UNA VITA
APPARENTE di G.Tirelli
Don Beppe del
Grillo, sacerdote di un piccolo borgo dell’alto Pollino al confine con la
Lucania, mi chiamò la sera di un venerdì per dirmi che aveva recuperato quel
film francese degli anni ’50. “Grande” – risposi, e accettai immediatamente
l’invito a trascorrere il fine settimana da lui.
Sarei partito
all’istante ma preferii rimandare il viaggio, alla mattina del sabato e godermi
in tutta tranquillità un paesaggio unico, una natura incontaminata fatta di
torrenti, boschi e foreste, prati fioriti e quella meravigliosa strada sterrata
irta e scoscesa che, per cinque chilometri, si inerpicava decisa e disinvolta,
surclassando le ultime asperità del Monte Stella fino a sfociare vittoriosa
nella cortese piazza barocca, agorà di quel piccolo universo incantato. Vidi
Don Beppe seduto sulla sponda della fontana dei tritoni al centro della piazza,
intento a raccontarsela con il poeta Raffaele Talarico. Riconobbe la Jeep e mi
corse incontro con il suo sorriso illuminante e lo stupore innocente di un
bambino spiazzato da un gioco di magia.
“Ciao amore mio” – mi sussurrò abbracciandomi con il vigore e l’affetto
di un padre. “Vieni, vieni, andiamo, come sono felice, troppo felice; la mamma
ha cucinato per te cose speciali”.
In quel
momento le campane della chiesa di San Marziale rintoccavano il mezzogiorno e
l’atmosfera di quell’istante mi catapultò dentro un tempo lontano, infinito,
arcaico dove solo i garriti delle rondini esaltavano il silenzio e la pace di
un mondo ormai perduto per sempre. La casa di Don Beppe era sobria e luminosa,
con un grande terrazzo a semicerchio esposto a sud. Piante di ogni genere,
fiori profumati e gelsomini rampicanti lo incorniciavano come una ghirlanda,
proiettandolo dentro a un sogno a metà fra il cielo azzurro e le fitte cime
degli alberi. L’amore e la cura di donna Celestina avevano nel tempo compiuto
un tale miracolo di bellezza.
“Tutti a tavola” – annunciò come un ordine Celestina, con voce garula e
carica di soddisfazione, e ci accomodammo intorno al piccolo tavolo di legno
posto al centro del terrazzo. Io strappai entrambe le due bottiglie di rosso
che avevo portato con me e lo versai. Brindammo e lo sorseggiammo mentre
attendevo il giudizio severo di Beppe. “E’ fantastico” gridò “alla salute, alla
salute” e tutti bevemmo.
L’aria pura di
quel posto aveva scatenato la mia fame e mi avventai su quel piatto di
tagliatelle al tartufo bianco con la voracità di un mastino a digiuno. In
seguito fu la volta dell’anatra ai mirtilli, dei piccioni di neve, erbette
selvatiche saltate in padella, crocchette di patate con sugo di capra in erba
cipollina, e affettati e dolci di ricotta - e poi la frutta, il caffè d’orzo e
menta e la grappa di fragole di bosco, il nocino e poi l’assenzio. Don Beppe accese un toscano e io mi rollai
una sigaretta: “ Vieni” mi intimò, e scendemmo di sotto in una grande cantina
che aveva trasformata in sala da cinema, e dove ogni volta trascorrevamo buona
parte del nostro tempo a guardare vecchie pellicole di film introvabili, di
autori per lo più sconosciuti al grande pubblico, ma veri geni della
cinematografia mondiale.
Mi accomodai
su una poltroncina di velluto rosso e Beppe, dopo aver dato buio alla stanza,
fece partire il suo mitico proiettore a 35 mm. Poi, dopo essersi seduto dietro
di me, a bassa voce mi disse: “ Ti sorprenderà, come la vita e come la morte!"
Tacqui e mi concentrai sulla proiezione.
Il film
trattava la storia di una giovane donna al servizio di un alto prelato in
pensione ridotta in schiavitù, torturata e stuprata. Murata all’interno di una
piccola grotta non più alta di un metro e cinquanta, trascorreva le sue ore tra
angoscia e stati di delirio, certo che da un momento all’altro la bestia
sarebbe entrata da quella porta di ferro infierendo con inaudita violenza sul
suo giovane corpo e sulla sua mente. Quel mattino, il prelato, indisposto per
vie di alcune fitte alla bocca dello stomaco, rinunciò al suo rituale satanico
e si sistemò sul divano del salotto certo che un po’ di riposo avrebbe alleviato
il fastidioso disturbo. Dopo alcuni minuti le urla laceranti della giovane
donna che provenivano dalla grotta, turbarono il sonno del prelato che, in
preda all’isteria decise di scendere di sotto per risolvere la questione a modo
suo. Aprì la porta di ferro e con la ferocia di un invasato, si avventò
sull’agnello sacrificale. Poi, mentre si calava i pantaloni per attuare lo
stupro, un dolore lancinante gli trafisse il petto e si accasciò al suolo “come
corpo morto cade”.
