L’Ue odia ciò che amiamo, proprio come la vecchia Urss
08/11 •
«Se
controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse
propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il controllo di
forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in
tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in
poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche
poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno
ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa,
dove l’ignoranza è ormai forza» (John Rappoport, “The Underground”).
Uno dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini,
cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu
concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle
macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema
di gestione politica
per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva
esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino
a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il
paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero
inondati da migranti.
“Sostituire
le popolazioni”, flussi di gente che non ha la minima intenzione di
accettare costumi e stili di vita in voga nelle loro nuove case. Il
risultato finale? Una riconfigurazione di fatto delle popolazioni
nazionali, al punto che, guardando all’Europa tra vent’anni potremo dire: «Perchè mai parliamo di Germania, Francia o Inghilterra? Non esistono realmente. L’intera Europa è un miscuglio non omogeneo di vari migranti, l’Europa
oggi è una sola nazione, è tempo di cancellare tutti questi confini
artificiali». A un certo punto anche solo pronunciare parole quali
“svedesi, norvegesi, tedeschi, francesi, olandesi” sarà considerata una
più o meno micro, o macro, aggressione contro “le genti d’Europa”.
Chiaramente una volta raggiunto questo stadio a ciò si accompagnerebbe
un certo quantitativo di caos e violenza. La Ue sta scommettendo sulla
sua capacità di gestire il disordine, di reprimerlo quando necessario, e
consolidare e mantenere lo status di unica forza di governo effettiva
in Europa.
Ad
un livello culturale, nomi come Locke, Shakespeare, Goethe, Mozart,
Beethoven, Bach, Lorca, Goya, Cézanne, Monet, Van Gogh, Michelangelo,
Rembrandt, Dante, Galileo, Faraday e persino nomi “moderni” come Bartok,
Stravinsky, Rimbaud, Orwell e Camus non resteranno che vaghi fantasmi
polverosi in grado di provocare null’altro che sguardi di
incomprensione. “Il passato è morto”. “Ma non c’è nulla da temere, quel
che conta è che ogni persona che vive in Europa
è cittadino europeo e gode dei benefici che ne derivano. E’tutto molto
umano, questo è il Bene, il trionfo dello Stato benevolo. Nient’altro
conta”. Tutte le lingue europee cadranno progressivamente in disuso. Chi
ha il diritto di esprimersi con parole che la maggioranza non è in
grado di capire? Questo schizzo che sto tracciando descrive la griglia
che sta per essere lanciata sull’Europa. E chiaramente, dal momento che l’automazione galoppa, molti “cittadini-lavoratori d’Europa”
diventeranno inutili. Persino grandi multinazionali crolleranno, perchè
non potranno più vendere i loro prodotti alle popolazioni impoverite.
Non fanno che sperare che milioni di asiatici, Cina e India in testa,
gli regaleranno nuovi mercati.
Su
questo sfondo l’essere umano individuale sarà considerato, dall’alto,
come una cifra, una astratta unità buona per “modelli e algoritmi”. La
domanda è: quanti individui abboccheranno e accetteranno di vedere se
stessi come semplici parti interscambiabili nel sistema generale? Quanti
getteranno via ogni speranza e accetteranno il futuro solo come una
funzione di quello che lo Stato è disposto a concedere e che dallo Stato
possono ottenere gratis? In quanti realizzeranno che il loro potere
come individui è inconsequenziale, o meglio pura illusione? Come mai ho
avuto voglia di far salire a galla cose simili? Perchè, nonostante la
prevalente mentalità collettivistica, propagandata, promossa e sfruttata
al livello dell’élite, la repressione di Stato, a tutti i suoi livelli,
colpisce ogni individuo. Se il concetto stesso di individuo viene
spezzato via, cosa ne resta? Nel 1859 John Stuart Mill scrisse: «Se ci
fosse coscienza del fatto che il libero sviluppo dell’individualità è un
fattore essenziale al benessere non ci sarebbe alcun rischio che
l’importanza della libertà sia sottovalutata». Contrariamente, dove il
libero sviluppo dell’individualità non è preoccupazione di nessuno, la
libertà è destinata a morire.
Boris Pasternak, lo scrittore e poeta Russo, che certamente sapeva un paio di cosette sulla repressione politica,
scrisse (nel 1960): «Loro (i burocrati sovietici) non pretendono molto
da te. Soltanto di odiare le cose che ami e amare le cose che odi».
