Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
04/12 •
«Carissimi,
vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta
diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un
po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato
livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di
Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il
grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il
nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il
curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina:
«Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato,
quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi»,
chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in
Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di
stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi?
«Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei
canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà
intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino
sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
La
“pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già
alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia
sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht
– proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore
del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”
(Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36
superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi
alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione
planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori
del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione
alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa,
attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma
(economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai
tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il
cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una
battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella
certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero
devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.
Era
un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog
“Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di
cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il
ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi.
Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno
ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del
dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di
Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un
certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità
della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande
svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in
considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che
vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia)
per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza
rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo
contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio,
giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla
squillante affermazione, in tutta Europa,
di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica
innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi,
studente modello, giudicava una follia.
«Nino
Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini
su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta
degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il
quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e
dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica
stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley,
tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro
Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In
seguito, Galloni ha insegnato economia
alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli
atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero
del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e
l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i
sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi
Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle
forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.
Galloni
punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta
separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al
servizio dell’economia
reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di
Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria
mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza
pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando
Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad
allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il
paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato.
Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano
raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini.
«Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e
quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue
conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare,
ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere,
anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei
consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».
«Questo
è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico
Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità,
«grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato
sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa
per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non
può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare
Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di
pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica,
sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è
rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli
altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che
una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe
una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica
nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni”
stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è
scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni,
col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare
una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa
una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La
proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di
elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo.
«Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino
Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni
non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del
tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto
anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il
grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”,
alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel
2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde
pubblico», come scrive “Linkiesta”.
La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il
volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto
d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il
posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della
Capitale». E Galloni?Articoli Recenti
Salva-banche, risparmiatori traditi e rovinati: oltre 2 miliardi
04/12 • segnalazioni •
Il
governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori.
Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo,
senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano
rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato
da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati
del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal
governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile
ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli
risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o
dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e
dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano
investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni
volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di
Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita.
All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta
niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a
Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.
Il
fulmine è caduto dalla Banca Etruria alla Banca Marche, dalla Cassa di
Risparmio di Chieti alla Cassa di Risparmio di Ferrara. «Dai posti
insomma in cui ci si fida», dove l’impiegato di banca «si trasforma in
una specie di consulente finanziario». Per la prima volta, in Italia,
spiega “Repubblica”, quattro banche (Carife, CariChieti, Banca Etruria e
Banca Marche) sono state “risolte” con un meccanismo che anticipa in
parte il bail-in (salvataggio interno) che entrerà in vigore dal 1°
gennaio prossimo e in parte ricorre al vecchio bail-out (salvataggio
esterno), già andato in scena durante la crisi
finanziaria, ma questa volta senza prevedere l’iniezione diretta di
soldi pubblici nel capitale delle banche in difficoltà. Il primo aspetto
è quello che coinvolge direttamente i risparmiatori. Nel decreto di
salvataggio si prevede che le azioni e le obbligazioni subordinate delle
“vecchie” banche siano interamente svalutate: «Sono diventati pezzi di
carta. E rappresentano quindi una perdita al 100% per chi le ha
sottoscritte». Moody’s parla di 2 miliardi di euro di azioni azzerate,
più 788 milioni di euro in “obbligazioni subordinate”. «Sono strumenti
che, in caso di difficoltà dell’emittente, prevedono il rimborso del
capitale solo “in subordine” rispetto ad altri titoli, cioè le
obbligazioni “senior”, che hanno un grado di protezione maggiore».
Il
problema che emerge dalle testimonianze raccolte, scrive sempre
“Repubblica”, è che ben pochi dei sottoscrittori di queste obbligazioni
erano a conoscenza del rischio al quale andavano incontro. Dopo che
azioni e obbligazioni hanno assorbito le perdite, i crediti in
sofferenza (cioè morosi) delle vecchie banche sono stati svalutati: da
8,5 miliardi, il loro valore è stato abbattuto a 1,5 miliardi (il 17%
circa del valore originario, un dato di gran lunga inferiore al valore
medio di copertura delle “sofferenze” in Italia). Sono poi stati
trasferiti in una bad bank, una “banca cattiva” che non ha la licenza
per l’attività tradizionale: è una scatola per le “sofferenze”, per
venderle a operatori specializzati, sperando di recuperare i denari in
gioco. Gli altri attivi delle vecchie banche, cioè le parti “buone”,
sono finiti in quattro nuove entità, dotate di un capitale necessario
per operare, in vista della loro cessione. Le risorse necessarie a
queste operazioni, circa 3,6 miliardi, sono arrivate dal sistema
bancario attraverso un Fondo di risoluzione, al quale torneranno i
proventi della vendita dei crediti in sofferenza e delle banche
risanate.
Per
questo, continua “Repubblica”, alcuni parlano ancora di bail-out,
salvataggio da fuori, ma senza soldi diretti dei contribuenti (come era
invece accaduto in alcuni paesi, durante la crisi, quando gli Stati avevano messo direttamente capitali nelle banche in crisi).
La Commissione Ue ha accertato comunque che ci sono aiuti di Stato, ma
in una misura tale da non generare una distorsione del mercato e quindi
ha dato il via libera all’operazione. Per di più, su una parte di quei
fondi (1,65 miliardi di finanziamento delle maggiori banche), c’è una
garanzia della Cdp che scatterà se il Fondo di risoluzione non sarà
capiente per rimborsare quella linea di credito, alla scadenza tra un
anno e mezzo. «La morale della vicenda è tirata da un report di Moody’s:
è la prima volta che gli obbligazionisti subordinati subiscono un
azzeramento del loro capitale, in queste proporzioni, per l’Italia».
