccupazione tra le truppe Usa
sul terreno. Questo perché i Seleka hanno guadagnato una reputazione
per le atrocità alla pari con quelle di Kony e dell’Lra, tra cui
l’assassinio di civili, lo stupro di donne e il reclutamento di bambini
soldato nei loro ranghi. Il “Post” riferisce: «Secondo i funzionari
militari statunitensi, la squadra di truppe Usa
a Sam Ouandja [la base nella giungla della Repubblica Centrafricana
nord-orientale] si incontra regolarmente con i capi Seleka, ottiene
informazioni dai ribelli e talvolta fornisce assistenza medica ai
lealisti Seleka». Il documento aggiunge: «La cooperazione è un argomento
delicato. Il Pentagono non pubblicizza i suoi rapporti con i Seleka e
ha rifiutato di commentare in dettaglio le interazioni».
La
riluttanza del Pentagono a “pubblicizzare i propri rapporti” non è
sorprendente. Nel 2013, la statunitense Human Rights Watch ha registrato
un regno di terrore sotto i Seleka nella Repubblica Centrafricana,
riferendo come le sue forze «hanno distrutto numerosi villaggi rurali,
saccheggiato diffusamente nel paese e violentato donne e ragazze». “Hrw”
ha riferito sulle uccisioni extragiudiziali perpetrate dai Seleka,
alcune che coinvolgono l’assassinio di bambini con il taglio della gola.
In un attacco brutale il 15 aprile 2013, il gruppo per i diritti
ha riferito: «La milizia Seleka ha ucciso la 26enne moglie e la figlia
diciottenne di un autista di camion, il cui veicolo volevano per
trasportare merci rubate. Un testimone ha descritto come i Seleka hanno
sparato al bambino nlla testa, prima di uccidere la madre mentre si
avvicinava alla porta della casa di famiglia». In base alle sue
scoperte, “Hrw” ha raccomandato che il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite dovrebbe imporre sanzioni a tutti i capi Seleka.
In
un’altra atrocità riportata a maggio 2014, i militanti Seleka hanno
ucciso 11 fedeli in una chiesa nella capitale Bangui, lanciando granate
nell’edificio e attaccando la congregazione con armi da fuoco. Ma il
Pentagono sta ora in collegamento con questa stessa milizia nella sua
missione che dovrebbe rintracciare il signore della guerra Joseph Kony e
il suo esercito di sbandati. I Seleka non sono certo l’unica milizia
fuorilegge, operante nella Repubblica Centrafricana. La cristiana
anti-Balaka ha perpetrato altrettante atrocità contro la minoritaria
comunità musulmana del paese. Il presidente ad interim Catherine Samba
Panza, che ha dovuto tornare in fretta dalla recente Assemblea Generale
delle Nazioni Unite a New York a causa del deterioramento della
situazione nel paese, ha accusato elementi del deposto presidente
François Bozizé anche di orchestrare le violenze. Bozizé, che è
cristiano, si era già avvalso della patrocinio della ex potenza
coloniale francese, prima di essere cacciato dal paese dai Seleka nel
marzo 2013.
Il
punto è che la tragedia che si svolge in Repubblica Centrafricana
mostra come l’ingerenza da parte delle potenze occidentali serve a
versare benzina sul fuoco di un esplosivo conflitto intestino. La dubbia
missione delle forze speciali Usa
nelle giungle dell’Africa – suppostamente per la cattura di un signore
della guerra – sta avendo l’effetto di allineare Washington in una
guerra civile che si va inasprendo, e al fianco di elementi le cui mani
grondano di sangue. La scena è stata preparata per un’intensificazione
ancora più sanguinosa. Il coinvolgimento di Washington può finora
apparire come un fattore clandestino, ma non è meno incendiario. Si
tratta di un ruolo incendiario che Washington interpreta ripetutamente,
come visto in altri conflitti in corso, dalla Siria all’Iraq passando
per l’Ucraina.
(Finian Cunningham, “La mano nascosta di Washington nella guerra in Africa Centrale”, da “Stampa Libera” del 9 ottobre 2015).
