giovedì 24 dicembre 2015

I passaggi sospetti di denaro tra l’Italia e la Cina


La sede centrale della Bank of China di Pechino, il 3 aprile 2015.
  • 23 Dic 2015 10.54
In una via del centro di Prato c’è un’agenzia di viaggi specializzata in voli per l’Asia che fino a qualche anno fa era una libreria.
Nel reticolo di strade intorno a via Paolo Sarpi, la cosiddetta Chinatown di Milano, fino al 2010 le targhette scolorite sui citofoni di due vecchi palazzi indicavano un paio di ditte molto esclusive: in apparenza si trattava di un anonimo internet point e di un rivenditore di telefoni cellulari scalcinato, ma entrambi aprivano a orari insoliti e solo per clienti selezionati.
Dietro le saracinesche di un magazzino dalle parti di via Nino Bixio, a Roma, almeno un giorno alla settimana si lavorava ben oltre l’orario di chiusura.
Secondo le indagini condotte dalla procura di Firenze e dalla guardia di finanza, queste tre agenzie – e molte altre in tutta Italia – sono punti di raccolta su una mappa segreta, nodi di un gigantesco schema di riciclaggio ideato da alcuni affaristi italiani e cinesi attraverso i quali, tra il 2006 e il 2010, sono stati sottratti illegalmente al fisco 4,6 miliardi di euro poi dirottati verso la Cina.

La chiave del cielo

La vicenda ricostruita dagli investigatori comincia tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila. L’imprenditore Cai Jianhan, che all’epoca aveva 55 anni ed era una figura nota della comunità cinese in Italia, viveva a Milano insieme ai figli Cai Cheng Qiu e Cai Chengchun. I due ragazzi, entrambi sulla trentina, avevano già avviato insieme al padre alcune imprese di successo, ma la svolta è arrivata con le telecomunicazioni: grazie all’accordo sul roaming con uno dei grandi operatori telefonici nazionali, la famiglia Cai e altri soci hanno creato Tian Tian (che significa cielo cielo), la carta sim che offre le tariffe più basse sulle chiamate da
e verso la Cina. Tutti i numeri Tian cominciano con 8, la cifra che nella tradizione cinese indica prosperità e buona sorte.
Tian Tian fa la fortuna dei Cai: “Avevamo tutti una scheda Tian Tian per chiamare i familiari o i fornitori in Cina”, racconta Wu, un giovane cinese di Milano “e si sapeva che i titolari della concessione erano diventati molto ricchi”.
Ma con l’affare delle carte sim la famiglia Cai non ottiene solo grandi guadagni. Chi gestisce Tian Tian controlla qualcosa di ancora più prezioso: un database di nomi, indirizzi, numeri di telefono e codici fiscali. Una mappatura della comunità cinese in Italia che nelle mani giuste può trasformarsi nella chiave del cielo.

