IDEARIO DE REVOLUCIÓN HUMANISTA
Que enseña a soñar o, lo que es lo mismo, a luchar...
No Struggle No Development
"Ora, molte persone si sono irritate perché abbiamo detto che l'integrazione era irrilevante quando iniziata dai neri, e che in effetti era un sotterfugio, un insidioso sotterfugio per il mantenimento della supremazia bianca.
Adesso noi diciamo che negli ultimi sei anni questo paese si è nutrito con una talidomide dell'integrazione, e che alcuni negri hanno camminato lungo una strada di sogni parlando di sedersi accanto ai bianchi; e che questo non ha iniziato a risolvere il problema; che quando siamo andati nel Mississippi non ci siamo andati per sederci accanto a Ross Barnett; non ci siamo andati per sederci accanto a Jim Clark; siamo andati là per toglierli dalla nostra strada; e che la gente dovrebbe capire questo; che noi non abbiamo mai combattuto per il diritto di integrarci, noi stavamo combattendo contro la supremazia bianca.
Ora, se vogliamo comprendere la supremazia bianca dobbiamo abbandonare il concetto sbagliato che i bianchi possano dare la libertà a qualcuno. Nessun uomo può dare a qualcuno la sua libertà. Un uomo nasce libero. Si può rendere schiavo un uomo dopo che egli è nato libero, e in effetti è quello che questo paese fa. Rende schiava la gente nera dopo la sua nascita, quindi l'unica cosa che i bianchi possono fare è smettere di negare ai neri la loro libertà; questo è, devono smettere di negare la libertà. Non possono darla a nessuno."
Stokely Carmichael
Adesso noi diciamo che negli ultimi sei anni questo paese si è nutrito con una talidomide dell'integrazione, e che alcuni negri hanno camminato lungo una strada di sogni parlando di sedersi accanto ai bianchi; e che questo non ha iniziato a risolvere il problema; che quando siamo andati nel Mississippi non ci siamo andati per sederci accanto a Ross Barnett; non ci siamo andati per sederci accanto a Jim Clark; siamo andati là per toglierli dalla nostra strada; e che la gente dovrebbe capire questo; che noi non abbiamo mai combattuto per il diritto di integrarci, noi stavamo combattendo contro la supremazia bianca.
Ora, se vogliamo comprendere la supremazia bianca dobbiamo abbandonare il concetto sbagliato che i bianchi possano dare la libertà a qualcuno. Nessun uomo può dare a qualcuno la sua libertà. Un uomo nasce libero. Si può rendere schiavo un uomo dopo che egli è nato libero, e in effetti è quello che questo paese fa. Rende schiava la gente nera dopo la sua nascita, quindi l'unica cosa che i bianchi possono fare è smettere di negare ai neri la loro libertà; questo è, devono smettere di negare la libertà. Non possono darla a nessuno."
Stokely Carmichael
"Quello che non riesco a sopportare è che, un tempo, sognavo di essere bianco. Facevamo un certo gioco, a Trinidad: si prendeva una buccia di mango e la si buttava per aria; se cadeva dalla parte nera, avresti sposato una donna di pelle nera. E io speravo che cadesse dalla parte bianca" ricorda Stokely Carmichael.
Carmichael crebbe con due sorelle, tre zie e una nonna in cima a quarantadue scalini della migliore casa di Oxford Street a Port of Spain, Trinidad, Indie occidentali inglesi. L'aveva costruita suo padre, quella casa, per poi andarsene negli Stati Uniti. Così Carmichael non vide i genitori fino all'età di dodici anni, quando li raggiunse a New York...
Sui dieci anni, indossava rispettabili pantaloni grigi, camicie bianche con il colletto duro e i calzini lunghi della Tranquillity Boys School. "La mia rabbia — dice — è che ero drogato dalla supremazia bianca e non mi ribellavo. Forse sono pazzo adesso: perché anche la gente che ammiravo, nelle Indie occidentali, non si ribellava. Ed ero addirittura soddisfatto, quella volta che rimasi quattro ore in piedi, ad agitare la bandierina, per l'arrivo dei Reali...".
"Se domandate a un bambino nero — continua — di qualunque posto sia, nelle Indie occidentali, qualche cosa sulla storia africana, sulla valle del Nilo o su Annibale, non ne sa nulla. Sa tutto, invece, su re e regine bianche...". Carmichael sta guardando un giornale londinese. Tralascia il titolo dove si attaccano i suoi comizi ("Black Power-violenza"), per fissare per un buon minuto la fotografia della principessa Margaret: "E costei ha ancora un fascino, per loro! Perché? Mio padre, per esempio: ecco uno che fu sottomesso, calmo, obbediente. Io no. Ma lui si beveva tutto quello che gli diceva il bianco: - Se lavori sodo avrai successo -. Ed è morto com'era
nato: povero e negro"...
Carmichael ricorda che il padre rimase disoccupato per tre settimane, perché era troppo onesto per corrompere i sindacalisti che gli dovevano trovare un posto. "Mia madre sfacchinò fino a mettere su cinquanta dollari. Allora invitò a casa il sindacalista, gli diede quel danaro e un costoso profumo. Mio padre trovò l'impiego è commentò, convinto: - Ecco il premio per aver pregato il Signore -. Mia madre sì, era un tipo combattivo. Se le serviva qualcosa, cercava di prenderla".
