LAND GRABBING: L’ULTIMA FRONTIERA DEL COLONIALISMO IMPERIALISTA
Dopo
la crisi finanziaria del 2007, la terra da coltivare (specie quella del
Sud del mondo) è diventata un bene sempre più prezioso, oggetto di un
frenetico "accaparramento" in cui sono impegnati sia i paesi, come
quelli arabi, ricchi di liquidità ma privi di terre fertili, sia le
multinazionali dell'agro/business - interessate a creare enormi
piantagioni per la produzione di biocarburanti - sia una serie di
società finanziarie, convinte che l'investimento in terre possa
garantire guadagni sicuri. Il risultato è l'avvento di una nuova forma
di colonialismo che rischia di alterare gli scenari internazionali (come
dimostrano per reazione le recenti rivolte nordafricane, legate
all'aumento dei prezzi delle derrate alimentari).
Recentemente
si è iniziato a considerare la crisi alimentare come un fenomeno
strutturale, di cui un aspetto preoccupante è il così detto land
grabbing, cioè l'accaparramento di ampie porzioni di terreno nei paesi
in via di sviluppo. Questo fenomeno è stato descritto come una nuova
forma di colonialismo, dove grandi investitori, con il beneplacito dei
governi locali corrotti e l'appoggio delle agenzie internazionali, hanno
avviato una grande campagna per assicurarsi il controllo delle terre e
dell'acqua, sottraendole ai contadini di Africa e America Latina.
Si
denunciano così i danni sociali e ambientali prodotti dai grandi
latifondisti, sottolineando i gravi pericoli che si
creano quando i
generi alimentari diventano delle commodities scambiate sui mercati
internazionali, le cui fluttuazioni hanno ricadute disastrose per le
popolazioni locali.
La
corsa al controllo di terre e acqua, ha come sfondo una più generale
crisi legata alla distribuzione e all'uso delle risorse, che sempre più
appaiono limitate.
Dietro
questo nuovo fenomeno chiamato land grabbing, si nasconde una versione
del colonialismo ancora più crudele e perversa - ovvero l’acquisizione
per pochi spiccioli di terreni fertili e delle relative risorse, situati
in nazioni povere o alla canna del gas. Uno studio recentemente
analizza il problema dal punto di vista agro-idrologico, misurando il
rapporto tra i terreni acquisiti e la quantità d’acqua necessaria alla
loro coltivazione estensiva.
Da
una decina d’anni a questa parte, la domanda globale di generi
alimentari e biocarburanti, registra una crescita costante. Paesi ricchi
che però non hanno terre coltivabili e acqua (come l’Arabia Saudita), o
che contano su un’alta densità di popolazione (come il Giappone), o che
vedono crescere la domanda intera di beni di vario tipo (come la Cina)
hanno cominciato da tempo a investire nell’acquisto o nell’affitto a
lungo termine di terreni all’estero. Molti terreni: in Madagascar (a
titolo di esempio), la metà dei terreni agricoli del Paese (1.300.000
ettari) è stata comperata dalla Corea del Sud e verrà destinata alla
coltura di mais e palme da olio. Per comprare un terreno, non si
interpella chi ci vive: molto spesso, soprattutto nei contesti più
poveri, gli abitanti non posseggono atti di proprietà o documenti di
alcun tipo. La cessione del suolo e delle risorse a esso legate viene
decisa nella maggior parte dei casi a livello governativo.
Il fenomeno del land grabbing interessa tutti i continenti, ad esclusione dell’Antartide… per
adesso! Il 47% degli Stati “grabbati” si trova in Africa e il 33% in
Asia. Quarantuno sono i “grabbatori” e 62 i “grabbati”; tra questi
ultimi, 24 costituiscono il 90% del totale dei territori ceduti.
Tutto
quello che viene prodotto deriva dall’acqua: nel momento in cui questa
risorsa viene sfruttata, soprattutto in aree dove già si registra una
diffusa malnutrizione, la situazione si aggrava.
