Carne e cancro, di colpo l’ovvio fa notizia e dilaga sui media

28/10 • segnalazioni •
L’oncologia
– che considera il cancro un “male incurabile” – continua a
somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione
dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa
delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi
risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la
bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata
nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca
sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti
sul legame tra alimetazione e tumore conferma quello che i terapeuti
“alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare
carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello,
pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni
grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di
un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli
ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente
somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».
Ora
fa molto rumore lo studio dell’Oms, secondo cui, per ogni porzione di
50 grammi di carne al giorno, il rischio di cancro del colon-retto
aumenta del 18%, così come per i tumori al pancreas e alla prostata. Nel
mirino in particolare le “carni lavorate”, come i wurstel, equiparati –
come sostanze cancerogene – a fumo, amianto, arsenico e benzene. Sotto
accusa, secondo i tecnici Onu, la trasformazione “attraverso processi di
salatura, polimerizzazione, fermentazione, affumicatura”, oppure le
carni “sottoposte ad altri processi per aumentare il sapore o migliorare
la conservazione”. Massima prudenza, avverte l’Oms, con gli hot dog,
prosciutti e salsicce, nonché la carne in scatola e le salse a base di
carne. Il rischio di sviluppare cancro all’intestino a causa del consumo
di carne “processata” aumenta in proporzione al quantitativo consumato,
avverte il dottor Kurt Straif, capo dello Iarc Monographs Programme. Il
più celebre oncologo italiano, il professor Umberto Veronesi, da
decenni ha deciso di rinunciare alla carne: «Il mio consiglio da
vegetariano – dice – è quello di eliminare del tutto il consumo di
carne».
Veronesi
saluta come «un grande passo avanti» la “scoperta” della relazione fra
alimentazione e tumori: «L’identificazione certa di una nuova sostanza
come fattore cancerogeno è sempre e comunque una buona notizia in sé,
perchè aggiunge conoscenza e migliora la prevenzione». La
raccomandazione per un regime alimentare “vegano” non è però presente
nel protocollo ufficiale anti-cancro del ministero della sanità
italiano, la cui attuale titolare, Beatrice Lorenzin, ora si limita a
consigliare, in generale, la “dieta mediterranea”. Secondo le
statistiche, il 9% degli italiani mangia carne rossa o insaccati tutti i
giorni, e il 56% 3-4 volte a settimana. Il tumore più diffuso in Italia
è proprio quello al colon-retto, con quasi 55.000 diagnosi nel 2013.
Salumi a parte, se sotto accusa sono le carni grigliate (che sviluppano
idrocarburi) sono gli statunitensi, seguiti da australiani, francesi e
tedeschi. In Italia ogni anno si calcola vengano consumate “solo” 24
milioni di grigliate all’anno.
Il
Codacons ha deciso di presentare un’istanza urgente al ministero della
salute e un esposto al Pm di Torino Raffaele Guariniello, affinché siano
valutate misure a tutela della salute. «L’Oms non lascia spazio a
dubbi», sostiene il presidente, Carlo Rienzi. «Il principio di
precauzione impone in questi casi l’adozione di misure anche drastiche»,
compresa eventualmente «la sospensione della vendita per quei prodotti
che l’Oms certifica come cancerogeni». Per i produttori di carne, la
tempesta mediatica può trasformarsi in catastrofe commerciale: secondo
la Coldiretti, le carni italiane sono più sane perché magre, non
trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di
produzione. «Hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della
tradizione italiana», sottolinea l’associazione degli agricoltori.
Inoltre, da noi il consumo di carne (78 chili a testa) è molto al di
sotto di quelli di paesi come gli Usa
(125 chili a persona) o l’Australia (120 chili), ma anche dei cugini
francesi (87 chili). Secondo Assocarni e Assica, l’associazione dei
salumifici industriali, gli italiani mangiano in media
due volte la settimana 100 grammi di carne rossa e solo 25 grammi al
giorno di carne trasformata. «Un consumo che è meno della metà dei
quantitativi individuati come potenzialmente a rischio cancerogeno».
