mercoledì 22 febbraio 2012

UNA VITA APPARENTE di G.Tirelli


UNA VITA APPARENTE di G.Tirelli
Don Beppe del Grillo, sacerdote di un piccolo borgo dell’alto Pollino al confine con la Lucania, mi chiamò la sera di un venerdì per dirmi che aveva recuperato quel film francese degli anni ’50. “Grande” – risposi, e accettai immediatamente l’invito a trascorrere il fine settimana da lui.
Sarei partito all’istante ma preferii rimandare il viaggio, alla mattina del sabato e godermi in tutta tranquillità un paesaggio unico, una natura incontaminata fatta di torrenti, boschi e foreste, prati fioriti e quella meravigliosa strada sterrata irta e scoscesa che, per cinque chilometri, si inerpicava decisa e disinvolta, surclassando le ultime asperità del Monte Stella fino a sfociare vittoriosa nella cortese piazza barocca, agorà di quel piccolo universo incantato. Vidi Don Beppe seduto sulla sponda della fontana dei tritoni al centro della piazza, intento a raccontarsela con il poeta Raffaele Talarico. Riconobbe la Jeep e mi corse incontro con il suo sorriso illuminante e lo stupore innocente di un bambino spiazzato da un gioco di magia.  “Ciao amore mio” – mi sussurrò abbracciandomi con il vigore e l’affetto di un padre. “Vieni, vieni, andiamo, come sono felice, troppo felice; la mamma ha cucinato per te cose speciali”.
In quel momento le campane della chiesa di San Marziale rintoccavano il mezzogiorno e l’atmosfera di quell’istante mi catapultò dentro un tempo lontano, infinito, arcaico dove solo i garriti delle rondini esaltavano il silenzio e la pace di un mondo ormai perduto per sempre. La casa di Don Beppe era sobria e luminosa, con un grande terrazzo a semicerchio esposto a sud. Piante di ogni genere, fiori profumati e gelsomini rampicanti lo incorniciavano come una ghirlanda, proiettandolo dentro a un sogno a metà fra il cielo azzurro e le fitte cime degli alberi. L’amore e la cura di donna Celestina avevano nel tempo compiuto un tale miracolo di bellezza.  “Tutti a tavola” – annunciò come un ordine Celestina, con voce garula e carica di soddisfazione, e ci accomodammo intorno al piccolo tavolo di legno posto al centro del terrazzo. Io strappai entrambe le due bottiglie di rosso che avevo portato con me e lo versai. Brindammo e lo sorseggiammo mentre attendevo il giudizio severo di Beppe. “E’ fantastico” gridò “alla salute, alla salute” e tutti bevemmo. 
L’aria pura di quel posto aveva scatenato la mia fame e mi avventai su quel piatto di tagliatelle al tartufo bianco con la voracità di un mastino a digiuno. In seguito fu la volta dell’anatra ai mirtilli, dei piccioni di neve, erbette selvatiche saltate in padella, crocchette di patate con sugo di capra in erba cipollina, e affettati e dolci di ricotta - e poi la frutta, il caffè d’orzo e menta e la grappa di fragole di bosco, il nocino e poi l’assenzio.  Don Beppe accese un toscano e io mi rollai una sigaretta: “ Vieni” mi intimò, e scendemmo di sotto in una grande cantina che aveva trasformata in sala da cinema, e dove ogni volta trascorrevamo buona parte del nostro tempo a guardare vecchie pellicole di film introvabili, di autori per lo più sconosciuti al grande pubblico, ma veri geni della cinematografia mondiale.
Mi accomodai su una poltroncina di velluto rosso e Beppe, dopo aver dato buio alla stanza, fece partire il suo mitico proiettore a 35 mm. Poi, dopo essersi seduto dietro di me, a bassa voce mi disse: “ Ti sorprenderà, come la vita e come la morte!" Tacqui e mi concentrai sulla proiezione.
Il film trattava la storia di una giovane donna al servizio di un alto prelato in pensione ridotta in schiavitù, torturata e stuprata. Murata all’interno di una piccola grotta non più alta di un metro e cinquanta, trascorreva le sue ore tra angoscia e stati di delirio, certo che da un momento all’altro la bestia sarebbe entrata da quella porta di ferro infierendo con inaudita violenza sul suo giovane corpo e sulla sua mente. Quel mattino, il prelato, indisposto per vie di alcune fitte alla bocca dello stomaco, rinunciò al suo rituale satanico e si sistemò sul divano del salotto certo che un po’ di riposo avrebbe alleviato il fastidioso disturbo. Dopo alcuni minuti le urla laceranti della giovane donna che provenivano dalla grotta, turbarono il sonno del prelato che, in preda all’isteria decise di scendere di sotto per risolvere la questione a modo suo. Aprì la porta di ferro e con la ferocia di un invasato, si avventò sull’agnello sacrificale. Poi, mentre si calava i pantaloni per attuare lo stupro, un dolore lancinante gli trafisse il petto e si accasciò al suolo “come corpo morto cade”. 