Parla poi della sua adolescenza nelle strade di Harlem e del Bronx: "Rubavamo automobili, batterie, quel che capitava. Poi ci riunivamo a bande, cominciammo a svaligiare lavanderie. I piani li preparavo io. A sedici anni vendevo la droga. Secondo le leggi bianche, non si può fare il traffico di cocaina fino a ventun'anni". A parte questa complessa formazione, una delle influenze determinanti fu quella di Malcolm X, il leader del nazionalismo negro assassinato tre anni fa ad Harlem.
La fotografia di Malcolm è appesa sopra la scrivania di Stokely, nel suo quartier generale di Atlanta, in Georgia. Accanto c'è un manifesto dello SNICK, con la pantera nera che balza in avanti e la scritta: "Spostatevi o vi passeremo sopra".
"Ammiravo l'intelligenza di Malcolm, — dice Carmichael — la sua mente analitica, la sua coerenza e la sua volontà di dar vita a un movimento per riunire finalmente la sua gente. La cosa più importante che i giovani militanti hanno imparato da Malcolm è che egli parlò alla sua gente e smise di parlare ai bianchi... Il guaio con i bianchi liberali è che, ogni volta che ti metti a parlare con loro, subito parlano della razza. Non è questo il tipo di amici che mi interessa. lo voglio sedermi e ascoltare Thelonius Monk o parlare di Bach o di Joyce" Che avrebbe fatto, se mentre passeggiava con una ragazza bianca, un bianco l'avesse chiamata prostituta? "Credo che avrei continuato a camminare. In un caso del genere si va o a una lunga discussione o a una rissa. Non credo che ne varrebbe la pena".
E questo come si concilia con il rifiuto di porgere l'altra guancia?
"Non posso portare avanti una battaglia individuale. Sto combattendo il razzismo istituzionalizzato. Mio compito è di non permettere all'uomo bianco di condizionare in nessun modo il mio comportamento".
Se si parla di violenza, Carmichael si stringe nelle spalle: "L'uomo bianco parla della violenza. Parlava di violenza, quando ha razziato l'Africa? Dice che il Black Power è violenza. L'uomo bianco è stato violento con noi per quattrocento anni... Mi danno dell'agitatore e del sobillatore perché, quando mi rivolgo a un uditorio nero, non uso la logica e non intellettualizzo. Non ce n'è bisogno: i neri apprendono per istinto ed emozionalmente. Per esempio, essi comprendono bene la brutalità della polizia".
Che si dice dei recenti tafferugli di Newark, dove 23 persone sono state uccise?
"Non sono stati tafferugli. Sono state ribellioni. lo mi sono trovato coinvolto in esse otto volte... Il gioco della morte è quello che i bianchi compiono per spaventarci: "Guarda — dicono — voi avete avuto ventun morti, noi solo due... fareste meglio a smettere". Ebbene: lo SNICK ha una forza; perché quando noi diciamo: "Brucia, ragazzo, brucia", siamo noi i primi ad accendere davvero il fiammifero...
...Naturalmente si può ottenere una "pace duratura" negli Stati Uniti: basta che ogni volta che il bianco dice: "Nigger, fai questo" il negro obbedisce. Comodo, no? Bella, questa pace!".
E il futuro? Vi aspettate una contro-reazione da parte dei bianchi?
"Gli Stati Uniti non possono usare una bomba H contro il popolo nero, negli Stati Uniti stessi. Ma se circondano i ghetti, faremo crollare ogni dannata cosa che vi hanno costruito. Spianeremo l'intero Paese se vengono alle mani con noi!"
Carmichael afferma di essere stato in prigione trentacinque volte, otto per sobillazione. Per di più gli hanno sparato otto volte... E' stato picchiato più volte di quante ne possa ricordare; si rimbocca le maniche per mostrare le cicatrici che gli hanno lasciato quindici giorni fa, battendolo con la canna di una pislola durante un arresto. Prima di quest'anno, Carmichael riteneva che non lo avrebbero lasciato in vita fino alla fine dell'estate in corso.
Come vede ora la possibilità di essere ucciso come Malcolm X?
"E' il dilemma dei bianchi. Hanno capito di aver commesso un errore con Malcolm X, perché lo hanno fatto diventare un martire. Hanno il problema di uccidermi, o di imprigionarmi. Non si decidono, ed è per questo che sono vivo".
lntanto, non va mai in giro senza guardia del corpo. Nel Mississippi o a Watts, sotto la divisa da nazionalisti negri, la guardia del corpo porta le armi. A Londra si tiene in disparte. Il suo custode dice: "Non scrivete il mio nome: sappiate però che se Stokely sta per morire, io sono pronto a morire con lui. Devono sparare a tutti e due". Carmichael pensa di poter ancora perdere la propria popolarita?
"La gente guarda più a un uomo che a un movimento — dice — perché è più facile. Ma ciascuno, nell'organizzazione, può fare quello che faccio io. Il personaggio Carmichael è un'invenzione della stampa bianca. E non vivrò certo secondo le regole che hanno fabbricato per questo personaggio".