Carne
e cancro? Anna Villarini, nutrizionista dell’Istituto Nazionale dei
Tumori, non si scompone: «Lo sapevamo già dal 2007, ma c’erano studi
precedenti: le carni conservate sono associate a tumore dello stomaco,
sia per la presenza di conservanti che vengono aggiunti che si
trasformano in cancerogeni all’interno dello stomaco, sia per la
presenza eccessiva di sale che è un fattore di rischio». E aggiunge: «Le
carni rosse, oltre che per la cottura, sono di per sé un fattore di
rischio per il tumore del colon. Dovrebbero essere consumate veramente
poco, e invece sono entrate in maniera preponderante sulle nostre
tavole». Dieta alternativa per chi ha il cancro? Zero carne: solo
frutta, verdura e cereali. Se ne occupa anche la “medicina oncologica
integrata”, spiega il dottor Massimo Bonucci a “Panorana”. E ormai è una
realtà in molti paesi, dove esistono persino ospedali con reparti
interamente dedicati all’alimentazione anti-cancro.
«A
livello internazione la medicina integrata è una realtà», spiega il
medico. «Negli Stati Uniti ci sono ben 52 università dove viene
insegnata». Una strada «ormai percorsa e riconosciuta, così come in
Giappone: l’efficacia di molte sostanze è avvalorata non solo da studi
scientifici, ma anche da “trial” clinici molto importanti». All’estero,
aggiunge Bonucci, la possibilità di avere benefici da un’alimentazione
mirata (e da sostanze naturali) nella cura delle patologie oncologiche
«non è messa in dubbio». Si parla di curcuma, artemisia e altre essenze,
dotate di potenti principi attivi. Un guru della nutrizione
“integralista” come Valdo Vaccaro raccomanda di consumare solo frutta e
verdura, in caso di insorgenza tumorale. Ma negli ospedali italiani
l’aspetto alimentare (fonte primaria del problema, a quanto pare) è
completamente trascurato. Ai malati vengono somministrate chemioterapia e
radioterapia. E magari una bella fetta di prosciutto.
L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua
a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando
l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida
persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in
genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali.
Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”,
ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si
occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre
800 studi precedenti sul legame tra alimentazione e tumore conferma
quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso
per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e
manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli
insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo
Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative
contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti
oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate
merendine confezionate e fette di prosciutto».Marijuana libera, e il Colorado incassa 175 milioni in tasse

28/10 • segnalazioni •
Torna
il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita
dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a
decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città
europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi»,
riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha
ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime,
ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che
ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco
nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali
ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente
anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da
milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare
mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e
piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».
La
lotta alla droga, inoltre, assorbe ingenti risorse di polizia,
giudiziarie, carcerarie. «Tanto per dare una idea, il problema del
sovraffollamento da terzo mondo delle nostre carceri verrebbe
praticamente di colpo risolto dalla legalizzazione», scrive Bartolini su
“Micromega”. «Gli immensi ritardi della nostra giustizia penale si
ridimensionerebbero». Per non parlare della finanza
pubblica: le stime sui mancati introiti fiscali della tassazione di un
commercio tanto imponente parlano di miliardi. Altrove, poi, il
narcotraffico è un fattore permanente di destabilizzazione: «Nel 2006 il
presidente messicano Calderòn decise di usare l’esercito dichiarando
“guerra alla droga”. Da allora tale guerra ha prodotto la sbalorditiva
cifra di 60.000 morti, che arrivano a 100.000 se si contano gli
scomparsi. Ci sono paesi interi la cui economia
è stata distrutta dalla transizione dell’agricoltura alla produzione di
droghe, come l’Afghanistan, ormai avviato a divenire la prima
monocoltura di papavero da oppio del pianeta».
