L’Onu: Israele collabora con l’Isis. Vuole il petrolio del Golan
02/12 •
Un
colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un
dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto
al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la
società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel
Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa.
Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi
Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito
iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al
“Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe
«partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei
miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli
efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli
sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da
Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014
il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite
«largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come
l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti
dell’Isis.
La
missione Undof, cioè la forza di peacekeeping dell’Onu stanziata al
confini tra Israele e Siria presso le Alture del Golan dal 1974, ha
rivelato che «Israele ha collaborato strettamente con le forze
terroriste di opposizione siriane», incluso il fronte Al-Nusra
(Al-Qaeda) e lo Stato Islamico, «mantenendo stretti contatti negli
ultimi 18 mesi». In un servizio su “Journal-Neo” tradotto da “Come Don
Chisciotte”, Engdhal scrive che diventa sempre più chiaro che almeno una
fazione dell’amministrazione Obama ha “fabbricato” e usato l’Isis per
cacciare Assad e demolire la Siria, riducendola come la Libia. Sulla
lista nera, «i neocon che ruotano attorno all’ex direttore della Cia,
nonché boia della resistenza irachena, il generale David Petraeus», e il
generale John Allen, già inviato speciale di Obama per la coalizione
anti-Isis, nonché l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Il generale
Allen, sostenitore della “no-fly zone” tra Siria e Turchia (che Obama ha
respinto) è stato significativamente rimosso il 23 ottobre, dopo
l’avvio dei bombardamenti russi. Ma è altrettanto importante il ruolo di
Israele: «E’ ormai consolidato che il Likud di Netanyahu e le forze
armate israeliane lavorino a fianco ai guerrafondai neocon, così come lo
è l’opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu all’accordo di
Obama sul nucleare iraniano», scrive Engdhal.
«Israele
considera Hezbollah, il partito islamico sciita appoggiato dall’Iran,
con sede nel Libano, come il nemico principale». Alleato dell’Iran (e di
Hamas a Gaza), Hezbollah combatte a fianco all’esercito siriano contro
l’Isis in Siria. Fino a ieri, il Califfato ha potuto espandere il suo
controllo proprio grazie al generale Allen. E non solo: accanto all’Isis
c’era sempre anche Israele. «Almeno dal 2013 – continua Engdhal – le
forze armate israeliane hanno apertamente bombardato quelli che
ritenevano fossero gli obiettivi di Hezbollah in Siria. Un’indagine ha
infatti rivelato come Israele stesse colpendo le forze armate siriane e
alcuni obiettivi di Hezbollah che stavano efficacemente contrastando
l’Isis e altri gruppi terroristi. In questo modo Israele sta attualmente
aiutando di fatto l’Isis», così come i bombardamenti anti-Isis del
generale Allen, protratti per un anno. «Che una fazione del Pentagono
abbia lavorato in segreto per addestrare, armare e finanziare quella che
oggi chiamiamo Isis (o Is) in Siria, è oggi provato nero su bianco»,
spiega Engdhal. Nell’agosto del 2012, un documento del Pentagono
classificato come “segreto”, poi successivamente desecretato sotto la
pressione dell’Ong “Judicial Watch”, ha descritto con precisione la
nascita di quello che è diventato in seguito l’Isis, sorto dallo Stato
Islamico dell’Iraq, quindi affiliato ad Al-Qaeda.
