Ha un senso la “guerra al terrore”? È una politica efficace? E in
che cosa è diversa l’attuale fase della “guerra al terrore” dalle due
precedenti fasi che si sono svolte durante le amministrazioni di Ronald
Reagan e George W. Bush, rispettivamente? Inoltre, chi trae realmente
vantaggio dalla “guerra al terrore”?...Il celebre critico della politica
estera statunitense Noam Chomsky ha offerto la sua opinione a Truthout
su questi argomenti in un’intervista esclusiva con C. J. Polychroniou
che vi riportiamo di seguito.
"Le due fasi della “guerra al terrore” sono molto diverse,
eccetto che per un aspetto fondamentale. La guerra di Reagan si
trasformò molto rapidamente in una serie di guerre terroristiche che
ebbero conseguenze orribili per l’America Centrale, l’Africa meridionale
ed il Medio Oriente. L’America Centrale, il suo obiettivo più diretto,
deve ancora riprendersi, una delle principali ragioni dell’attuale crisi
di profughi.
Lo stesso si può dire della seconda fase, iniziata da
George W. Bush vent’anni dopo, nel 2001. L’aggressione diretta degli
Stati Uniti ha devastato vaste aree ed il terrorismo di Stato
statunitense ha assunto nuove forme, in particolare la “campagna globale
di omicidi” per mezzo dei droni lanciata da Obama, che segna un nuovo
record negli annali del terrorismo e che, come altre azioni simili,
probabilmente genera nuovi terroristi più in fretta di quanto uccida le
persone sospette.
L’obiettivo della guerra di Bush era al-Qaeda. Una
martellata dopo l’altra – Afghanistan, Iraq, Libia e oltre – è riuscito a
diffondere il terrore da una piccola area tribale dell’Afghanistan a
praticamente il mondo intero, dall’Africa Occidentale fino all’Asia
sudorientale (attraverso il Levante). Uno dei grandi trionfi politici
della storia. Nel frattempo,
al-Qaeda è stata sostituita da elementi
molto più feroci e distruttivi. Attualmente, l’ISIS (“Stato Islamico”)
detiene il record in fatto di brutalità, ma altri “pretendenti” al
titolo non sono molto addietro.
La dinamica, che risale a molti anni fa, è ben descritta in
un’importante opera dell’analista militare Andrew Cockburn, nel suo
libro Kill Chain. Esso documenta come, quando si uccide un leader senza
occuparsi delle radici e delle cause del fenomeno, questo solitamente
viene sostituito molto rapidamente da qualcuno di più giovane, più
competente e più violento.
Una conseguenza di questi “successi” è che una larga fetta
dell’opinione pubblica mondiale considera gli Stati Uniti come la
maggior minaccia alla pace nel mondo. Molto addietro, al secondo posto,
c’è il Pakistan, posizione presumibilmente ingrandita dal voto in India.
Ulteriori successi del genere potrebbero rischiano di far esplodere una
guerra di vasta scala col “mondo musulmano”, mentre le società
occidentali si assoggettano a politiche sempre più repressive e a
ulteriori erosioni dei diritti civili in patria, realizzando i sogni
perversi di Osama bin Laden ieri e dell’Isis oggi.
La cosidetta “guerra al terrore” per Reagan è stato il
pretesto per intervenire in America Centrale per quella che il vescovo
del Salvador, Arturo Rivera y Damas, succeduto all’arcivescovo Oscar
Romero, che fu assassinato, definì «una guerra di sterminio e genocidio
contro una popolazione civile indifesa». In Honduras e in Guatemala è
stato anche peggio. Il Nicaragua è l’unico paese che disponeva un
esercito che lo difese dai terroristi di Reagan; negli altri paesi le
forze di sicurezza erano i terroristi.
In Sudafrica, la “guerra al terrore” fornì il pretesto per
appoggiare i crimini razzisti sudafricani in patria e nella regione, con
un costo orrendo in termini di vite umane. Dopotutto, dovevamo
difendere la civiltà da «uno dei più famigerati gruppi terroristici»
del mondo, il Congresso nazionale africano di Nelson Mandela. Lui stesso
rimase sulla lista americana dei terroristi fino al 2008. In Medio
Oriente, l’idea della “guerra al terrore” ha giustificato l’appoggio
all’invasione omicida del Libano da parte di Israele e molto altro. Con
Bush, ha fornito il pretesto per invadere l’Iraq. E continua così.