Dice che ha lasciato la presidenza dello SNICK anche per combattere la sua crescente popolarità personale: "Cerco di ridimensionare Carmichael. Il mio posto è in mezzo al mio popolo. Il mio compito è quello di raccogliere l'ammirazione e l'amore che il popolo nero mi tributa, e di ridistribuirlo tra noi, e fuori di noi".
Carmichael qualche mese fa diceva che Black Power significava che i negri dovevano avere i loro diritti nelle aree a maggioranza negra. Ora dice: "...Vogliamo il controllo delle istituzioni nelle comunità in cui viviamo, vogliamo possibilità di controllo nel Paese; vogliamo che finisca in tutto il mondo lo sfruttamento contro la gente non bianca".
Ritorna questa settimana in America, con un traguardo ambizioso per portare avanti la causa dello SNICK: Washington, che ha una maggioranza nera.
Nel prossimo febbraio ritornerà a Trinidad; vede la Giamaica come uno dei migliori obiettivi (per una rivolta nera antimperialista, ndr). Ha ventisei anni e — con rilultanza — Stokely Carmichael ha ereditato il trono di Malcolm X, simbolo principale dell'impegno negro nel mondo. Ha bisogno di adeguare se stesso a questo ruolo, come Malcolm seppe fare durante il suo ultimo anno di vita. La tragedia di Carmichael e del suo popolo è che potrebbero non dargli il tempo nè la possibilità di farlo.
Stokely Carmichael, intervista al giornalista Colin McGlashan, The Observer, 1967.
Carmichael crebbe con due sorelle, tre zie e una nonna in cima a quarantadue scalini della migliore casa di Oxford Street a Port of Spain, Trinidad, Indie occidentali inglesi. L'aveva costruita suo padre, quella casa, per poi andarsene negli Stati Uniti. Così Carmichael non vide i genitori fino all'età di dodici anni, quando li raggiunse a New York...
Sui dieci anni, indossava rispettabili pantaloni grigi, camicie bianche con il colletto duro e i calzini lunghi della Tranquillity Boys School. "La mia rabbia — dice — è che ero drogato dalla supremazia bianca e non mi ribellavo. Forse sono pazzo adesso: perché anche la gente che ammiravo, nelle Indie occidentali, non si ribellava. Ed ero addirittura soddisfatto, quella volta che rimasi quattro ore in piedi, ad agitare la bandierina, per l'arrivo dei Reali...".
"Se domandate a un bambino nero — continua — di qualunque posto sia, nelle Indie occidentali, qualche cosa sulla storia africana, sulla valle del Nilo o su Annibale, non ne sa nulla. Sa tutto, invece, su re e regine bianche...". Carmichael sta guardando un giornale londinese. Tralascia il titolo dove si attaccano i suoi comizi ("Black Power-violenza"), per fissare per un buon minuto la fotografia della principessa Margaret: "E costei ha ancora un fascino, per loro! Perché? Mio padre, per esempio: ecco uno che fu sottomesso, calmo, obbediente. Io no. Ma lui si beveva tutto quello che gli diceva il bianco: - Se lavori sodo avrai successo -. Ed è morto com'era
nato: povero e negro"...
Carmichael ricorda che il padre rimase disoccupato per tre settimane, perché era troppo onesto per corrompere i sindacalisti che gli dovevano trovare un posto. "Mia madre sfacchinò fino a mettere su cinquanta dollari. Allora invitò a casa il sindacalista, gli diede quel danaro e un costoso profumo. Mio padre trovò l'impiego è commentò, convinto: - Ecco il premio per aver pregato il Signore -. Mia madre sì, era un tipo combattivo. Se le serviva qualcosa, cercava di prenderla".
Parla poi della sua adolescenza nelle strade di Harlem e del Bronx: "Rubavamo automobili, batterie, quel che capitava. Poi ci riunivamo a bande, cominciammo a svaligiare lavanderie. I piani li preparavo io. A sedici anni vendevo la droga. Secondo le leggi bianche, non si può fare il traffico di cocaina fino a ventun'anni". A parte questa complessa formazione, una delle influenze determinanti fu quella di Malcolm X, il leader del nazionalismo negro assassinato tre anni fa ad Harlem.
La fotografia di Malcolm è appesa sopra la scrivania di Stokely, nel suo quartier generale di Atlanta, in Georgia. Accanto c'è un manifesto dello SNICK, con la pantera nera che balza in avanti e la scritta: "Spostatevi o vi passeremo sopra".
"Ammiravo l'intelligenza di Malcolm, — dice Carmichael — la sua mente analitica, la sua coerenza e la sua volontà di dar vita a un movimento per riunire finalmente la sua gente. La cosa più importante che i giovani militanti hanno imparato da Malcolm è che egli parlò alla sua gente e smise di parlare ai bianchi... Il guaio con i bianchi liberali è che, ogni volta che ti metti a parlare con loro, subito parlano della razza. Non è questo il tipo di amici che mi interessa. lo voglio sedermi e ascoltare Thelonius Monk o parlare di Bach o di Joyce" Che avrebbe fatto, se mentre passeggiava con una ragazza bianca, un bianco l'avesse chiamata prostituta? "Credo che avrei continuato a camminare. In un caso del genere si va o a una lunga discussione o a una rissa. Non credo che ne varrebbe la pena".