Il
documento del Pentagono riportava che «c’è la possibilità di impiantare
un’entità statale salafita nella Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e
questo è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono
l’opposizione ad Assad, al fine di isolare il regime siriano,
considerato l’avamposto strategico dell’espansione sciita». Sul banco
degli imputati, insieme agli Usa,
anche il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita. E, dietro le quinte,
Israele. «La creazione di “un’entità salafita nella Siria orientale,”
oggi territorio dell’Isis, era nell’agenda di Petraeus, del generale
Allen e di altri al fine di distruggere Assad», prosegue Engdhal. «E’
questo che porta l’amministrazione Obama in stallo con la Russia, la
Cina e l’Iran, riguardo alla bizzarra richiesta Usa
di rimuovere Assad prima che venga distrutto l’Isis». Questo gioco,
continua l’analista, è oggi alla luce del sole. «E mostra al mondo la
doppiezza di Washington nell’appoggiare quelli che la Russia definisce
correttamente “terroristi moderati” contro un Assad regolarmente
eletto». E lo Stato ebraico? «Che Israele si trovi inoltre in mezzo alla
tana di ratti delle forze di opposizione terroristiche in Siria è stato
confermato nel recente rapporto dell’Onu. Ciò che il rapporto non
menzionava era invece il perché Israele avesse un interesse così forte
per la Siria, specialmente per le alture del Golan»
Già:
perché Israele vuole rimuovere Assad? I documenti Onu, di cui il
mainstream continua a non parlare, mostrano come le forze armate
israeliane abbiano tenuto contatti regolari con membri del cosiddetto
Stato Islamico fin dal maggio 2013. L’Idf, l’esercito israeliano, ha
dichiarato che simili contatti ci sono stati “solo per fornire cure
mediche a civili”, ma l’inganno «è stato svelato quando gli osservatori
dell’Undof hanno accertato contatti diretti tra forze dell’Idf e soldati
dell’Isis, fornendo anche assistenza medica a combattenti dello Stato
Islamico». Il rapporto delle Nazioni Unite identifica ciò che i siriani
hanno definito un “crocevia di movimenti di truppe tra l’Idf e l’Isis”,
argomento che l’Undof – 1.200 osservatori sul campo – ha portato davanti
al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A partire dal 2013 e
dall’escalation di attacchi israeliani contro la Siria lungo le Alture,
ufficialmente per ricercare “terroristi di Hezbollah”, la stessa Undof è
soggetta a massicci attacchi da parte dei terroristi dell’Isis e di
Al-Nusra. Si registrano anche rapimenti, omicidi, furti di materiale e
munizioni Onu, di veicoli e di altri beni, nonché il saccheggio e la
distruzione delle varie strutture.
Il
Golan – ricco di giaciementi di petrolio – pare sia l’obiettivo a cui
punta Netanyahu, che ha chiesto a Obama «di riconsiderare il fatto che
Israele ha illegalmente occupato una parte delle alture», a partire
dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi. Il 9
novembre Nethanyahu ha chiesto a Obama, apparentemente senza successo,
di appoggiare formalmente l’annessione israeliana delle Alture del Golan
illegalmente occupate, sostenendo che l’assenza di un governo siriano
funzionante “dà luogo a diverse valutazioni” riguardo al futuro di
quell’area così strategicamente importante. «Certamente – aggiunge
Engdhal – Netanyahu non ha dato nessuna spiegazione plausibile sul fatto
che le forze israeliane, assieme ad altre, sono state responsabili
dell’assenza di un governo siriano funzionante a causa del loro supporto
all’Isis ed al fronte qaedista Al-Nusra». Quando l’Undof ha iniziato a
documentare nel 2013 i contatti sempre più frequenti tra l’esercito di
Israele da una parte e l’Isis ed Al-Qaeda dall’altra lungo le Alture del
Golan, la Genie Energy, una semi-sconosciuta compagnia petrolifera di
Newark, nel New Jersey, assieme ad una sua controllata isreliana, la
Afek Oil e Gas, iniziò a muoversi nelle Alture per delle esplorazioni
petrolifere, col permesso del governo Netanyahu.
Quello
stesso anno, continua Engdhal, gli ingegneri dell’esercito di Israele
sostituirono la recinzione di confine con la Siria, rimpiazzandola con
una barriera dotata di filo spinato, sensori, radar e telecamere a
infrarossi, come quelle del muro costruito da Israele lungo la West Bank
palestinese. Yuval Bartov, geologo capo della controllata israeliana
della Genie Energy, l’Afek Oil e Gas, ha annunciato alla Tv israeliana
“Channel 2” che la sua compagnia ha scoperto un consistente giacimento
petrolifero sulle Alture del Golan, profondo 350 metri: «A livello
mondiale, i giacimenti hanno in media
lo spessore di 20 o 30 metri, mentre questo è 10 volte più spesso», ha
dichiarato Bartov. «Parliamo quindi di una quantità rilevante».
Attenzione: nel vertice della Genie Energy siedono personaggi come Dick
Cheney, ex vicepresidente Usa,
e James Woosley, già direttore della Cia e famigerato neo-con. Con loro
anche altre personalità di spicco, come quella di Lord Jacob
Rothschild. «Nessuna persona sana di mente suggerirebbe che vi sia un
legame tra i rapporti dell’esercito di Israele con l’Isis ed altri
terroristi anti-Assad in Siria, specialmente lungo le alture del Golan, e
la scoperta dei giacimenti da parte della Genie Energy nello stesso
posto, o con i recenti appelli di Netanyahu al “ripensamento” sulle
Alture del Golan ad Obama», conclude Engdhal. «Questo suonerebbe troppo
simile ad una “teoria della cospirazione”, mentre tutte le persone
ragionevoli sanno bene che non esistono cospirazioni ma solo
coincidenze».
Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e
un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel
supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano,
dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha
scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora
sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa.
Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi
Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito
iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al
“Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe
«partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei
miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli
efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli
sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da
Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014
il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite
«largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come
l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti
dell’Isis.Articoli Recenti
Giulietto Chiesa: perché Erdogan non avrà quello che voleva
02/12 • idee •
L’obiettivo
primario di Erdoğan è stato, ed è, quello di abbattere Bashar al-Assad.
Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma
anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di
compiacere i neo-con americani (che sono alleati di Israele e, quindi,
puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della
Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza
di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non
dimenticare il “presidential order” con cui Obama, in fotocopia con
l’analogo “order” che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi,
affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per
gli interessi americani nell’area. Erdoğan sa di essere nella Nato con
lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di
costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di
tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico
paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del
petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq. Quale avrebbe
potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli importava molto.
In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad avrebbe
coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro degli
alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe
stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma
una ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia.
A
quel punto ci sarebbe stato solo il problema di tenere a bada gli
agenti occidentali di Al Nusra / Al Qaeda. E di competere con Israele
nella conquista dei territori rimasti. In primo luogo nel dare un colpo
cruciale a Hezbollah e nel prendere il Libano sotto controllo. Erdoğan
non è uno sciocco. Sapeva che, nei suoi calcoli, sarebbe entrato anche
un altro problema. Quello dei curdi. Il suo secondo obiettivo, parallelo
al primo, era quello di impedire la creazione di uno Stato curdo. La
distruzione dello Stato siriano avrebbe aperto infatti, come non mai
prima d’ora, una tale prospettiva. Per cui, quando – a luglio di
quest’anno – decise di entrare apertamente in guerra in Siria con la sua
aviazione, spiegò a Obama che lo faceva per combattere lo Stato
Islamico. In realtà la mossa gli servì per andare a bombardare i kurdi
turchi del Pkk (che avevano rispettato la tregua con il governo curdo
negli ultimi quattro anni) e per annichilire i kurdi di Siria (quelli
che puntano alla creazione dello Stato curdo, una prima parte, in attesa
delle altre) su un pezzo del territorio siriano a ridosso della
Turchia. Ma questo stato kurdo di Siria già esiste in embrione. Si
chiama Royava ed è stato costruito, pezzo per pezzo, anche con l’aiuto
americano, lungo il confine turco.
Washington
ha contribuito all’operazione perché serviva a smantellare lo Stato
siriano, un pezzo per volta. I kurdi siriani, del resto, erano e sono
l’unica forza sul campo che agiva simultaneamente contro Assad e contro
lo Stato Islamico. E, su questo unico punto, gli interessi di Ankara e
quelli di Washington non coincidevano. Poi la Russia è arrivata a
guastare il brodo. Putin si è mosso in modo molto pragmatico. Non
soltanto per preservare il regime di Damasco, ma per difendere i propri
interessi strategici (dare a tutto il Medio Oriente il segnale che la
Russia è di nuovo interamente in campo) e anche quelli nazionali
(colpire e sradicare sul nascere l’estremismo islamico di origine russa o
dei territori ex sovietici). La Russia ha messo in atto una strategia a
largo raggio, i cui effetti sarebbero stati tutti negativi per i piani
turchi. Obiettivo: impedire il crollo dello Stato siriano e portare
Assad al tavolo negoziale per una soluzione futura dopo un cessate il
fuoco. Liquidare definitivamente lo Stato Islamico, senza mettere un
solo piede russo a terra in Siria. A quel punto i curdi siriani
sarebbero un ottimo interlocutore per una pace duratura. In cambio
verrebbe data loro quella parte del territorio siriano che si sono
guadagnata. Certo, questa parte del ragionamento russo non piacerà ad
Assad, ma questi avrà avuto salva la vita e il potere, e potrà accontentarsi.