Questa inversione viene riproposta oggi, in Europa.
I dissidenti della vecchia Urss lo riconosceranno in un lampo, dal
momento che ci sono già passati. La versione europea ci tiene ad
apparire più morbida e gentile, ma non è altro che questione di
strategia. La cultura se la stanno cuocendo a fuoco lento. Ma il
semplice fatto che non abbiamo la polizia segreta che bussa alle nostre
porte nel mezzo della notte per eseguire arresti di massa non è di per
sé garanzia che la libertà individuale regna. Parecchi politici europei
dicono ai loro elettori: «Non avete il diritto di opporvi in nessun modo
alla marea di migranti in arrivo. Dichiarare pubblicamente ostilità ai
migranti è offensivo». Suona familiare?
Il sogno segreto di ogni collettivista sta divenendo realtà. Tutto il potere
accentrato al vertice; e totale conformità (definita “unità”) ad ogni
altro livello. La nuova Urss. Ai vecchi tempi la polizia della Germania
Est aveva un fascicolo su ogni cittadino e seminava per la popolazione
spie e informatori. Il moderno Stato di sorveglianza ha rimpiazzato
questi sistemi, cercando piuttosto i “nodi del malcontento”. I
collettivisti possono, a parole, anche denunciare all’occorrenza i
rischi di uno stato di polizia, ma ogni volta che questi sistemi sono
usati per sbarazzarsi di qualcuno che possiede la visione di un mondo
migliore di quello basato, tra le altre cose, sull’assenza di confini
allora è soltanto “il Bene” imposto a chi non sa riconoscere il bene da
solo. Se un tale nobile scopo umanitario ha bisogno di qualche
spintarella per essere inculcato, perchè no?
Per
colletivisti fatti e finiti, la libertà non è solo un fastidioso blocco
stradale, peggio, è una illusione irrilevante, non è mai esistita.
Tutti gli esseri umani funzionano per come sono programmati a farlo, sin
dalla nascita. Quindi, basta installare un programma migliore,
inculcalo con ogni mezzo a disposizione, purchè si producano i
desiderati “uomini-bambino”. E’un imperativo sia politico che
tecnologico. Confini aperti ed immigrazione illimitata sono un ottimo
caso-prova. Per la gente che pensa gli venga imposta la frammentazione
delle proprie comunità, che si sentono personalmente minacciate, che
abbiano la percezione che sia una operazione coperta per trasformare l’Europa
in una nuova Urss, urge rieducazione al livello più profondo possibile.
Per il loro bene, perchè certamente questa gente soffre di gravi
disturbi. I loro circuiti sono bruciati, dev’esserci qualche difetto
hardware del cervello, sono incapaci di vedere le cose correttamente.
Tra
le cose che non potrebbero vedere ad esempio ad esempio, è la saggezza
in queste parole di Zbigniew Brzezinski, ovvero l’alter ego di David
Rockefeller, che nel 1969 scriveva: «Lo Stato nazione, inteso come unità
fondamentale nella vita organizzata dell’uomo ha cessato di
rappresentare la principale forza creativa: le banche internazionali e
le corporazioni multinazionali agiscono e pianificano in termini che
scavalcano ed eludono i concetti politici delllo Stato-nazione». Qui
vediamo il tattico globalista in azione, un uomo che apparentemente odia
la vecchia Urss ma che in realtà punta all’istallazione del medesimo
collettivismo attraverso altri mezzi. Se Lenin fosse vivo oggi,
guardando all’Europa
sarebbe d’accordo che la sua agenda è in pieno corso e gode di ottima
salute. Potrebbe obiettare solamente per il passo relativamente lento a
cui procede. Potrebbe sostenere che serve maggiore violenza. Ma non
potrebbe non riconoscere come i suoi successori hanno scoperto un bel
po’ di utili trucchetti nuovi. Approverebbe dell’“altruismo umanitario”,
il modo in cui viene presentato e manipolato, in modo che l’edificio
del “Bene” appaia come una luce che brilla nell’oscurità. Gran film. Bel
lavoro di produzione. Le lacrime sulle gote degli spettatori. Le menti
ridotte a una sola costante: dobbiamo interessarci a chi è meno
fortunato di noi. Milioni di migliaia di migliaia di dollari spesi per
instillare il sentimento, indipendentemente dalle circostanze o dalle
vere intenzioni malevole sottostanti, o le indicibili sinistre
intenzioni degli artisti elitari della realtà.