E questo come si concilia con il rifiuto di porgere l'altra guancia?
"Non posso portare avanti una battaglia individuale. Sto combattendo il razzismo istituzionalizzato. Mio compito è di non permettere all'uomo bianco di condizionare in nessun modo il mio comportamento".
Se si parla di violenza, Carmichael si stringe nelle spalle: "L'uomo bianco parla della violenza. Parlava di violenza, quando ha razziato l'Africa? Dice che il Black Power è violenza. L'uomo bianco è stato violento con noi per quattrocento anni... Mi danno dell'agitatore e del sobillatore perché, quando mi rivolgo a un uditorio nero, non uso la logica e non intellettualizzo. Non ce n'è bisogno: i neri apprendono per istinto ed emozionalmente. Per esempio, essi comprendono bene la brutalità della polizia".
Che si dice dei recenti tafferugli di Newark, dove 23 persone sono state uccise?
"Non sono stati tafferugli. Sono state ribellioni. lo mi sono trovato coinvolto in esse otto volte... Il gioco della morte è quello che i bianchi compiono per spaventarci: "Guarda — dicono — voi avete avuto ventun morti, noi solo due... fareste meglio a smettere". Ebbene: lo SNICK ha una forza; perché quando noi diciamo: "Brucia, ragazzo, brucia", siamo noi i primi ad accendere davvero il fiammifero...
...Naturalmente si può ottenere una "pace duratura" negli Stati Uniti: basta che ogni volta che il bianco dice: "Nigger, fai questo" il negro obbedisce. Comodo, no? Bella, questa pace!".
E il futuro? Vi aspettate una contro-reazione da parte dei bianchi?
"Gli Stati Uniti non possono usare una bomba H contro il popolo nero, negli Stati Uniti stessi. Ma se circondano i ghetti, faremo crollare ogni dannata cosa che vi hanno costruito. Spianeremo l'intero Paese se vengono alle mani con noi!"
Carmichael afferma di essere stato in prigione trentacinque volte, otto per sobillazione. Per di più gli hanno sparato otto volte... E' stato picchiato più volte di quante ne possa ricordare; si rimbocca le maniche per mostrare le cicatrici che gli hanno lasciato quindici giorni fa, battendolo con la canna di una pislola durante un arresto. Prima di quest'anno, Carmichael riteneva che non lo avrebbero lasciato in vita fino alla fine dell'estate in corso.
Come vede ora la possibilità di essere ucciso come Malcolm X?
"E' il dilemma dei bianchi. Hanno capito di aver commesso un errore con Malcolm X, perché lo hanno fatto diventare un martire. Hanno il problema di uccidermi, o di imprigionarmi. Non si decidono, ed è per questo che sono vivo".
lntanto, non va mai in giro senza guardia del corpo. Nel Mississippi o a Watts, sotto la divisa da nazionalisti negri, la guardia del corpo porta le armi. A Londra si tiene in disparte. Il suo custode dice: "Non scrivete il mio nome: sappiate però che se Stokely sta per morire, io sono pronto a morire con lui. Devono sparare a tutti e due". Carmichael pensa di poter ancora perdere la propria popolarita?
"La gente guarda più a un uomo che a un movimento — dice — perché è più facile. Ma ciascuno, nell'organizzazione, può fare quello che faccio io. Il personaggio Carmichael è un'invenzione della stampa bianca. E non vivrò certo secondo le regole che hanno fabbricato per questo personaggio".
Dice che ha lasciato la presidenza dello SNICK anche per combattere la sua crescente popolarità personale: "Cerco di ridimensionare Carmichael. Il mio posto è in mezzo al mio popolo. Il mio compito è quello di raccogliere l'ammirazione e l'amore che il popolo nero mi tributa, e di ridistribuirlo tra noi, e fuori di noi".
Carmichael qualche mese fa diceva che Black Power significava che i negri dovevano avere i loro diritti nelle aree a maggioranza negra. Ora dice: "...Vogliamo il controllo delle istituzioni nelle comunità in cui viviamo, vogliamo possibilità di controllo nel Paese; vogliamo che finisca in tutto il mondo lo sfruttamento contro la gente non bianca".
Ritorna questa settimana in America, con un traguardo ambizioso per portare avanti la causa dello SNICK: Washington, che ha una maggioranza nera.
Nel prossimo febbraio ritornerà a Trinidad; vede la Giamaica come uno dei migliori obiettivi (per una rivolta nera antimperialista, ndr). Ha ventisei anni e — con rilultanza — Stokely Carmichael ha ereditato il trono di Malcolm X, simbolo principale dell'impegno negro nel mondo. Ha bisogno di adeguare se stesso a questo ruolo, come Malcolm seppe fare durante il suo ultimo anno di vita. La tragedia di Carmichael e del suo popolo è che potrebbero non dargli il tempo nè la possibilità di farlo.