Visto che molti investitori erano piccoli e privati, ciò potrà
accrescere la consapevolezza della rischiosità dei meccanismi di
risoluzione per gli obbligazionisti, irrigidendo ulteriormente la
vendita di bond attraverso la rete di filiali a vantaggio dei depositi,
maggiormente garantiti.
«Una
lezione amara, che in molti sperimentano sulla pelle. Senza
considerare, poi, che dal 2016 il meccanismo del “salvataggio interno”
si dispiegherà in tutta la sua forma, colpendo potenzialmente anche
altri soggetti interessati alla banca». Se domani una banca in
difficoltà non avrà un piano di risanamento ritenuto consono
dall’autorità, la ristrutturazione peserà fino all’8% delle passività
su, nell’ordine: azionisti, obbligazionisti “junior” (meno garantiti, i
subordinati già chiamati a pagare con le quattro banche in questione),
obbligazionisti “senior” e correntisti oltre i 100.000 euro. Se ancora
ciò non fosse sufficiente, interverrà il Fondo unico di risoluzione per
un ammontare fino al 5% della banca in crisi.
Cosa significa questo? Uno studio recentemente commissionato dal
Parlamento Europeo ha simulato cosa sarebbe accaduto se le regole del
bail-in fossero state valide durante la crisi
finanziaria tra il 2007 e il 2014. «Su un campione di 72 banche
salvate, che hanno totalizzato perdite per 313 miliardi, 153 miliardi
sarebbero stati assorbiti con i fondi propri e il coinvolgimento dei
creditori. Nei fatti, il bail-out andato in scena ha spalmato su tutti i
cittadini, attraverso l’intervento dello Stato che usa i soldi dell’erario, il costo degli errori di manager e stakeholder».
Il
reportage di “Repubblica” è un viaggio nel dolore e nella rabbia:
«Siamo le vittime di quel decreto», racconta Roberta Gaini, 50 anni,
toscana, impiegata in una ditta chimica: «Non riesco più a dormire da
giorni. Mi hanno preso i soldi che mi aveva lasciato mio padre, ho perso
62.000 euro in obbligazioni subordinate, 20.000 li ha persi mia madre e
diecimila mia sorella. Come la chiamiamo se non una truffa?». Rabbia,
sconforto e sospetti per migliaia di risparmiatori delle quattro banche
“salvate” dal governo con un conto che pagano – e salato – loro. Silvia
Trovò abita a Voghiera, in provincia di Ferrara, ha un’azienda agricola
che produce frutta e seminativi: «Dal venerdì alla domenica del 22
novembre per noi è cambiato tutto, abbiamo perso 26.000 euro in
obbligazioni subordinate e azioni della CariFerrara. Erano i soldi che
mio padre, anche lui agricoltore, ci aveva lasciato: non può capire il
dispiacere e la rabbia». Storie strazianti, come quella di Francesca, da
Civitavecchia: «Mio padre, correntista Banca Etruria da 40 anni,
invalido al 100% e cardiopatico cronico, aveva affidato i suoi risparmi
di una vita da operaio (40.000 euro) all’istituto di credito succitato,
in virtù di un rapporto di estrema fiducia».
Nessuno,
racconta Francesca, l’aveva avvisato dei rischi che correva con le
obbligazioni subordinate: «Lui era tranquillo, si fidava ciecamente del
dipendente che gliele aveva proposte, pur avendo un profilo di rischio
basso (secondo la Mifid). In un momento lui si è visto azzerare i suoi
risparmi, che gli servono per curarsi». E aggiunge: «Sono una dei tanti
disperati, una vittima della macelleria socio-umana di questo governo,
della gestione dissennata dei dirigenti di Banca Etruria. E non so come
comunicarlo a mio padre, perché potrebbe verificarsi un serio attentato
alla sua fragile salute, oltre al danno finanziario subito». E tutto
grazie a quel decreto, «emanato in un pomeriggio domenicale di novembre,
in sordina, artatamente pianificato», che ha ridotto sul lastrico
centomila o forse duecentomila risparmiatori italiani.
Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i
risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi
azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova
Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”,
che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e
Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche
varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la
macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati,
casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante
anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli
che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi,
cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella
roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno».
Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei
risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei
miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a
Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti
04/12 • idee •
Chissà
perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a
Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e
esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa,
l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone
normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass
media
italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha
rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a
ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché
in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto
sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le
lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha
rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di
lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che
entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra
si fa per conquistare potere
e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo
in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche.
Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono
essere astute e spietate.
Le
guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato
di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il
nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi.
Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la
professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al
110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani
laureati vanno a fare le polpette ai McDonald’s, naturalmente
nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che
serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono
minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un
ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la
bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di
adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro.
Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla
nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente
selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di
lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la
maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva
lamentato Berlusconi, non può essere che anche l’operaio voglia il
figlio dottore.
Le
controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad
adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro
fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e
prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che
accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno. Anche
sull’orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La
globalizzazione finanziaria, l’euro, le politiche di austerità hanno
progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro.
Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a
dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150
anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non
perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma
perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a
Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di
Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli Usa,
è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una
azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi
l’una, senza orario di lavoro e se non va bene via.
Il
New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema
di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell’Europa in cui, con l’austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti
del lavoro. Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del
mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno
inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente
nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene
mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E
soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.
(Giorgio Cremaschi, “Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti”, da “Micromega” del 30 novembre 2015).
Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak
a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e
esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa,
l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone
normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass
media
italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha
rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a
ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché
in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto
sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le
lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha
rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di
lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che
entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra
si fa per conquistare potere
e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo
in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche.
Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono
essere astute e spietate.
Nessun commento:
Posta un commento