Erdoğan,
da quasi vincitore, si trova ora nella posizione di chi ha quasi
perduto tutto (salvo i soldi del petrolio trafugato). E nessuno dei suoi
alleati ha potuto impedire che avvenisse. Ha pensato che poteva
rilanciare, come in una partita a poker, abbattendo il Sukhoi russo e
trascinando la Nato ad uno scontro con la Russia. Il fatto è che Putin
non sta giocando a poker, ma a scacchi. E “punire” la Russia non è
faccenda tanto semplice. Adesso dovrà pagare un prezzo economico molto
alto (perché Putin ha di fatto chiuso le frontiere al turismo russo e ai
lavoratori turchi e ai capitali turchi in Russia). E un prezzo politico
non meno alto. Perfino molti alleati della Nato hanno capito di avere a
che fare con un tipo poco affidabile. Erdoğan sarà piaciuto a Varsavia e
a Tallinn, Riga e Vilnius, ma certamente non è piaciuto a Parigi e a
Berlino.
(Giulietto Chiesa, “Erdoğan, cosa vuole – e perché non lo avrà”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 novembre 2015).
L’obiettivo primario di Erdoğan è stato, ed è, quello di abbattere
Bashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo
islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge
il calcolo tattico di compiacere i neo-con americani (che sono alleati
di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale
alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo
spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia
Saudita e Qatar. Da non dimenticare il “presidential order” con cui
Obama, in fotocopia con l’analogo “order” che costituiva la
dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di
Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area.
Erdoğan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli
interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di
Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a
questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto
proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in
Siria e Iraq. Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo
Assad non gli importava molto. In primo luogo perché, con ogni
probabilità, la caduta di Assad avrebbe coinciso con il crollo dello
Stato siriano, con il massacro degli alauiti-sciiti, e lo smembramento
del suo territorio. Cosa che sarebbe stata oltremodo gradita anche a
Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una ripetizione (ma in grande)
della demolizione della Libia.L’Ue in malafede, usa il terrore per suicidare la democrazia
01/12 • idee •
La
terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti,
ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno
rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa
fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la
guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello
Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il
mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta
intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in
Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il
risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo
nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani
in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di
Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo
islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti
aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è
alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.
Per
mettere le mani avanti, tutti i governanti europei ora parlano di una
guerra lunga. Lunga quanto, visto che dura dal 1990? È la guerra dei
cento anni a cui dobbiamo attrezzarci? L’Unione Europea ha deciso di
togliere dai vincoli dell’austerità di bilancio le spese aggiuntive per
la guerra, ipocritamente mascherate come spese di difesa. Questa misura è
stata presa quasi in contemporanea con la decisione del Parlamento
greco di approvare 48 tagli draconiani a quel poco che in quel paese
ancora resta dello stato sociale. In Grecia si chiuderanno ospedali e
verranno pignorate le case dei poveri che non possono pagare i debiti.
Questo in ottemperanza al memorandum della Troika accettato da Tsipras.
Se però il governo greco decidesse di comprare dei droni per colpire il
terrorismo, allora potrebbe non tenere conto dei vincoli di bilancio
imposti. Quale modello di società è quello dove è virtuoso spendere in
deficit per le armi e vizioso farlo per scuole o ospedali? Sono questi i
valori che i governanti proclamano di voler difendere con la guerra?
La guerra ha così trovato un naturale alleato nella politica di austerità, anche perché entrambe sono inconcludenti allo stesso modo. Da quanti anni si colpiscono l’occupazione, i diritti, i servizi sociali e i beni comuni con lo scopo dichiarato di sconfiggere la crisi? E da quanto lo si fa nel nome dell’Europa?
Anche l’austerità, come la guerra, non solo non produce risultati
contro il nemico che dichiara di voler combattere, ma anzi lo rafforza. E
anche in questo caso, di fronte alla scarsità di risultati, i
governanti spiegano che dobbiamo comunque abituarci a tempi lunghi.
Secondo l’Ocse ci possono volere altri 20 anni per tornare ai livelli di
sviluppo pre-crisi. Come dire che non ci torneremo mai, o che assieme alla guerra avremo anche la crisi
dei cento anni. Possibile allora che i nostri governanti siano tutti
stupidi e incompetenti e non sappiano trarre conclusioni e bilanci da
ciò che fanno? No, non lo credo; da qui la mia convinzione sul peso
sempre maggiore che ha la malafede nei sistemi di governo.