Stokely Carmichael, intervista al giornalista Colin McGlashan, The Observer, 1967.
"Nella contea di Lowndes, abbiamo sviluppato qualcosa chiamata la Lowndes County Freedom Organization. È un partito politico. La legge dell'Alabama dice che se hai un partito, devi avere un simbolo. Noi abbiamo scelto come simbolo una pantera nera, uno splendido animale nero che simboleggia la forza e la dignità della gente nera... Ora in Alabama c'è un partito chiamato Partito Democratico dell'Alabama. E' tutto bianco. Ha come emblema un gallo bianco e le parole "supremazia bianca - per il diritto". Ora i signori della stampa, poiché hanno il senso della pubblicità, e perché molti di loro sono bianchi, e perché sono il prodotto di quella istituzione bianca, non chiamano mai la Lowndes County Freedom Organization con il suo nome, ma piuttosto la chiamano Black Panther Party. La nostra domanda è, perché non chiamano il Partito Democratico dell'Alabama il "White Cock Party"? Secondo noi è appropriato... "
Stokely Carmichael
Stokely Carmichael
Furono battesimi del fuoco: insulti, manganellate, tentativi di linciaggio… Ma è il giugno del ’66 il vero spartiacque della mia vita: la “Marcia contro la paura”, da Memphis, Tennesse, a Jackson, Mississippi. Duecento miglia coi militanti neri che mordevano il freno, non si accontentavano più della non-violenza. La marcia era pacifica ma protetta dai Deacons for Defense and Justice, con le armi ben visibili. Sono sicura che questo salvò delle vite. Nemmeno il dottor King ebbe niente da obiettare alla presenza dei Deacons. Durante la marcia Stokely lanciò lo slogan “Black Power”.
“Potere nero” voleva dire autodeterminazione, ad esempio il diritto dei neri a governare le comunità in cui erano maggioranza. Nel Sud c’erano contee in cui i bianchi erano appena il 10% degli abitanti ma nessun nero aveva il diritto di voto. La parola giusta è “apartheid”. “Black Power” era anche uno slogan polemico verso i liberal che dettavano la linea al movimento, predicavano docilità e rispondere “Sì, badrone”, ma i media lo spacciarono per uno slogan “anti-bianchi”, ne distorsero il messaggio, cominciarono ad accusare lo Sncc di “razzismo al contrario”. Si inventarono dissidi tra Stokely e il dottor King, che invece rispettava lo Sncc. Il dottor King criticava lo slogan ma non la sostanza, e non condannò mai Stokely o l’organizzazione.
“Black power” riassumeva in due parole un processo durato anni: la riscoperta dell’Africa, un’Africa della mente, l’essere neri, che non era tanto il colore della pelle, ma l’esperienza che teneva insieme la comunità. Nell’anno che era portavoce nazionale dello Sncc, Stokely attraversò il Paese in lungo e in largo, parlando tutti i giorni, anche più volte al giorno. Assemblee, conferenze, programmi alla radio e alla tv, ogni volta spiegava il significato dello slogan, se ne fregava degli attacchi e ripeteva quelle due paroline, “Black” e “Power”, acido nitrico e glicerina, e bombardava il pubblico con l’aggettivo: black, black, black, black, ovunque andavi Stokely diceva “black”. Alla fine di quell’anno, la parola “Negro” apparteneva al passato.
Nel ’67 Stokely aveva venticinque anni ed era il nero più odiato dall’America bianca, secondo solo a Muhammad Ali. Lo accusavano di odiare i bianchi, di essere razzista, ma lui era cresciuto in un quartiere di italiani, s’era diplomato in una high school bianca, aveva fatto lavoro politico con attivisti bianchi. “Potere nero” significava organizzare le nostre comunità, non distruggere quelle altrui. Stokely diceva sempre: “Costruire la propria casa non significa buttare giù quella dall’altra parte della strada”.
Il numero di attivisti neri uccisi dai razzisti era già alto prima che ci si mettesse l’Fbi, e Stokely era il prossimo, in cima alla lista. Eravamo tutti preoccupati che non arrivasse ai trent’anni. In compenso, era uno dei neri più amati dalla sua gente. Nelle contee del Mississippi dove lo Sncc aveva fondato il Freedom Democratic Party, e in Alabama dov’era nato il simbolo della pantera nera, c’era chi l’avrebbe sfamato con l’ultimo tozzo di pane, avrebbe ricevuto la pallottola che gli era destinata, si sarebbe strappato un braccio e l’avrebbe usato come clava per difenderlo.
Non so quanto ne fosse consapevole, ma Stokely aveva una galassia di buone stelle, angeli custodi sparsi per il mondo che si mossero per sottrarlo al pericolo. Nella primavera del ’67 gli organizzarono un tour mondiale. Londra, Cuba, la Cina, Il Vietnam in guerra, l’Algeria post-coloniale, infine la Guinea dove sarebbe andato a vivere.
Da quei paesi continuava a denunciare l’oppressione dei neri negli Stati Uniti, facendo impazzire di rabbia i nostri media. La Cia cercò più volte di catturarlo e riportarlo in patria, o almeno di rubargli il passaporto. Esiste un discorso di Fidel Castro in difesa di Stokely. La Guinea inoltrò agli Usa una protesta diplomatica ufficiale per le intimidazioni da parte di membri dell’ambasciata americana. Kwame Nkrumah lo prese come segretario.