Operazione money transfer

Negli stessi anni in cui Cai e i loro soci vendono migliaia di carte sim Tian Tian, Andrea e Fabrizio Bolzonaro, insieme al socio nigeriano Dayo Igiebor, gestiscono la Money 2 Money, un piccolo money transfer di Bologna con succursali in alcune città italiane. I clienti sono soprattutto lavoratori africani che mandano le rimesse in Nigeria, Togo, Senegal e Costa d’Avorio. I Bolzonaro e Igiebor guadagnano una percentuale sul denaro inviato. Un business di dimensioni modeste, che nel 2006 subisce un’accelerazione improvvisa quando i fratelli Cai si propongono ai Bolzonaro come partner in grado di allargare il business alla clientela cinese, un bacino molto ampio e redditizio.
“Nell’ottobre del 2006 i Cai e i Bolzonaro siglano un accordo con il quale i Cai acquisiscono il 10 per cento di Money 2 Money”, racconta uno degli investigatori che hanno seguito l’indagine fin dall’inizio, “con la clausola che, se entro tre mesi fossero riusciti a garantire un flusso di rimesse pari a dieci milioni di euro, i Bolzonaro avrebbero ceduto il 50 per cento delle quote alla loro società, la Dtg srl, passando il controllo della maggioranza della Money 2 Money alla famiglia cinese”.
Grazie alla loro rete di relazioni e al database di Tian Tian, tra l’ottobre e il dicembre del 2006 le rimesse convogliate sulla Money 2 Money superano abbondantemente l’obiettivo dei dieci milioni e raggiungono la strabiliante cifra di 82 milioni di euro. Così il piccolo money transfer di Bologna, fino ad allora incapace di competere con giganti come MoneyGram o Western Union, moltiplica le agenzie in tutta Italia, conquistando di fatto il monopolio sul denaro inviato da lavoratori e imprenditori cinesi in madrepatria. E attira l’attenzione della procura di Firenze.
I primi controlli mostrano che ogni singolo cliente di Money 2 Money spedisce somme pari a 1.999 euro, ovvero la cifra massima che in quel periodo la legge consente di trasferire. Ma appostamenti, controlli incrociati, pedinamenti e intercettazioni ambientali all’interno delle filiali lasciano sospettare uno scenario diverso: “Secondo le nostre indagini, alla Money 2 Money si rivolgevano imprenditori che accumulavano denaro in nero attraverso irregolarità di vario genere. La Money 2 Money offriva la possibilità di frazionare quel denaro in somme trasferibili per legge e spedirlo all’estero senza particolari problemi”, racconta un’altra fonte investigativa.
La chiave dello schema era il database Tian Tian: “I titolari delle agenzie Money 2 Money potevano facilmente attribuire queste intestazioni fittizie a singoli cittadini cinesi completamente ignari dei quali controllavano tutti i dati personali”. Secondo gli inquirenti, tra il 2006 e il 2010 ogni singolo titolare di una carta sim Tian Tian poteva quindi trasformarsi in un “mittente zombie”, che a sua insaputa spediva in Cina pacchetti rigorosamente inferiori ai duemila euro. Quei pacchetti, in realtà, concorrevano a formare somme molto più consistenti, i cui veri titolari eran0 imprenditori cinesi che per sfuggire al fisco italiano versavano una percentuale alla Money 2 Money.
Ci ricattano, ci controllano. Stiamo riciclando i soldi della mafia cinese
“Molte di queste agenzie non sembravano neanche agenzie”, prosegue la stessa fonte investigativa “e non erano aperte al pubblico, si limitavano a ricevere i loro clienti imprenditori che ogni settimana mandavano grosse quantità di contante attraverso un prestanome, una testa di legno priva di qualsiasi disponibilità economica personale”.
I militari della guardia di finanza installano telecamere esterne, microtelecamere interne e microspie negli anonimi negozietti che fanno da copertura alle agenzie. Sorvegliano i corrieri che consegnano le valigie piene di contanti ai punti di raccolta Money 2 Money e li ricollegano ad alcune ditte che dichiarano redditi irrisori o inesistenti. Ricostruiscono la vera contabilità della Money 2 Money grazie a intercettazioni che riconducono le somme frazionate alle aziende apparentemente in perdita, e scoprono che molte di queste accumulano fondi neri tramite attività illecite: fatture false, vendita di merce contraffatta, sfruttamento della manodopera clandestina. Anche la prostituzione praticata nelle centinaia di centri estetici cinesi diffusi in tutta Italia contribuisce a generare il bilancio finale, pari a 4,6 miliardi di euro.
Gli investigatori sospettano inoltre che molti degli imprenditori non si rivolgano alla Money 2 Money spontaneamente: “Anche se nessuno lo dice, in alcuni casi i clienti sono intimiditi e costretti a usufruire dei servizi della Money 2 Money con le cattive”, dice un altro investigatore. Una circostanza in minima parte confermata dalla telefonata di uno dei fratelli Bolzonaro alla moglie subito dopo un incontro con i Cai a Milano: “Ci ricattano, ci controllano. Stiamo riciclando i soldi della mafia cinese”.
Forse i Bolzonaro sanno dei vaghi contatti tra la famiglia Cai e uno degli indagati in una vecchia operazione della procura di Firenze chiamata “Gladioli rossi”, che negli anni novanta condusse alla prima sentenza per associazione a delinquere di stampo mafioso a carico di cittadini cinesi. O forse si stanno lasciando suggestionare. In ogni caso, non denunciano i nuovi soci di cui ormai sono diventati complici. Secondo le intercettazioni, a Milano i Cai e i Bolzonaro incontrano alcuni funzionari dell’unica filiale italiana della Bank of China, la seconda banca cinese e la quinta al mondo per valore di capitalizzazione di mercato. E con l’incontro di Milano il caso Money 2 Money assume la dimensione dell’intrigo internazionale.