(Jon Rappoport, “Il piano per la fine dell’Europa: la nuova Urss”, dal blog di Rappoport del 21 ottobre 2015, post tradotto da “Come Don Chisciotte”).
«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate
risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il
controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova
società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di
tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle
tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è
esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo
in Europa,
dove l’ignoranza è ormai forza» (Jon Rappoport, “The Underground”). Uno
dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini,
cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu
concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle
macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema
di gestione politica
per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva
esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino
a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il
paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero
inondati da migranti.Articoli Recenti
L’Italia che difende i marò non aprì bocca dopo il Cermis
07/11 • segnalazioni •
Appena
sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in
ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a
riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza
che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è
comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si
comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa
tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti,
provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei
“Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente
patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e
Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi,
in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua
lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo
l’incidente – speculazione politica
di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le
vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani –
questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo
nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori
indiani».
Basta
osservare le foto del Saint Antony, il battello da pesca colpito dai
fucilieri: «Accettereste un passaggio – anche gratis! – su una simile
bagnarola?». Nei luoghi “classici” della pirateria, come lo Stretto di
Malacca, le imbarcazioni usate dai pirati sono potenti e veloci, si
dispongono in tandem a prua della preda, tendendo una cima fra le due
imbarcazioni pirata: così è la prua stessa della vittima, incocciando
nella cima, a tirarsele sottobordo. Non è il caso del Saint Antony, che
nel frattempo è affondato («Non c’è da meravigliarsi!»). Il
peschereccio, continua Bertani, poteva raggiungere al massimo gli 8-9
nodi, contro i 12 della Enrica Lexie. «Le due imbarcazioni procedevano
quasi su rotta di collisione», prua contro prua. «Una delle vittime – il
timoniere – fu trovato morto “appeso” al timone: s’ipotizzò addirittura
che dormisse, all’atto dei luttuosi eventi». Domanda: perché il
comandante del mercantile, Umberto Vitelli, se era in dubbio riguardo
alle intenzioni del peschereccio, non ha fatto bloccare il timone e
aumentare la velocità? E perché non ha richiamato il personale dalla
plancia? E’ è tutta a vetri, e se si spara si può essere colpiti.
«Qualora
il peschereccio avesse messo il “turbo” (cosa risultata a posteriori
impossibile, perché era solo una vecchia carretta da pesca), a quel
punto si poteva prendere in esame la risposta armata», scrive Bertani.
«Quando ho parlato di “grilletto facile” non ho blaterato a vanvera». I
due morti sul Saint Antony furono colpiti da munizionamento Nato
(presenti i carabinieri italiani all’autopsia). E la barca «era ridotta a
un colabrodo, mentre nessun colpo aveva raggiunto la Enrica Lexie,
anche perché gli indiani erano disarmati». Dove avvenne lo scontro?
Secondo la perizia del “collegio capitani”, a circa 20,5 miglia nautiche
dalla costa, all’esterno delle acque territoriali ma all’interno della
“zona contigua”, che l’India ha ratificato con la convenzione di Montago
Bay, che recita: «La zona contigua si estende dal mare territoriale non
oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato
costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio
territorio o mare territoriale, sia prevenire le violazioni alle proprie
leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di
immigrazione». L’India, conclude Bertani, aveva dunque pieno diritto di
effettuare l’arresto.
«Si
è fatto molto chiasso su questa vicenda, cercando d’aggrovigliare le
miglia marine come fossero capelli – aggiunge Bertani – ma ci si
dimentica che gli israeliani assalirono la Mavi Marmara (mercantile
della Freedom Flotilla) a 40 miglia dalle loro coste, in piene acque
internazionali, e nessuno mosse un baffo. Quello fu, a tutti gli
effetti, un vero atto di pirateria». La vicenda dei marò è
intricatissima, perché in India vige la pena di morte: più volte, però,
magistrati e politici indiani hanno precisato che “per quel tipo di
reato non è prevista la pena di morte”. Le autorità indiane, inoltre,
hanno spiegato che ai militari italiani potranno infliggere ogni
sentenza «eccetto la pena di morte, l’ergastolo e l’imprigionamento per
un periodo eccedente 7 anni». Insomma, il massimo (per due omicidi,
secondo gli indiani) sono 7 anni di reclusione: quasi come in Italia.