Mentre il fratello Stokely faceva il giro del mondo, la stampa americana lo trasformava in un demonio, un Satana negro, la personificazione dell’antiamericanismo e del “tradimento”. Ma fammi il piacere, questo Paese non ci aveva mai dato un cazzo, ci gassava e bastonava nei ghetti poi ci mandava a crepare in Vietnam, e se un nero lo dice, e spiega che gli Stati Uniti rubano la ricchezza del pianeta, quello è un traditore?
In Guinea incontra Kwame Nkrumah, l’ex-presidente del Ghana, deposto da un golpe appoggiato dagli Usa. Nkrumah non è solo un esule di rango, Sékou Touré lo ha nominato co-presidente del Paese. Nkrumah ha studiato in America, conosce bene le lotte dei fratelli di qui, è un panafricanista e per lui sono tutte battaglie del popolo africano, sul continente e nella diaspora atlantica. Beh, per farla corta, Nkrumah chiede a Stokely di diventare il suo assistente. Stokely, che nel frattempo si è messo con Miriam Makeba ed è in pieno trip africano, accetta, ma prima vuole tornare negli Usa per finire del lavoro. Tutti gli africani della diaspora che incontra gli dicono: – Brother, is you crazy? Se torni, chissà che ti fanno! L’uomo bianco vuole il tuo culo! – ma lui ha deciso che torna, non può lasciare a metà i suoi progetti. Appena atterrato al Jfk, gli sequestrano il passaporto. Lui se lo aspettava, ha già chiamato i suoi avvocati, è disposto a fare il diavolo a quattro per riaverlo.
Nei mesi che trascorse negli Usa, Stokely diventò dirigente onorario delle Pantere, sposò Miriam Makeba, si sbattè per riavere il passaporto e cercò di organizzare le comunità nere di Washington D.C. Poi venne ucciso il dottor King. Nel Paese scoppiarono più di cento rivolte, la situazione era ormai fuori controllo, organizzare la nostra gente era quasi impossibile. Da un giorno all’altro i ghetti si riempirono di tossici, l’eroina dilagava. Stokely, dal canto suo, passò brutti momenti: il Cointelpro pedinava e sorvegliava lui e Miriam, e faceva di tutto per distruggere la reputazione di entrambi. Un’intera tournée di Miriam saltò senza spiegazioni dopo che l’Fbi disse ai promoters due paroline. Il Cointelpro sparse nel movement, soprattutto tra le Pantere, la falsa voce che Stokely era un infiltrato della Cia. Alla fine, prima che qualcuno gli facesse saltare le cervella per un qualunque motivo, Stokely riebbe il passaporto. Lui e Miriam tornarono in Guinea per un pelo.
La Guinea indipendente era la base operativa di tutte le guerriglie dell’Africa nera. C’erano gli angolani, i mozambicani, quelli della Guinea-Bissau e Capo Verde, i sudafricani dell’African National Congress. Tutti i movimenti di liberazione nazionale prendevano il volo da Conakry. Stokely cambiò nome, si chiamò “Kwame Ture”, in omaggio a Kwame Nkrumah e Sékou Touré. L’acqua in cui si immerse per il secondo battesimo fu la cultura africana. Entrò nell’All-African People’s Revolutionary Party e si occupò dei rapporti tra i movimenti africani del Continente e quelli nella Diaspora. Non si fermò mai un secondo.
Quando scoprirono il tumore alla prostata, Kwame accettò il verdetto e disse: – Quel che mi resta da vivere appartiene alla mia gente, continuerò a lavorare e organizzare finché avrò la forza di muovere la lingua.
Combattè la metastasi come aveva combattuto il razzismo. Dentro quel tribuno su sedia a rotelle c’era lo spirito dello Stokely di trent’anni prima, anche più fiero di allora. Ripeteva: – Il cancro tira fuori il meglio di una persona.
Contese gli anni al male senza farsi assediare, anzi, contrattaccando, riconquistando terreno, piantando la bandiera della vita su ogni collinetta, celebrando il buon esito di ogni sortita. Lo circondava l’amore della comunità, medici e guaritori lo curavano gratis. Diceva: – Se ti sacrifichi per le persone, le persone si sacrificheranno per te.
Strappò alla morte tre anni. Quando il momento si avvicinò tornò a Conakry, tra le braccia di Madre Africa. L’ultima riunione la fece la sera prima di morire, talmente debilitato da non poter rimanere seduto. Lo appoggiammo a una pila di cuscini, parlò, ascoltò, sorrise, toccò a lui consolare noialtri. Ci salutò dicendo: – Siate sempre pronti, e quando arriverà il momento non dovrete prepararvi.
Nostro fratello Kwame ci lasciò il 15 novembre 1998.
Dopo il funerale, chissà come, mi tornò alla mente un aneddoto. Me l’aveva raccontato Stokely, riemergeva dalle nebbie di un’altra America, un altro mondo, ormai quasi un altro secolo.