Come
succede con altre materie prime, chi ci guadagna, oltre ai compratori,
sono i governi locali, che cedono intere regioni a prezzi irrisori (un
ettaro di terreno, in alcune aree, può costare 1-2 dollari all’anno),
talmente a buon mercato da rendere convenienti gli investimenti
stranieri anche in zone prive di qualsiasi infrastruttura, o
politicamente instabili. Una volta venduto, il venditore si disinteressa
dell’uso che del terreno viene fatto: non esiste tutela sociale o
ambientale di sorta, e il terreno può essere inquinato, inaridito o
genericamente esaurito di qualsiasi risorsa.
Le
comunità locali vengono di sovente scacciate; nei casi più fortunati i
nativi del luogo possono essere assunti come braccianti nei nuovi
impianti. José Graziano da Silva, direttore della Fao, ha paragonato
recentemente il land grabbing in Africa alla conquista del selvaggio
West - eppure sembra difficile anche solo l’ipotesi di arginare questo
fenomeno barbaro.
L’accaparramento
selvaggio di terre e le richieste d’acquisto provengono soprattutto
dalle industrie produttrici di biocarburanti che necessitano di immense
estensioni di terra per coltivare palme da olio, mais, colza, girasole,
canna da zucchero e altre specie vegetali dalle quali ricavano il
carburante alternativo ai prodotti petroliferi.
Innanzi
tutto a rendere attraente questo tipo di investimenti sono le
condizioni alle quali in genere i contratti vengono stipulati.
Due
terzi dei terreni e delle risorse naturali “accaparrati” in questi
ultimi anni (ed è questo un altro dato essenziale per capire portata e
conseguenze del fenomeno) si trovano in Africa, e in particolare in
Africa subsahariana. La Corea del Sud ha acquisito nella sola isola di
Madagascar 1.300.000 ettari, pari alla metà dei terreni agricoli del
paese, destinati a colture di mais e olio di palma.
È
evidente poi che i terreni rurali renderebbero molto di più alle
popolazioni autoctone, e ai loro paesi, se fossero loro a coltivarli, a
sfruttarli e a commercializzare i raccolti vendendoli agli stati e alle
imprese stranieri: meglio ancora se poi si sviluppassero industrie
locali di trasformazione con i relativi indotti. Il danno è ancora
maggiore se si considera che, per far posto ai nuovi proprietari, ogni
volta innumerevoli famiglie, talvolta decine di migliaia, perdono mezzi
di sostentamento e casa.
Tutto
questo succede nel continente della “fame” per eccellenza, che importa
generi alimentari a caro prezzo; l’unico in cui denutrizione e
malnutrizione continuano ad aumentare, come documentano ogni anno i
rapporti della Fao e degli istituti internazionali di ricerca.
In
realtà, poi, per quanto riguarda l’Africa, le previsioni sono
apocalittiche. Rights and Resources Iniziative, una coalizione
internazionale di Ong, ha pubblicato nel febbraio del 2012 i risultati
di una ricerca condotta in 35 stati africani secondo la quale la maggior
parte degli 1,4 miliardi di ettari di terre rurali africane, dai quali
dipende la sopravvivenza di almeno 428 milioni di contadini poveri
subsahariani, non risultano proprietà di nessuno, a disposizione dei
governi che possono servirsene a loro discrezione, approfittando di
sistemi di proprietà lacunosi e del potere di cui così spesso fanno
cattivo uso.
L’Africa,
è un continente colpito ogni anno da scarsità stagionali e in certi
casi permanenti di generi alimentari di base, e la perdita di raccolti
alimentari.
A
peggiorare il quadro, sono le tante terre fertili che vengono destinate
alla produzione di biocarburanti a scapito delle colture alimentari,
per ricavare energia.
Quando
la terra e l’acqua, sono oggetto di speculazione e fine di profitto
privato, con tutte le conseguenze devastanti sulle popolazioni,
dimentichiamoci ogni futuro, e prepariamoci alla terza guerra mondiale.
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