«C’è da dire – continua Bertani – che la pazienza indiana è stata più
volte messa a dura prova dalle intemperanze dell’allora presidente
Napolitano – che ricevette i due marines come se fossero stati due eroi –
e dalle “scommesse” dell’allora ministro degli esteri Terzi, il quale
dichiarò che i due militari non sarebbero più tornati in India, dopo uno
dei molti “permessi” che l’India concesse, senza esser tenuta a farlo».
Tutt’altra
storia quella del Cermis, la catastrofe innescata dai “Prowler” dei
marines, impegnati in manovre spericolate per “passare sotto i cavi
della funivia”. La faccenda fu spiegata con le confessioni
dell’equipaggio e di altri membri dello staff americano e italiano: era
stata una scommessa. L’aereo, già in fase di cabrata, “tagliò” la cima
d’acciaio della funivia come la lama di un coltello. «Eppure, in quella
vicenda, non ci fu un solo giorno di prigione per i militari americani,
che si appellarono alla famosa convenzione che regola le missioni Usa
all’estero: giudicati in patria, dove diedero loro un buffetto». Tutto
il personale tornò a volare in breve tempo, appena le acque si furono
chetate. «Chi chiede il giudizio in Italia per i due marò, dimentica un
piccolo particolare: l’India non è un paese Nato! Quella sentenza, quel
modo di trattare degli statunitensi, ci sta bene? Ne siamo
soddisfatti?». A ben vedere, continua Bertani, «l’India non ha fatto
altro che chiedere un’equanimità di giudizio (pur in presenza di sistemi
giuridici diversi), comprendendo che fu un tragico incidente dovuto
alla paura e alla carenza di comando e controllo del personale militare
imbarcato: l’ufficiale più vicino alla Enrica Lexie era a Gibuti!».
Piuttosto,
insiste Bertani, «gli italiani dovrebbero indagare e punire chi lasciò
soli nelle loro mortale decisione i due fucilieri: il sergente che
comandava la squadra? Il comandante Vitelli? Un ufficiale distante
tremila miglia marine?». Niente da dire: «Siamo dei veri specialisti nel
creare procedure fumose, le quali finiscono per lasciare il cerino in
mano all’ultima ruota del carro». E non si può pretendere che un simile
pasticcio sia compreso e “perdonato” in India, «paese dal solido
impianto giuridico, mutuato dal sistema britannico». In fondo, cos’ha
fatto l’India? «Ha chiesto quello che dovevamo chiedere, noi italiani,
all’indomani della tragedia del Cermis: si è comportata da paese
sovrano. Siamo noi che ci comportiamo da paese subalterno agli Usa».
Peraltro, resta completamente irrisolto il problema della pirateria, da
quando i mercantili rifiutano di essere equipaggiati con armamento a
disposizione del personale di bordo.
Secondo
Bertani, basterebbe dotare le navi di un cannoncino a tiro rapido, «che
consentirebbe di avvertire il bersaglio con una raffica davanti alla
prua, come si faceva un tempo». Armi precise, automatiche, facili da
usare. Ma i marinai, i comandanti e gli armatori non ne vogliono sapere.
Così, nei guai ci finiscono i marò, lasciati senza ordini e costretti a
prendere decisioni, da soli, in pochi secondi. «L’unica cosa da non
fare è trasformare un evento luttuoso, uno sbaglio, in una questione
internazionale d’orgoglio patriottico, peraltro incomprensibile in
simili frangenti», conclude Bertani. «Lasciamo che i due marò
trascorrano la loro pena in ambasciata, in India (ciò che resterà da
scontare dei 7 anni), e faremo una figura onorevole. Siamo ancora in
tempo per rimediare, ricordando che l’India poteva comportarsi in ben
altra maniera: altro che 7 anni!».
Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere,
ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe
meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e
senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India
s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si
comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa
tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti,
provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei
“Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente
patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e
Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi,
in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica
di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le
vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani –
questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo
nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori
indiani».L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
06/11 • idee •
Tu
chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura
“simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza
insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa
analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del
sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da
Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato
la subdola ferocia del potere
mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio
Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo
film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate
di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni
sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da
una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una
fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà
indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato
ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato
all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica
selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni
ambienti insospettabili.
Stefania
Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già
legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di
cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da
osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media
sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si
tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che
agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali.
Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro
espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare
l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno,
in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro
nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella
potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli
per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e
seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed
ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà
di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in
“Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di
Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto
filo-arabo.