La notizia della morte di John Coltrane gli era giunta mentre era a Londra, per una conferenza sui movimenti di liberazione. Prima di cominciare il suo discorso, fece alzare in piedi gli spettatori e chiese un minuto di silenzio per quel grande artista nero e guerriero culturale. Nessuno se l’aspettava, era una conferenza molto politica nell’accezione più stretta, piena di intellettuali seriosi, e che c’entrava il jazz con la rivoluzione? Eppure tutti rimasero in piedi e in silenzio.
Quei due fratelli avevano molto in comune. Due vite dedicate allo spingersi avanti, sempre più avanti. Ed erano instancabili. Solo il cancro riuscì a fermarli, ma non potè impedir loro di muoversi fino all’ultimo minuto, l’ultimo secondo prima di danzare e raggiungere gli antenati.
New Thing, Wu Ming 1
“Potere nero” voleva dire autodeterminazione, ad esempio il diritto dei neri a governare le comunità in cui erano maggioranza. Nel Sud c’erano contee in cui i bianchi erano appena il 10% degli abitanti ma nessun nero aveva il diritto di voto. La parola giusta è “apartheid”. “Black Power” era anche uno slogan polemico verso i liberal che dettavano la linea al movimento, predicavano docilità e rispondere “Sì, badrone”, ma i media lo spacciarono per uno slogan “anti-bianchi”, ne distorsero il messaggio, cominciarono ad accusare lo Sncc di “razzismo al contrario”. Si inventarono dissidi tra Stokely e il dottor King, che invece rispettava lo Sncc. Il dottor King criticava lo slogan ma non la sostanza, e non condannò mai Stokely o l’organizzazione.
“Black power” riassumeva in due parole un processo durato anni: la riscoperta dell’Africa, un’Africa della mente, l’essere neri, che non era tanto il colore della pelle, ma l’esperienza che teneva insieme la comunità. Nell’anno che era portavoce nazionale dello Sncc, Stokely attraversò il Paese in lungo e in largo, parlando tutti i giorni, anche più volte al giorno. Assemblee, conferenze, programmi alla radio e alla tv, ogni volta spiegava il significato dello slogan, se ne fregava degli attacchi e ripeteva quelle due paroline, “Black” e “Power”, acido nitrico e glicerina, e bombardava il pubblico con l’aggettivo: black, black, black, black, ovunque andavi Stokely diceva “black”. Alla fine di quell’anno, la parola “Negro” apparteneva al passato.
Nel ’67 Stokely aveva venticinque anni ed era il nero più odiato dall’America bianca, secondo solo a Muhammad Ali. Lo accusavano di odiare i bianchi, di essere razzista, ma lui era cresciuto in un quartiere di italiani, s’era diplomato in una high school bianca, aveva fatto lavoro politico con attivisti bianchi. “Potere nero” significava organizzare le nostre comunità, non distruggere quelle altrui. Stokely diceva sempre: “Costruire la propria casa non significa buttare giù quella dall’altra parte della strada”.
Il numero di attivisti neri uccisi dai razzisti era già alto prima che ci si mettesse l’Fbi, e Stokely era il prossimo, in cima alla lista. Eravamo tutti preoccupati che non arrivasse ai trent’anni. In compenso, era uno dei neri più amati dalla sua gente. Nelle contee del Mississippi dove lo Sncc aveva fondato il Freedom Democratic Party, e in Alabama dov’era nato il simbolo della pantera nera, c’era chi l’avrebbe sfamato con l’ultimo tozzo di pane, avrebbe ricevuto la pallottola che gli era destinata, si sarebbe strappato un braccio e l’avrebbe usato come clava per difenderlo.
Non so quanto ne fosse consapevole, ma Stokely aveva una galassia di buone stelle, angeli custodi sparsi per il mondo che si mossero per sottrarlo al pericolo. Nella primavera del ’67 gli organizzarono un tour mondiale. Londra, Cuba, la Cina, Il Vietnam in guerra, l’Algeria post-coloniale, infine la Guinea dove sarebbe andato a vivere.
Da quei paesi continuava a denunciare l’oppressione dei neri negli Stati Uniti, facendo impazzire di rabbia i nostri media. La Cia cercò più volte di catturarlo e riportarlo in patria, o almeno di rubargli il passaporto. Esiste un discorso di Fidel Castro in difesa di Stokely. La Guinea inoltrò agli Usa una protesta diplomatica ufficiale per le intimidazioni da parte di membri dell’ambasciata americana. Kwame Nkrumah lo prese come segretario.
Mentre il fratello Stokely faceva il giro del mondo, la stampa americana lo trasformava in un demonio, un Satana negro, la personificazione dell’antiamericanismo e del “tradimento”. Ma fammi il piacere, questo Paese non ci aveva mai dato un cazzo, ci gassava e bastonava nei ghetti poi ci mandava a crepare in Vietnam, e se un nero lo dice, e spiega che gli Stati Uniti rubano la ricchezza del pianeta, quello è un traditore?