Economie sommerse

Le indagini di Firenze sul riciclaggio si chiudono nel giugno 2015 con la richiesta di rinvio a giudizio per 297 persone, alcune delle quali accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Tra gli indagati per il solo riciclaggio ci sono i quattro funzionari della Bank of China di Milano, ma per comprendere le ragioni che hanno condotto magistrati e guardia di finanza a ipotizzare un loro coinvolgimento diretto è necessario ricostruire l’intera catena di passaggi di denaro: “Quando le somme sono consegnate a un money transfer il denaro non si sposta fisicamente all’estero”, spiega uno degli inquirenti, “ma lo si rende disponibile a chi lo ritirerà in un paese straniero attraverso un meccanismo di compensazione che passa tramite canali bancari. I soldi versati nelle sedi della Money 2 Money, quindi, erano poi raccolti da agenzie di portavalori e versati sui conti dell’agenzia, che a sua volta li versava sui conti Bank of China. Come ultimo anello, la banca effettuava poi materialmente la compensazione all’estero, e i beneficiari dei versamenti si ritrovavano il denaro sui loro conti correnti”.
L’accordo stretto tra Money 2 Money e i quattro funzionari della Bank of China per le operazioni di compensazione sarebbe perfettamente legale se i dipendenti della banca avessero vigilato sulla reale provenienza del denaro: “A nostro avviso i funzionari erano perfettamente in grado di rendersi conto che si trattava di operazioni unitarie mascherate da spacchettamenti”, conclude la fonte investigativa, “e quindi secondo la normativa antiriciclaggio erano sottoposti all’obbligo di segnalazione, cosa che non hanno mai fatto”.
Su 4,6 miliardi, più di due sono passati attraverso i canali della Bank of China
I file della reale contabilità della rete Money 2 Money sequestrati dagli investigatori mostrano che, su 4,6 miliardi, più di due sono passati attraverso i canali della Bank of China. Secondo la richiesta di rinvio a giudizio i funzionari della banca cinese avrebbero dunque omesso la vigilanza sulla provenienza del denaro e non avrebbero segnalato “rilevanti operazioni sospette o addirittura con tutta evidenza contrarie alla normativa di settore”, “rendendo possibile il trasferimento in Cina delle somme di denaro ricevute da Money 2 Money con modalità tali da occultarne la reale provenienza e destinazione”.
Una condotta che, si legge negli atti, avrebbe “agevolato e rafforzato l’organizzazione criminale” della Money 2 Money. In cambio, la filiale milanese della Bank of China avrebbe ottenuto da queste operazioni più di 750mila euro di “illecito profitto”. Indagini e intercettazioni dimostrerebbero anche una frequentazione assidua tra uno dei fratelli Cai e Yang Xuepeng, 55 anni, ex direttore della Bank of China, oggi irreperibile.
“Bank of China ha sempre operato nel rispetto della normativa italiana. In Italia, così come in Cina, vige il principio della presunzione di non colpevolezza degli indagati”, si legge in una nota con la quale la Bank of China ha risposto alle nostre domande, “di conseguenza il signor Yang e gli altri tre dipendenti non sono soggetti ad alcuna restrizione della libertà. Il signor Yang è tuttora un dipendente di Bank of China per cui presta la propria collaborazione in Cina, dove si è recato per motivi professionali prima che gli fosse notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e ancora prima che venisse a conoscenza di essere indagato”. La Bank of China comunica anche di non avere preso provvedimenti disciplinari perché i quattro dirigenti non possono essere considerati colpevoli fino alla sentenza definitiva, e si dichiara “disponibile a prestare la sua collaborazione alle autorità italiane”.