«Spesso
il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma
sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono
complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che
vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema»,
scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso,
appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente.
Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo
nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi
Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il
“ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2
novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto,
tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012,
continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di
Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970
perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo
40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del
sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline
dell’Oltrepo Pavese.
«La
causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al
sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu
costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto
aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di
Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così
mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che
avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare
una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri
politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro,
aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi
per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima
dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo
Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse
cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E
fece la stessa fine di De Mauro.
Nel
dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta”
nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti,
gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella
versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei
sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che
a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati
ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in
precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il
Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i
testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle
prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò
strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure
“oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti –
mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film
“maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere
ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia
celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che
si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge
Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle
organizzazioni che detengono il potere».
Nello
stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e
ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi
utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano».
Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne
cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini:
non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero
cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che
chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude
l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e
possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre
2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna
sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle
macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili
sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio
2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il
caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile
temporalmente.
«I
magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E
dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti
questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel
2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare
dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere
interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella
notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno
sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt
di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di
Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e
una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno
trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono
riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier
Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino
dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che
non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale
dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo
quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».
Il
pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al
possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che,
a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con
targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla
porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il
furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella
di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece
distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è
stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla
motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti,
che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma
l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel
settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara,
pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e
sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista
americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto
Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e
cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo
non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una
vera e propria azione di depistaggio».
Nelle
scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua
Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi
– e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è
ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua
durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla
dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del
romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e
speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è
ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film,
pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una
distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è
Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini:
la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul
delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine
(i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo.
«Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite
informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo
motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito
in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre
invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo
Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in
concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».
Negli
ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro
film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco,
amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile
al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di
Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato
ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che
lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri
articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di
uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente,
Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato
ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal
’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli
omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza
della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non
parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce
all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia,
l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come
fronteggiare il nemico sovietico».
«Si
crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione
clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota
ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano»,
continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa
purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte
occidentale o meridionale d’Europa.
Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania
Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini,
parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché
aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe
verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta
realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione.
Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da
Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato
il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino
Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai
stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno
di Bruna Durante, figlia del medico legale.
Se
l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei
casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti,
menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo
“simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive –
nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata
più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per
gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di
Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per
analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo
trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli
ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le
borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo
modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad
infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti
facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse
persone, stesse modalità».
Ancora
cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una
sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”,
in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un
gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo
deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di
“visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e
che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che
sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la
sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario:
l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora
pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del
contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero
con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il
cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e
morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di
“Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva
profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il
contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».
Sulla
storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive:
«L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo
portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue.
Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le
modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia.
Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un
articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il
copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La
Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che
nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire».
Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del
copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si
concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di
Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò
il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a
doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma
perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale
cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista,
forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.
E’
noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor:
unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di
riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse
al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che
avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania
Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che
fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio
Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle
restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini.
Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare
l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a
testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe
stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro
per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui
proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da
Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca –
consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e
ucciderlo».
Il
film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate
di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il
1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica
Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si
riuniscono quattro rappresentanti del potere:
il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il
Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di
ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e
tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i
giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino,
consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi
al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più
intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di
“piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È
un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la
realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è
ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli
anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad
esistere anche oggi».
Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere,
i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i
vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011,
riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili
a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori
«rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere.
«Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva
e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa.
Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere
militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali)
sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro
Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il
film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la
geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone
della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa
quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società
segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più
recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui
viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni
massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e
forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore
indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».
Un
altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania
Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in
base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie
famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li
vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei
quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il
fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti
religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la
morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste
organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o
di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata»,
scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come
la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare
religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito».
Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le
giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate
al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola
libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni
legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto
riguarda il mondo, voi siete già morti».
Una
logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero
all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e
delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva,
concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della
morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il
cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi
ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta
e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini
abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione
nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale».
“Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe
sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che
restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e
nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali,
di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del
potere,
ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso,
che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di
lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in
apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In
base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le
modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso”
enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima:
aveva denunciato la subdola ferocia del potere
mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio
Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo
film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate
di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni
sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da
una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una
fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà
indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato
ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato
all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica
selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni
ambienti insospettabili.
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