In Guinea incontra Kwame Nkrumah, l’ex-presidente del Ghana, deposto da un golpe appoggiato dagli Usa. Nkrumah non è solo un esule di rango, Sékou Touré lo ha nominato co-presidente del Paese. Nkrumah ha studiato in America, conosce bene le lotte dei fratelli di qui, è un panafricanista e per lui sono tutte battaglie del popolo africano, sul continente e nella diaspora atlantica. Beh, per farla corta, Nkrumah chiede a Stokely di diventare il suo assistente. Stokely, che nel frattempo si è messo con Miriam Makeba ed è in pieno trip africano, accetta, ma prima vuole tornare negli Usa per finire del lavoro. Tutti gli africani della diaspora che incontra gli dicono: – Brother, is you crazy? Se torni, chissà che ti fanno! L’uomo bianco vuole il tuo culo! – ma lui ha deciso che torna, non può lasciare a metà i suoi progetti. Appena atterrato al Jfk, gli sequestrano il passaporto. Lui se lo aspettava, ha già chiamato i suoi avvocati, è disposto a fare il diavolo a quattro per riaverlo.
Nei mesi che trascorse negli Usa, Stokely diventò dirigente onorario delle Pantere, sposò Miriam Makeba, si sbattè per riavere il passaporto e cercò di organizzare le comunità nere di Washington D.C. Poi venne ucciso il dottor King. Nel Paese scoppiarono più di cento rivolte, la situazione era ormai fuori controllo, organizzare la nostra gente era quasi impossibile. Da un giorno all’altro i ghetti si riempirono di tossici, l’eroina dilagava. Stokely, dal canto suo, passò brutti momenti: il Cointelpro pedinava e sorvegliava lui e Miriam, e faceva di tutto per distruggere la reputazione di entrambi. Un’intera tournée di Miriam saltò senza spiegazioni dopo che l’Fbi disse ai promoters due paroline. Il Cointelpro sparse nel movement, soprattutto tra le Pantere, la falsa voce che Stokely era un infiltrato della Cia. Alla fine, prima che qualcuno gli facesse saltare le cervella per un qualunque motivo, Stokely riebbe il passaporto. Lui e Miriam tornarono in Guinea per un pelo.
La Guinea indipendente era la base operativa di tutte le guerriglie dell’Africa nera. C’erano gli angolani, i mozambicani, quelli della Guinea-Bissau e Capo Verde, i sudafricani dell’African National Congress. Tutti i movimenti di liberazione nazionale prendevano il volo da Conakry. Stokely cambiò nome, si chiamò “Kwame Ture”, in omaggio a Kwame Nkrumah e Sékou Touré. L’acqua in cui si immerse per il secondo battesimo fu la cultura africana. Entrò nell’All-African People’s Revolutionary Party e si occupò dei rapporti tra i movimenti africani del Continente e quelli nella Diaspora. Non si fermò mai un secondo.
Quando scoprirono il tumore alla prostata, Kwame accettò il verdetto e disse: – Quel che mi resta da vivere appartiene alla mia gente, continuerò a lavorare e organizzare finché avrò la forza di muovere la lingua.
Combattè la metastasi come aveva combattuto il razzismo. Dentro quel tribuno su sedia a rotelle c’era lo spirito dello Stokely di trent’anni prima, anche più fiero di allora. Ripeteva: – Il cancro tira fuori il meglio di una persona.
Contese gli anni al male senza farsi assediare, anzi, contrattaccando, riconquistando terreno, piantando la bandiera della vita su ogni collinetta, celebrando il buon esito di ogni sortita. Lo circondava l’amore della comunità, medici e guaritori lo curavano gratis. Diceva: – Se ti sacrifichi per le persone, le persone si sacrificheranno per te.
Strappò alla morte tre anni. Quando il momento si avvicinò tornò a Conakry, tra le braccia di Madre Africa. L’ultima riunione la fece la sera prima di morire, talmente debilitato da non poter rimanere seduto. Lo appoggiammo a una pila di cuscini, parlò, ascoltò, sorrise, toccò a lui consolare noialtri. Ci salutò dicendo: – Siate sempre pronti, e quando arriverà il momento non dovrete prepararvi.
Nostro fratello Kwame ci lasciò il 15 novembre 1998.
Dopo il funerale, chissà come, mi tornò alla mente un aneddoto. Me l’aveva raccontato Stokely, riemergeva dalle nebbie di un’altra America, un altro mondo, ormai quasi un altro secolo.
La notizia della morte di John Coltrane gli era giunta mentre era a Londra, per una conferenza sui movimenti di liberazione. Prima di cominciare il suo discorso, fece alzare in piedi gli spettatori e chiese un minuto di silenzio per quel grande artista nero e guerriero culturale. Nessuno se l’aspettava, era una conferenza molto politica nell’accezione più stretta, piena di intellettuali seriosi, e che c’entrava il jazz con la rivoluzione? Eppure tutti rimasero in piedi e in silenzio.
Quei due fratelli avevano molto in comune. Due vite dedicate allo spingersi avanti, sempre più avanti. Ed erano instancabili. Solo il cancro riuscì a fermarli, ma non potè impedir loro di muoversi fino all’ultimo minuto, l’ultimo secondo prima di danzare e raggiungere gli antenati.
New Thing, Wu Ming 1
Nessun commento:
Posta un commento