Quando
parlo di malafede non voglio affatto sostenere teorie complottiste. In
una recente trasmissione televisiva, Edward Luttwak ha rivendicato che
finanziare ed armare il fondamentalismo islamico sia stato comunque un
buon affare, per l’Occidente, perché è servito a far crollare l’Unione
Sovietica. E, aggiungo io, è un buon affare anche oggi per la politica
coloniale di Israele nei confronti del popolo palestinese. Tuttavia,
anche se è sicuro che il terrorismo islamista sia stato all’inizio
sostenuto dall’Occidente, dagli Usa
alla Francia, questo non vuole dire che oggi ne sia ancora un
burattino. No, è evidente che il terrorismo sunnita è dilagato per forza
propria, oltre che per il continuo appoggio da Stati, Arabia Saudita in
testa, che l’Occidente considera e arma come propri indispensabili
alleati. Il terrorismo sunnita ha raccolto la carica di violenza
sprigionata dalla guerra in Irak, abbiamo dimenticato il massacro al
fosforo bianco di Falluja? La guerra è poi diventata guerra di religione
tra sunniti e sciiti, mentre la Turchia, membro autorevole della Nato,
combatteva prima di tutto il solo popolo della regione organizzato su
basi laiche, i curdi.
In
questo contesto, tutti gli interventi armati occidentali non han fatto
altro che gettare benzina sul fuoco, fino a cancellare le stesse entità
statali in Somalia e in Libia. Il fatto che ora al posto degli Stati
Uniti compaia ora la Russia di Putin non cambia la sostanza. Infine è
bene ricordare che il terrorismo esploso in Europa
nasce prima di tutto nelle banlieue delle grandi città europee, tutti
gli autori delle ultime stragi sono cittadini francesi, belgi,
britannici. La malafede dei governanti non sta dunque in qualche oscuro
complotto, ma nel sapere perfettamente che la guerra, così come
l’austerità, sono risposte sbagliate a ciò che si dichiara di voler
affrontare e sconfiggere. Sono risposte sbagliate e fallimentari, ma
sono le sole che si continuano a dare perché sceglierne altre vorrebbe
dire ammettere troppi errori e soprattutto mettere in discussione troppi
affari, troppi interessi, troppo potere.
L’Occidente
dovrebbe ritirare le sue truppe sparse per il mondo, smetterla di
armare gli alleati di oggi che diverranno i nemici di domani, e magari
investire molto di più nella propria sicurezza interna. Gli Stati
europei dovrebbero ribaltare la vergognosa licenza concessa dalla Ue e
investire in deficit su lavoro e stato sociale, tagliando invece
l’industria delle armi sulla quale in questi giorni si riversano gli
acquisti in Borsa. E soprattutto si dovrebbe rispondere al terrorismo
con più democrazia e non con le leggi speciali. Solo con la pace, la democrazia
e l’eguaglianza sociale si può sconfiggere il terrorismo, ma i
governanti europei preferiscono ingannare i propri popoli trascinandoli
in una escalation di guerra e autoritarismo di cui non si vede la fine.
Hollande ha fatto proprio il Patriot Act con il quale Bush jr reagì
all’11 Settembre, e ora il paese simbolo della democrazia
europea si prepara a mettere in Costituzione quello stato di emergenza
che ha un solo precedente nella storia europea. Parlo della Germania di
Weimar, dove proprio l’uso continuo di quello strumento da parte di
governi formalmente democratici aprì la via istituzionale a Hitler.
Quello vero, non quelli che da 25 anni pare sorgano ogni 6 mesi sui
fronti delle varie guerre.
D’altra parte è tutta la costruzione europea che respinge la democrazia,
come ci ha ricordato Luciano Gallino nel suo ultimo libro. I parlamenti
non son da tempo più sovrani, le politiche economiche le decidono
Bruxelles e la Germania. Ora abbiamo scoperto che nel Trattato di
Lisbona l’articolo 42.7 obbliga alla solidarietà armata nella Unione.
Nel 1915 l’Italia fu trascinata in guerra dal colpo di Stato del Re,
oggi il sovrano sta a Bruxelles e può portarci in guerra saltando le
nostre istituzioni e la nostra Costituzione. Leggi speciali, austerità,
spese di guerra, è così che l’Unione Europea oggi intende procedere. Se
non fermiamo questa follia in malafede il rischio è che alla fine un’Europa democratica non ci sia più, mentre il terrorismo sia ancora più feroce e diffuso.
(Giorgio Cremaschi, “Guerra e austerità, risposte sbagliate e in malafede”, da “Micromega” del 19 novembre 2015).
La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di
innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che
stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento
anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì
con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di
quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale.
Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia,
sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in
Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il
risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo
nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani
in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di
Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo
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aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è
alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.
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