La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri
tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica
Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo
che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande
armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie
contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari
delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è
sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato
la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone –
la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori
dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il
peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo
troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere
benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.Senza lavoro un americano su tre, 100 milioni di persone
16/10 • segnalazioni •
Un americano su tre è senza lavoro: oltre 102 milioni di persone,
su una popolazione che nel 2015 ammonta a circa 320 milioni di
individui. A lanciare l’allarme è un analista come Michael Snyder, mai
tenero con l’establishment: «ll governo federale utilizza molto
attentamente numeri manipolati per coprire la depressione economica
schiacciante che sta interessando questa nazione». A settembre,
Washington ha annunciato 142.000 nuovi posti di lavoro. «Se questo fosse
effettivamente vero, sarebbe a malapena sufficiente per tenere il passo
con la crescita della popolazione. Purtroppo, la verità è che i numeri
reali sono in realtà molto peggiori». I numeri “non aggiustati”, afferma
Snyder, mostrano che l’economia
americana, in realtà, ha perso 248.000 posti di lavoro nel solo mese di
settembre, e che lo stesso governo ha conteggiato più di un milione di
americani nella categoria “Non nella forza lavoro”. Eccola, l’illusione
ottica: «Secondo l’amministrazione Obama, attualmente ci sono 7,9
milioni di americani che sono “ufficialmente disoccupati” e altri 94,7
milioni americani in età lavorativa che sono fuori dalla forza lavoro.
Questo ci dà un totale di 102,6 milioni di americani in età lavorativa
che non hanno un lavoro in questo momento».Profughi, vendetta della storia: il conto dei nostri disastri
15/10 • idee •
In
questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una sconcertante
inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica europea. La
gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è per capirci) è
convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui difenderci e
che basti serrare la porta di casa per farla finita e lasciarli a
cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono l’accoglienza, lo
fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore (che comunque è
molto meglio della reazione degli altri) ma non per consapevolezza della
portata del problema sul piano storico e delle misure che, pertanto,
sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare rifugio ad un po’ di
bambini che rischiano di morire, cosa comunque doverosa, ma è solo la
punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio, vedrete il seguito… Questi
profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra, ma da dove viene questa
guerra? Magari, vale la pena di ricordare le guerre del Golfo e
dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di “polizia internazionale”
in Sudan, Mali, Somalia…
Non sono di quelli che pensano che tutto quel che accade sia colpa dell’Europa e degli Usa,
lo so che ci sono responsabilità anche della vecchia Urss ed anche
delle classi dirigenti africane ed arabe, ma, insomma, se ci
accorgessimo della fetta non piccola delle nostre responsabilità faremmo
già un passo in avanti per trovare la soluzione. C’è stata una rivolta
in diversi paesi arabi che non ha prodotto (almeno per ora) i risultati
sperati, ma anche questa da dove viene? Ci sono regimi indecenti che
hanno usato le enormi risorse della rendita petrolifera per alimentare
classi dirigenti corrotte e che non hanno saputo avviare un programma di
sviluppo economico, regimi dittatoriali che non hanno rispettato i più
elementari diritti
umani, ma chi ha sostenuto questi regimi per decenni? Facciamo il conto
di quanti vanno messi sul conto dell’Urss e di quanti su quelli
dell’Occidente? Gheddafi era un dittatore spietato e incapace di
costruire un futuro del suo popolo: verissimo, ma chi lo aiutò a fare il
suo colpo di Stato e poi lo ha costantemente sostenuto per quaranta
anni di fila? Chi ha permesso ai suoi servizi segreti di assassinare i
suoi oppositori per le strade di Roma? Chi lo ha avvisato
dell’operazione Hilton? E chi gli ha coperto le spalle in tutte le
occasioni, salvo doverlo mollare proprio alla fine?
Ne
sappiamo niente noi Italiani? E in Siria, certo le responsabilità
preminenti fra il 1960 ed il 1991 sono state dell’Urss, e dopo della
Russia, ma con il beneplacito di Inghilterra, Francia e Usa.