La giovane donna, dopo una breve titubanza, corse su per le scale e si precipitò fuori da quella casa, correndo fino al centro della piazza del paese – si fermò per un attimo come se un pensiero terribile avesse bloccato ogni altro pensiero. Poi i suoi occhi si diressero verso l’estremità dell’alto campanile della chiesa maggiore e lentamente, con l’evidente determinazione di chi accetta il suo destino, avanzò fin dentro la chiesa. Nella grande navata, satura di fedeli, risuonavano i canti liturgici di quella domenica di pasqua e, come le raffiche di una tempesta di maestrale, sferzavano le membra della giovane donna, acuendo il suo martirio dentro un dolore senza tempo e spazio. Lucida nel suo progetto, vestita di stracci, di tumefazioni e di ferite, si mescolò a quella folla, con la fierezza di chi non ha esitazione di portare a termine (a compimento) il proprio dovere. La gente incredula la osservava sgomenta e presto, tutti smisero di cantare. Un silenzio tombale sovrastò ogni cosa, e un raggio di sole, filtrando da un’alta bifora, illuminò il viso della donna. In quell’atmosfera irreale, ogni fondamento cristiano, ogni valore, ogni sentimento umano, si dissolvevano come fumo nel vento per consacrare ancora una volta, l’ottusità degli uomini, l’ingiustizia, la vanità e la loro crudeltà.
La giovane, si diresse verso l’ingresso al campanile e un gradino dopo l’altro raggiunse la sua estremità - sedutasi poi sul bordo estremo del davanzale di pietra, guardò per un attimo l’orizzonte e mentre il sole spariva dietro la collina, si lasciò cadere nel vuoto. 
A questo punto Don Beppe si alzò e, mentre la donna era sul punto di sfracellarsi al suolo, bloccò la proiezione lasciando sullo schermo un fotogramma della caduta. Poi, mi si avvicinò e con voce lievemente commossa aggiunse: “Vedi quella ragazza sospesa nell’aria, tra la vita e la morte? “Quella donna – disse – è Eluana Englaro”.
Rimasi in silenzio per alcuni secondi cercando di decifrare quella sua inaspettata affermazione che mi aveva totalmente spiazzato, e lo invitai a continuare. 
“A nessuno – disse - è permesso di profanare, manipolare o interrompere il corso naturale degli eventi intrappolando meccanicamente la vita delle persone dentro una fase di stallo, relegando la coscienza fra le nebbie di un limbo gelatinoso e stravolgendone quei fondamenti inscindibili che regolano e decidono la nostra esistenza - questa sospensione indotta fra la vita e la morte, è l’estremo atto di crudeltà e di lancinante tortura prodotto da una visione contraffatta delle cose che colloca l’uomo al vertice di ogni decisione, e dove ogni sua scelta prescinde da ogni controindicazione, ed effetto collaterale di sorta. Una visione demoniaca della realtà, meccanicistica, strettamente legata alla spinta distruttiva della *necrofilia” – Non c’è nulla di cristiano in tutto questo pensai, io, che affascinato da quelle parole volevo coglierne il loro significato più profondo . 
“E’ l’illusione del mito della ragione – proseguì don Beppe – una ragione però subordinata al profitto e alla sete di potere, caratterizzata da quel protagonismo narcisista e paranoide che esclude a priori ogni elemento di ordine morale, deontologico e di ragionevolezza, e accredita la validità e funzionalità delle proprie scoperte limitandosi all’effimero risultato del momento, noncurante di tutti i danni postumi e traumi psicologici innescati dalla loro macabra operatività - dobbiamo assolutamente capire, che la condizione di Eluana e di molte altre persone nel suo stato, è la stessa della giovane donna sospesa a mezz’aria in quel fotogramma. Una circostanza permeata di tormento e di follia, dove ogni sentimento ed emozione (rabbia, speranze, desideri e dolore, luci e ombre) si alternano schizofrenici nel turbinio di un delirio a cui solo la morte può chiudere la bocca”.
Fra i vari diritti dell’uomo – disse con un tono perentorio - uno in particolare è sempre più disatteso. E’ il diritto alla morte. E chi impedisce un tale diritto, è un assassino.
Quindi, fece ripartire la proiezione e la povera donna, ultimando il suo volo, si schiantò al suolo.
Gianni Tirelli

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