La giovane
donna, dopo una breve titubanza, corse su per le scale e si precipitò fuori da
quella casa, correndo fino al centro della piazza del paese – si fermò per un
attimo come se un pensiero terribile avesse bloccato ogni altro pensiero. Poi i
suoi occhi si diressero verso l’estremità dell’alto campanile della chiesa
maggiore e lentamente, con l’evidente determinazione di chi accetta il suo
destino, avanzò fin dentro la chiesa. Nella grande navata, satura di fedeli,
risuonavano i canti liturgici di quella domenica di pasqua e, come le raffiche
di una tempesta di maestrale, sferzavano le membra della giovane donna, acuendo
il suo martirio dentro un dolore senza tempo e spazio. Lucida nel suo progetto,
vestita di stracci, di tumefazioni e di ferite, si mescolò a quella folla, con
la fierezza di chi non ha esitazione di portare a termine (a compimento) il
proprio dovere. La gente incredula la osservava sgomenta e presto, tutti
smisero di cantare. Un silenzio tombale sovrastò ogni cosa, e un raggio di
sole, filtrando da un’alta bifora, illuminò il viso della donna. In quell’atmosfera
irreale, ogni fondamento cristiano, ogni valore, ogni sentimento umano, si
dissolvevano come fumo nel vento per consacrare ancora una volta, l’ottusità
degli uomini, l’ingiustizia, la vanità e la loro crudeltà.
La giovane, si
diresse verso l’ingresso al campanile e un gradino dopo l’altro raggiunse la
sua estremità - sedutasi poi sul bordo estremo del davanzale di pietra, guardò
per un attimo l’orizzonte e mentre il sole spariva dietro la collina, si lasciò
cadere nel vuoto.
A questo punto
Don Beppe si alzò e, mentre la donna era sul punto di sfracellarsi al suolo,
bloccò la proiezione lasciando sullo schermo un fotogramma della caduta. Poi,
mi si avvicinò e con voce lievemente commossa aggiunse: “Vedi quella ragazza
sospesa nell’aria, tra la vita e la morte? “Quella donna – disse – è Eluana
Englaro”.
Rimasi in
silenzio per alcuni secondi cercando di decifrare quella sua inaspettata
affermazione che mi aveva totalmente spiazzato, e lo invitai a continuare.
“A nessuno –
disse - è permesso di profanare, manipolare o interrompere il corso naturale
degli eventi intrappolando meccanicamente la vita delle persone dentro una fase
di stallo, relegando la coscienza fra le nebbie di un limbo gelatinoso e
stravolgendone quei fondamenti inscindibili che regolano e decidono la nostra
esistenza - questa sospensione indotta fra la vita e la morte, è l’estremo atto
di crudeltà e di lancinante tortura prodotto da una visione contraffatta delle
cose che colloca l’uomo al vertice di ogni decisione, e dove ogni sua scelta
prescinde da ogni controindicazione, ed effetto collaterale di sorta. Una
visione demoniaca della realtà, meccanicistica, strettamente legata alla spinta
distruttiva della *necrofilia” – Non c’è nulla di cristiano in tutto questo
pensai, io, che affascinato da quelle parole volevo coglierne il loro
significato più profondo .
“E’
l’illusione del mito della ragione – proseguì don Beppe – una ragione però
subordinata al profitto e alla sete di potere, caratterizzata da quel
protagonismo narcisista e paranoide che esclude a priori ogni elemento di
ordine morale, deontologico e di ragionevolezza, e accredita la validità e
funzionalità delle proprie scoperte limitandosi all’effimero risultato del
momento, noncurante di tutti i danni postumi e traumi psicologici innescati
dalla loro macabra operatività - dobbiamo assolutamente capire, che la
condizione di Eluana e di molte altre persone nel suo stato, è la stessa della
giovane donna sospesa a mezz’aria in quel fotogramma. Una circostanza permeata
di tormento e di follia, dove ogni sentimento ed emozione (rabbia, speranze,
desideri e dolore, luci e ombre) si alternano schizofrenici nel turbinio di un
delirio a cui solo la morte può chiudere la bocca”.
Fra i vari
diritti dell’uomo – disse con un tono perentorio - uno in particolare è sempre
più disatteso. E’ il diritto alla morte. E chi impedisce un tale diritto, è un
assassino.
Quindi, fece
ripartire la proiezione e la povera donna, ultimando il suo volo, si schiantò
al suolo.
Gianni Tirelli
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