E prima, in Siria cosa c’era? Alla fine della prima guerra mondiale, la
divisione dell’Impero Ottomano, si ricavò un territorio chiamato Siria,
tirando linee dritte con il righello e senza porsi alcun problema sul
tipo di composizione etnica interna, poi lo si affidò a mandato francese
ed i francesi come prima cosa fecero l’accordo con la minoranza
alawita, una frazione del gruppo sciita che totalizzava meno di un
quinto della popolazione, però contava al suo interno una bella fetta
delle classi colte. Gli alawiti divennero la classe dirigente del paese,
la borghesia compradora alleata degli occupanti e, perciò stesso,
odiati da tutti. Quel che non impedì che, con l’aiuto degli inglesi
prima e dei russi dopo, restassero a capo del paese.
Oggi
non è solo una rivolta contro un regime indecente, è anche la rivolta
contro un’etnia, anche se le responsabilità sono della ristretta classe
dominante alawita e non certo di tutti gli appartenenti a quel gruppo, e
non è certo un caso che oggi loro siano la maggioranza dei profughi.
Dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare dopo il 1960, venne la
decolonizzazione che, per molti versi, fu peggio del colonialismo: i
paesi in particolare africani restarono sottosviluppati. E poi, lo
sappiamo, le guerre locali, poi gli interventi Usa,
eccetera. Questo disastro lo abbiamo costruito noi con decenni e
decenni di errori, colpe, disastri, ora sta arrivando il conto. E vi
meravigliate? Se gli storici facessero il loro mestiere e la smettessero
di guardarsi l’ombelico, rigirando la solita storia europea, forse ci
sarebbe più consapevolezza delle responsabilità pregresse ma,
soprattutto, delle prospettive future.
(Aldo
Giannuli, “L’esodo dei profughi e la vendetta della storia. Quando gli
storici non fanno il loro mestiere”, dal blog di Giannuli del 24
settembre 2015).
In questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una
sconcertante inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica
europea. La gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è
per capirci) è convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui
difenderci e che basti serrare la porta di casa per farla finita e
lasciarli a cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono
l’accoglienza, lo fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore
(che comunque è molto meglio della reazione degli altri) ma non per
consapevolezza della portata del problema sul piano storico e delle
misure che, pertanto, sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare
rifugio ad un po’ di bambini che rischiano di morire, cosa comunque
doverosa, ma è solo la punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio,
vedrete il seguito… Questi profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra,
ma da dove viene questa guerra? Magari, vale la pena di ricordare le
guerre del Golfo e dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di
“polizia internazionale” in Sudan, Mali, Somalia…Torna la lotta di classe, contro il regime che taglia il lavoro
14/10 • segnalazioni •
La
Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali,
nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e
Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la
piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A
sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali,
come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come
legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima
in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il
salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più
della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali.
Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i
suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri
lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario
non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager
più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere
gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di
relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.
Questo
giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno
rafforzato il controllo, è diventato l’organo ufficiale di propaganda
del nuovo regime padronale. Così qualche giorno fa il quotidiano
milanese ha lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo
una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non
solo il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la
pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali erano
aziendali. Una volta non solo la Fiat, ma tanti padri padroni
affermavano così il loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno
avevano costruito un sistema per cui si era dipendenti aziendali dalla
nascita alla tomba. Ora la distruzione dello stato sociale, la
disoccupazione e la precarietà, il Jobs Act e la cancellazione del
contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo
aziendalismo medioevale.
La
svolta da noi l’ha operata Sergio Marchionne, quando nell’estate del
2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l’aut aut: o uscire dal
contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica. Solo la Fiom ed i
sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine però ebbe
successo. L’allora segretario del Pd Bersani dichiarò che il modello
Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una eccezione,
ma naturalmente divenne la regola. Allora, Cgil, Cisl e Uil cercarono di
ritrovare spazio con lo scambio praticato da trenta anni:
l’arretramento dei lavoratori per il riconoscimento del proprio ruolo.
Il 10 gennaio 2013 i sindacati confederali e la Confindustria
sottoscrissero con grande enfasi una intesa che avrebbe dovuto
rilanciare le relazioni industriali. I sindacati accettavano di
generalizzare il modello Marchionne in ogni azienda, in cambio della
promessa del rinnovo dei contratti nazionali. Oggi quell’accordo
registra un totale fallimento e chi lo ha sottoscritto viene descritto
come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora il lupo se lo mangia,
dice un proverbio siciliano.
La
distruzione del contratto nazionale non è solo un interesse del grande
padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle cosiddette riforme del
lavoro volute dalla finanza internazionale, in Europa
dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia la soppressione
della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine. La sempre da
ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano, nell’agosto
2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi pretendono
Squinzi, Renzi e il “Corriere della Sera”. Abbattere i salari e i diritti
e alzare i profitti, questa è la lotta di classe dall’alto che da tempo
viene condotta contro il lavoro e che ogni sistema di potere pratica
come può. La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta di
classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo del
lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il contratto
accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In Germania i
macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il trasporto
ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti della
metropolitana di Londra. I dipendenti di Air France sono stati sui mass media,
e hanno riscosso simpatia in tutto il mondo, per il brutto quarto d’ora
che hanno fatto passare ai manager che li vogliono licenziare.
Anche
da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori della logistica,
in gran parte immigrati, organizzati dal Sicobas, fanno scioperi
durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il lavoro più
tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il garante degli
scioperi, le agitazioni nella scuola sono più che raddoppiate e così
quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi giorni fa i trasporti a
Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha visto una partecipazione
altissima, ben superiore alle forze della Usb che sola lo aveva
proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del lavoro c’è chi
comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito tutta la
rabbia accumulata per le ingiustizie subite. È per questo che si vuole
colpire il diritto stesso a scioperare. Non ci sono ancora in campo
mobilitazioni sociali della portata di quelle dei decenni passati. Ma i
segnali di lotta di classe dal basso sono già allarmanti per chi vuole
continuare a condurla indisturbato dall’alto.
La
reazione contro la ripresa degli scioperi è in tutti gli Stati europei.
La magistratura tedesca ha fermato lo sciopero nella Lufthansa. Il
governo spagnolo ha varato leggi anti-manifestazioni. Il governo Cameron
sta varando una legge sul diritto di sciopero così restrittiva, che un
parlamentare che pure la sostiene l’ha comparata a quelle di un regime
fascista. In Italia il solito “Corriere della Sera” ha sponsorizzato la
proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani,
che ricalca quella britannica. L’austerità impone il taglio dei salari e
la distruzione dei diritti,
l’attacco al diritto di sciopero deve prevenire la ribellione dei
lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti all’impotenza e additati al
disprezzo dell’opinione pubblica. Tutto si tiene e tutto si fa nel nome
di una ripresa che, così come viene promessa, non ci sarà mai.
La
linea trentennale di Cgil, Cisl e Uil esce distrutta da questa nuova
fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è diventato oramai
pura gestione dell’impotenza e i proclami televisivi a cui non segue
nulla non lo rafforzano di certo. L’alternativa alla resa è una sola, ci
vuole un modello sindacale che faccia propria la lezione delle
mobilitazioni radicali del lavoro e che, così come fa il sistema delle
imprese, sostenga e promuova la lotta di classe. Il fallimento di Cgil,
Cisl e Uil apre la via ad un nuovo sindacalismo conflittuale a cui
sempre più si rivolgeranno i lavoratori che si ribellano. E un giorno la
Confindustria rimpiangerà l’arroganza attuale.
(Giorgio Cremaschi, “Il ritorno alla lotta di classe”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2015).
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti
nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da
Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi
all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante
richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio
soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti
pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario
minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per
rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi
all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai
contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa
potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli
stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il
minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti,
anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non
possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il
modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere
della Sera”.
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