I
sostenitori del proibizionismo non negano questo disastro, continua
Bartolini, ma dicono che è il minore dei mali possibili. Motivazione
etica: uno Stato non può legalizzare cose che fanno male. «Questo
argomento – ribatte Bartolini – assume un sapore tragicomico in una
società devastata da dipendenze di ogni genere, cominciando con quella
dallo shopping e continuando con videogiochi, videopoker, slot, calcio,
tv, sesso, pornografia, alcol, sigarette, tanto per menzionare qualcuna
delle più comuni. E ovviamente una alluvione di droghe chimiche legali,
elegantemente definite psico-farmaci». Infatti, «esistono una quantità
di cose che sono legali, possono fare malissimo e sono persino
pubblicizzate». E allora, perché pigliarsela solo con alcune droghe? «Il
proibizionismo è in ritirata perché non esiste una risposta a questa
domanda». O meglio, «non ne esiste una nobile», dal momento che «sono
legali le droghe prodotte dalle case farmaceutiche e sono illegali
quelle prodotte da contadini del terzo mondo o autoprodotte».
Inoltre,
l’anti-proibizionismo riduce le dipendenze: «Il calo costante e
spettacolare del consumo di tabacco negli ultimi decenni in tutto
l’Occidente dimostra che le campagne informative funzionano». Se una
sostanza viene percepita come realmente pericolosa, il suo consumo
diminuisce. Campagne come quelle anti-fumo «costano una frazione
insignificante del costo di quell’immenso apparato messo su per la
guerra alla droga». Secondo la polizia doganale americana, il 2014 ha
registrato per la prima volta un calo delle importazioni di marijuana
dal Messico (- 24%), che erano invece costantemente cresciute per 50
anni. Un primo successo del proibizionismo? Al contrario: «Sono le prime
conseguenze di un anno abbondante di legalizzazione in due Stati
americani, Colorado e Washington. Semplicemente, la vendita legale di
marijuana ha rubato il mercato ai cartelli dei narcos». Inoltre, la
marijuana legale è di migliore qualità, priva di tagli, senza gli
additivi della marijuana illegale (ammoniaca, fibra di vetro e lana di
roccia, che simulano i cristallini tipici della marijuana). Tutto questo
lascia prevedere una diminuzione nel lungo periodo dei costi sanitari
connessi all’uso di additivi dannosi per la salute.
Quanto
ai rischi paventati dai proibizionisti – aumento dei crimini, del
consumo e degli incidenti stradali – non ve ne è alcuna traccia nelle
statistiche, osserva ancora Bertani: in Messico molti vedono la
legalizzazione negli Usa
come l’unica salvezza dal definitivo disfacimento del paese, devastato
dai cartelli. Infine, non proprio un dettaglio: il Colorado prevede un
gettito fiscale di 175 milioni di dollari nei prossimi due anni che
consentirà una sostanziosa riduzione della pressione fiscale. E le
previsioni dello Stato di Washington sono intorno ai 600 milioni di
dollari nei prossimi cinque anni. «Tutti soldi che verranno trasferiti
dalle tasche dei narcos messicani a quelle dei due Stati americani»,
conclude Bartolini. Ecco perché «il proibizionismo è un lusso che non
possiamo più permetterci». Marijuana libera significa due cose: più
soldi pubblici e meno mafia. «Le mafie si occupano anche di altre cose
oltre alla droga, ma questa rimane il loro core business. La
legalizzazione delle droghe le indebolirebbe molto. La platea
proibizionista è ampia e variegata. Ma la prima fila, quella dei
sostenitori più accesi, è occupata dalle mafie».
Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita
dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a
decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città
europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi»,
riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha
ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime,
ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che
ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco
nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali
ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente
anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da
milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare
mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e
piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019

27/10 • segnalazioni •
In
milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata:
disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno
ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati
europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia
italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo
spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché
l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere,
comprese le 154 crisi
aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg
chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del
lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di
disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far
valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le
154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo
economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una
risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito
la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
Lo
conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo
di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione
d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche
comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato
dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella
determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai
singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa
Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva:
«Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di
disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per
garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato,
hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo.
In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo
francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento
dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.
Per
quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i
parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce
degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il
Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una
riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa
che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non
generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in
crescita negli anni della crisi,
con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della
disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la
drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la
“disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo
praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente,
ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles
vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un
piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da
questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si
parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso
di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica,
ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e
saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già
segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019
saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai
tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna,
citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo
Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi
aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg
chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del
lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di
disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far
valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le
154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo
economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una
risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito
la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
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