L’orrore che si sta verificando oggi in Siria è al di là di
ogni descrizione. Le principali forze di terra che si oppongono
all’Isis sembra che siano i curdi, proprio come in Iraq, dove sono sulla
lista statunitense dei terroristi. In entrambi i paesi, sono
l’obiettivo primario dell’assalto del nostro alleato, la Turchia, che
sta appoggiando anche il gruppo affiliato di al-Qaeda in Siria, il
Fronte al-Nusra, che sembra poco diverso dall’ISIS, sebbene siano in
guerra per il territorio.
L’appoggio turco per al-Nusra è così estremo che quando il
Pentagono inviò varie dozzine di combattenti che aveva addestrato sembra
che la Turchia abbia allertato al Nusra, che li ha istantaneamente
sterminati. Al-Nusra e Ahrar ash-Sham, suo stretto alleato, sono
appoggiati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, alleati degli Stati Uniti,
e, a quanto pare, continuano a ricevere armi dalla CIA. Si dice che
abbiano usato missili anti-carro forniti dalla CIA per infliggere gravi
sconfitte all’esercito di Assad, probabilmente spingendo i russi a
intervenire. La Turchia sembra che continui a permettere agli estremisti
di affluire in Siria attraverso il confine turco.
L’Arabia Saudita in particolare è stata un’importante
sostenitrice del movimenti estremisti per anni, anche al fine di
diffondere le sue radicali dottrine wahhabite attraverso le scuole
islamiche e le moschee. Con non poca giustizia, Patrick Cockburn
descrive la “wahhabizzazione” dell’islam sunnita come uno degli sviluppi
più pericolosi della nostra epoca. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno
enormi forze militari moderne, ma sono a malapena impegnati nella
guerra contro l’Isis. Sono invece impegnati in Yemen, dove stanno
creando una considerevole catastrofe umanitaria e molto probabilmente,
come prima, generando terroristi futuri che diventeranno gli obiettivi
di domani nella nostra “guerra al terrore.” Nel frattempo, la regione e
la sua gente continuano ad essere devastati.
Naturalmente l’Occidente ha la capacità di massacrare tutti
nelle zone controllate dall’Isis, ma anche questo non distruggerebbe
l’Isis– o qualunque altro movimento brutale che si dovesse sviluppare al
suo posto. Uno scopo dell’Isis è di trascinare i “crociati” in una
guerra con tutti i musulmani. Possiamo contribuire a questa catastrofe,
oppure possiamo tentare di affrontare le radici del problema e di
contribuire a creare le condizioni in cui la mostruosità dell’ISIS possa
essere sconfitta da forze interne alla regione.
L’intervento straniero nella regione è stata una
maledizione per molto tempo ed è probabile che continui ad esserlo. È
vero che certi settori dell’economia traggono vantaggio dallo
“sciovinismo militaristico”, ma non penso che questa sia la causa
principale. Ci sono considerazioni internazionali geostrategiche ed
economiche di grande importanza.
I benefici economici – che rappresentano solo un fattore –
furono molto dibattuti sui giornali di economia all’inizio del
dopoguerra. Si capì che le massicce spese fatte dal governo avevano
salvato il paese dalla depressione e c’era grande preoccupazione che se
le spesa pubblica fosse stata ridotta il paese sarebbe ricaduto nella
depressione.
Un articolo molto interessante pubblicato sulla rivista
Business Week il 12 febbraio 1949 notava che la spesa sociale avrebbe
potuto avere lo stesso effetto espansivo della spesa militare, ma che
«c’è una grandissima differenza tra le politiche espansive in campo
sociale e quelle in campo militare». Le seconde «non alterano realmente
la strutture dell’economia», mentre la spesa per i sussidi pubblici e le
opere pubbliche «altera davvero l’economia. Crea nuovi canali propri.
Crea nuove istituzioni. Redistribuisce il reddito». Le spese militari
non coinvolgono quasi per niente i cittadini, mentre la spese sociali
sì, e hanno un effetto democratizzante. Per ragioni analoghe a queste,
si preferiscono molto di più le spese militari.
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