Intanto, sembra impossibile rintracciare anche due degli altri tre funzionari coinvolti nel caso, perlomeno agli indirizzi dichiarati alle forze dell’ordine dopo la fine delle indagini. L’ultimo domicilio conosciuto di Ye Jian Peng, responsabile ufficio rischi e audit della Bank of China fino al 2009, si trova in un palazzo in zona Isola a Milano, dove i vicini non lo vedono da mesi. “L’appartamento è passato di mano in mano a molti inquilini asiatici”, dice uno dei condomini, “ma non sappiamo dove si sia trasferito il signor Ye”. Invece, secondo il portiere e gli abitanti del palazzo in zona San Siro dove Cao Fan è residente, l’ex vicedirettore della Bank of China non ha mai vissuto lì.
La responsabile dell’ufficio business Ngai Fa Yu lavora ancora per la banca cinese a Milano e vive nel paese dell’hinterland indicato dagli atti, ma ha scelto di non rispondere ai giornalisti prima dell’avvio del processo.
“È come se, poco dopo le perquisizioni, una botola li avesse inghiottiti”, dice il manager di una società di consulenza italocinese. “I dirigenti della Bank of China si spostano molto”, ricorda una fonte bancaria con frequenti rapporti con la Cina, “ma in Italia negli ultimi anni abbiamo assistito a un turn over notevole”. Al momento, secondo una fonte diplomatica italiana, non risultano richieste rivolte dall’Italia alla Cina su nessuno dei quattro funzionari.
Cai Cheng Qiu, accusato di essere uno degli ideatori dello schema, è stato contattato prima tramite i suoi avvocati e poi telefonicamente, ma ha scelto di non rispondere alle domande sul caso Money 2 Money fino alla prima udienza del processo, che si terrà il prossimo marzo.
Questo sistema potrebbe costituire un continuo gioco di scambi di capitali occulti e merci non dichiarate tra Europa e Asia
Rimane l’incognita sulla destinazione finale di quei 4,6 miliardi di euro. “Abbiamo una pista investigativa. Conosciamo i conti correnti cinesi che ricevevano i flussi di denaro”, dice un inquirente, “e di gran parte di essi conosciamo anche gli intestatari. Si tratta perlopiù di società di export di materie prime o di semilavorati, che poi rispediscono i loro prodotti in Italia per la trasformazione e la rivendita in nero. Tutto lo schema costituiva anche la modalità principale per saldare i conti con i fornitori cinesi, che ovviamente non potevano essere pagati attraverso bonifici bancari”.
Attività illecite svolte in Italia che generano fondi neri spediti illegalmente in Cina per pagare fornitori, che a loro volta inviano materiali da assemblare e trattare in Italia: i 4,6 miliardi di euro, insomma, potrebbero ritornare sui mercati europei sotto forma di prodotti venduti a prezzi stracciati, realizzando un collaudato schema di dumping che forse è già stato replicato con altri attori, in altri paesi. Questo sistema potrebbe costituire un continuo gioco di scambi di capitali occulti e merci non dichiarate tra Europa e Asia, capace di stabilire una vera e propria economia sommersa tra i due continenti.

Nessun commento: