mercoledì 24 giugno 2015

Il Davide greco contro il Golia dell’UE sullo sfondo della crisi globale

Grecia: quale vittoria?
giugno 24
16:59 2015
di Lorenzo Carrieri

Introduzione: Il Davide greco contro il Golia dell’UE sullo sfondo della crisi globale
La questione del negoziato tra la Grecia e la cosiddetta Troika sta imperversando nei media mainstream nostrani, ma, lungi dall’essere trattata in maniera imparziale, la narrazione imperante sulla vicenda greca è totalmente appiattita su categorie tipiche del giornalismo embedded, dove la stampa funge da cassa di risonanza di posizioni preconcette: da una parte i giusti, l’Unione Europea, il Fondo-Salva Stati, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale; dall’altra parte i nemici, Tsipras e tutta la sua cricca di retrogradi marxisti, e greci fannulloni che l’hanno votato, che non ne vogliono sapere di ripagare il debito greco.
La situazione è in realtà molto più complessa di quanto venga dipinta dalla stampa, e gli attori protagonisti, Grecia e UE, sono da inserire all’interno

di una sovra-struttura globale di lettura ed interpretazione per coglierne in toto la reale portata delle loro scelte tattiche e strategiche.
La Grecia è, suo malgrado, la protagonista di questa vicenda: la sua esposizione debitoria si aggira oggigiorno attorno ai 315 miliardi di euro.
Dall’altra parte troviamo la Troika, organismo formato da membri della Commissione Europea, della BCE e del FMI.
BCE e FMI rappresentano due dei principali creditori della Grecia, la Commissione Europea è invece l’organismo deputato al controllo del processo legislativo e responsabile, per l’UE, della gestione dei suoi fondi.
Gli altri grandi creditori della Grecia sono il FESF, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (fondo-salva stati), che possiede il 45% del debito di Atene, banche e istituti privati (al 21,5%) e paesi singoli dell’eurozona (16,8%).
All’interno di questi due campi si inseriscono anche potenze globali come gli Stati Uniti e la Russia, ma anche la Cina, ed altri attori minori.
Ai lati della crisi greca si sono cristallizzate due partite, una tutta interna all’Unione, ed un’altra più esterna, che ne costituisce la sovra-struttura globale e di più ampio respiro.
Nel primo livello lo scontro è tra la visione dell’UE tedesco-francese e quella greca: in chiave strutturale, è uno scontro tra i paesi del centro e quelli della periferia, i cosiddetti PIGS.
Scontro che si materializza a sua volta nel globale, dove la partita è tra l’egemone americano e coloro che in qualche modo tentano di bilanciarne il potere attraverso la costruzione di architetture alternative di riferimento, economiche e militari che siano: Cina e Russia.
In questo framework di lettura, la penisola ellenica è un altro campo di scontro tra le suddette potenze.
Agli occhi dell’amministrazione Obama infatti, la Grecia e il fianco sud dell’Europa rappresentano territori acquisiti nel risiko globale contro Russia e Cina: l’interesse americano è quello di mantenere la Grecia all’interno dell’UE in vista di una ratifica necessaria dei parlamenti nazionali del progetto TTIP, e di non farla scivolare lentamente al di fuori della NATO verso le braccia di Putin (con cui Atene ha ultimamente concluso un accordo per il passaggio del gasdotto South Stream) e/o della Cina (acquisto del porto del Pireo da parte della China Ocean Shipping Company).
Ecco perché l’asse Stati Uniti-Germania, rinsaldatosi dopo lo scandalo NSA-Snowden, pare fortemente interessato ad un accordo di lunga durata con Atene, in chiave tedesca, soprattutto dopo la perdita di consistenti entrate economiche dovute alle politiche sanzionatorie verso la Russia nel post-Maidan ucraino.
Contro le letture poco analitiche dei media mainstream
Tralasciando i tecnicismi tipici di molta letteratura sul tema, la situazione della Grecia rientra prepotentemente in quella che è la cosiddetta crisi del debito sovrano europeo, a sua volta parte della grande crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, nota a tutti con il nome di “Crisi dei mutui subprime”.
A seguito della crescita vertiginosa del debito accumulato (rapporto debito/PIL) le politiche governative di Atene sono state improntate a misure di austerità draconiane imposte dai creditori continentali dell’UE in cambio dell’accesso alla liquidità, che hanno a loro volta infilato il paese ellenico in una spirale di povertà e proteste.
Ma come ha fatto Atene a giungere a questa punto?
La lettura che i più danno è quella di una serie di governi greci incapaci e proni alle richieste delle lobby di potere, in primis quella dei dipendenti della pubblica amministrazione e dei professionisti, in un tipico schema di do ut des di chiaro stampo mafioso.
Secondo alcuni report, sotto il governo conservatore di Karamanlis (2004-2009), la pubblica amministrazione crebbe a dismisura, così come la spesa sanitaria e quella pensionistica, il tutto condito da un’evasione fiscale a livelli spropositati (c’è chi parla di qualcosa come 75 miliardi di € sottratti allo Stato): in questa situazione il debito pubblico è salito dal 97% al 130% per cento.
Questo sistema, proseguono le statistiche, favorito dagli interessi delle classi dirigenti a mantenere lo status quo, sarebbe stato un monolite irriformabile: qualsiasi tentativo di modifica si andava infatti scontrando con gli interessi particolaristici della pubblica amministrazione, i cui dipendenti erano stati “cooptati” dai partiti politici maggiori (conservatore e socialista), ma anche contro la non-volontà del parlamento, fortemente legato a interessi locali e particolaristici (potere di certi collegi, tutela evasione fiscale, privilegi) e dei media privati, lottizzati da pochi oligopolitsti legati al settore navale e/o energetico e bancario.
Risulta però difficile comprendere come uno dei paesi cardine nella nascita dell’Unione europea abbia potuto infilarsi in tale circolo da solo, senza la benché minima connivenza e/o tacito accordo con i burocrati dell’eurozona.
É risaputo infatti come per entrare nell’UE ogni paese avesse dovuto dimostrare certi pre-requisiti, pena la sua esclusione dalla stessa. Secondo il trattato di Maastricht infatti nessun membro poteva avere un debito superiore al 60% del PIL e i deficit pubblici non dovevano superare il 3%.
Nel giugno del 2000 il debito greco era del 103%, abbondantemente superiore ai parametri di Maastricht: il governo Simitis decideva allora di sottoscrivere con una delle più grandi banche d’affari mondiali, Goldman Sachs, un accordo Credit Default Swap.
Grazie all’accordo sopra-citato Atene otteneva di “spostare” il 2% (2,8 miliardi) del suo debito dal suo valore in euro ad uno in dollari e yen, sulla base di un tasso di cambio fittizio non corrispondente alla realtà: per fare ciò pagava una commissione immediata di 600 milioni di euro a GS.
Ma non finisce qui.
Infatti Atene, per finanziare il primo contratto CDS, ne arrivava a sottoscrivere un secondo: quest’altro, imbottito di prodotti derivati (Collateralized Debt Obligation), ha iniziato a creare i primi problemi. Infatti il tasso di questo secondo SWAP venne legato al mercato obbligazionario, e, proprio nel periodo dell’11/9 e dell’instabilità dei mercati, nonché grazie ad una serie di cattive decisioni delle banche greche (come legare lo swap all’indice calcolato sulla base dell’inflazione dell’eurozona), il debito greco saliva da 2,8 a 5,1 miliardi di €. Il tutto a danno dei cittadini greci.
E qui si ritorna alla domanda posta sopra: com’è possibile che un organismo come l’Unione europea, dotato di apparati di controllo tanto stringenti per quel che riguarda le politiche finanziarie ed economiche degli stati appartenenti, non sia stata a conoscenza di questa «storia molto sexy tra due peccatori» (parole di Sardelis, capo dell’ufficio gestione del debito greco tra il 1994 e il 2004)?
Com’è possibile che Mario Draghi, attuale presidente della BCE, che dal 2002 al 2005 era presidente di GS, non fosse al corrente delle falsificazioni dei dati sulle finanze pubbliche di Atene?
E ancora, come mai Jean Claude Trichet nel 2010, quando era presidente della BCE, pose il veto alla consegna di documenti che spiegavano i dettagli dell’accordo Atene-GS alla rivista Bloomberg, adducendo un’alta percentuale di rischio per i mercati?
La stessa Eurostat, l’organismo europeo di statistica, afferma che solamente nel 2010 arrivava a conoscenza dei livelli di indebitamento della Grecia, quando, in realtà, le prime denunce di conti truccati risalgono al 2003, così come sottolineano certi rapporti dell’Eurostat stessa.
Non è difficile credere come mai dunque le stesse commissioni del Parlamento Europeo che indagano su questa vicenda si siano scontrate contro muri di gomma che proteggono questo grande segreto.
Il gioco delle parti e i meriti della Grecia
Fin dalla sua elezione il nuovo governo Tsipras (gennaio 2015, con una coalizione di partiti anti-austerità) ha iniziato a “rivedere” gli accordi precedentemente firmati dagli altri governi: il ministro Varoufakis, in una delle prime uscite pubbliche, affermava che la Grecia avrebbe accettato soltanto il 70% delle condizioni precedenti, rimandando al mittente le privatizzazioni, i licenziamenti facili e ulteriori tagli a spesa pubblica e pensioni.
Di contro, al netto delle velate minacce ai greci da parte di alcuni primi ministri dell’Ue se avessero votato Tsipras (memorabile il tweet di Cameron), nel giorni successivi alle elezioni la BCE affermava che non avrebbe più accettato titoli di stato greci come garanzia in cambio di prestiti di denaro, ergo mettendo alle stretto l’intero sistema bancario ellenico, rettosi fino ad allora proprio grazie alla liquidità di emergenza della Banca Centrale stessa.
Il governo Tsipras è stato capace, nella sua posizione di debolezza nei rapporti di forza, di rimodellare la sua strategia, facendo proprio della sua stessa debolezza il suo punto di forza.
La Grecia faceva fin da subito capire che non avrebbe accettato il gioco delle parti come era stato fino ad allora. Se le parole d’ordine dei precedenti governi greci erano state “aiuti in cambio di austerity”, con l’avvento del governo Syriza sono cambiate in “nessun intervento di taglio sul welfare e nessun aiuto”, ovverosia restare sì nella zona euro, ma attraverso una ridefinizione del debito.
Mossa che ha completamente spiazzato la stessa Unione, che si è ritrovata invischiata nel più classico dilemma del prigioniero: cooperare con la Grecia per un compromesso che salvasse l’Unione da uno smembramento o puntare i piedi e continuare nelle richieste di applicazione delle misure di austerity col rischio di un Grexit?
La continua dialettica del ministro delle finanze greco Varoufakis verso la Germania e i suoi danni di guerra nei confronti del paese ellenico (nonché gli ammiccamenti di Tsipras verso Putin, con una seppur mai-paventata, uscita dalla NATO) sono serviti a richiamare l’Europa perché facesse la sua parte e ad evidenziare le macro-debolezze dell’architettura dell’eurozona tutta: centralità egemonica della Germania, politica monetaria della BCE dettata da esigenze tedesche, mancanza di monetizzazione del deficit e assenza di possibilità per la svalutazione del cambio, nonché una sovra-esposizione delle banche greche verso la Germania volto a sostenere il surplus commerciale di Berlino.
Attualmente, il negoziato si è spostata su un livello di scontro che nella teoria dei giochi rimanda al chicken game del film “Gioventù Bruciata”, dove i due ragazzi che fanno una gara di coraggio correndo con la macchina verso il burrone sono restii a sterzare per primi per non fare la figura del codardo, ma dove, se alla fine nessuno sterza, entrambi moriranno cadendo nel burrone.
In questo chicken game però chi ha realmente in mano il coltello dalla parte del manico (e anche chi sembra avere tutto da perdere e niente da guadagnare da un #Grexit) è la Germania. Dalle indiscrezioni che trapelavano in questi giorni, Berlino sembra aver reagito malamente alle contro-proposte greche per una bozza di accordo.
La Merkel non ama Tsipras e il suo governo, né tantomeno scorre buon sangue tra Schauble e Varoufakis, da molti tedeschi considerati un eccentrico e incapace.
Ma quello che preme di più alla Germania è continuare a mantenere l’architettura core-periphery dell’eurozona, che lega i paesi della periferia all’economia tedesca, fungendone così da traino. Berlino infatti, attraverso il suo settore finanziario, ha esportato enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentandone boom immobiliari e anche permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. Ciò è stato favorito dalla politica monetaria della BCE, che, al netto della scarsità della domanda interna causata dalle politiche tedesche di moderazione fiscale e salariale, ha imposto tassi d’interesse molto bassi tali da non deprimerla ulteriormente. Tassi bassi che, a loro volta, hanno scatenato un’euforia di prestiti nei paesi periferici, tradizionalmente caratterizzati da inflazione strutturale sopra la media europea, causandone così un flusso di capitale a buon mercato che è andato a determinare un boom edilizio e un indebitamento del settore pubblico in Grecia.
Per certi versi dunque la Germania si è auto-finanziata il suo miracolo economico, grazie all’indebitamento del settore pubblico greco, e vuole continuare a farlo, non concedendo di un millimetro ad Atene.
La Grecia ha fin qui pianificato razionalmente le strategie da mettere in campo, guardando con attenzione alle debolezze dell’avversario e svelandone i pay-off (ricavi), così da adattarne la propria tattica negoziale.
Il primo merito greco sta nell’aver dimostrato, alla prova dei fatti, come l’UE non sia un’unione di stati che cooperano tra loro, quanto un’insieme di stati in competizione tra loro, al cui vertice si trova l’egemone tedesco, che, attraverso la Bundesbank, detta le politiche monetarie della BCE.
L’altro grande merito della Grecia e dei suoi negoziatori è stato quello di avere messo all’ordine del giorno nelle agende europee la mancanza di un reale meccanismo di riciclo delle eccedenze dell’eurozona. In tale situazione lo squilibrio tra economie in surplus (Germania su tutti) e paesi in deficit viene essenzialmente gestito con iniezioni di liquidità da parte della BCE, che alimentano solamente il circuito finanziario della speculazione, e con politiche di austerità, che vanno a colpire le già deboli economie delle periferie.
Ecco perché oggi la Merkel e Schauble, nel muro contro muro, finiscono per “confessare” questo peccato: evitare una diminuzione ulteriore del valore nominale del debito greco, ossia una possibile ristrutturazione parziale con conseguente impatto su economia e banche tedesche.
Conclusioni: accordo o #Grexit?
L’ultima fase delle trattative si è aperta con un allarme per l’imminente bancarotta di Atene, e di un #Grexit nel caso non arrivino 1,7 miliardi di euro necessari a ripianare il debito con il FMI.
Ma è da qui in avanti che gli scenari si sono mossi verso due direzioni: accordo o #Grexit.
Nel primo caso, che sembra quello più papabile in queste ore, Atene sembra giocare sapientemente le sue carte.
Oltre ad aver proposto una base di accordo su alcuni punti caldi- surplus primario all’1% per il 2015, mantenimento tre aliquote IVA, nessuna tassa ulteriore su elettricità e medicinali, prelievo fiscale di solidarietà su determinate fasce di reddito, mantenimento tassa ENFIA sugli immobili, nessun ulteriore taglio alla spesa pubblica, pensionistica e agli stipendi, misure fiscali permanenti pari al 2% del PIL- Atene ha fatto delle contro-proposte, rilanciando su alcune questioni cruciali che verranno discusse nei prossimi eurogruppi: la Grecia ha chiesto, in cambio dell’approvazione di un piano per aumentare competitività sui mercati e uno snellimento burocratico per la creazione di nuove imprese, uno spostamento del debito greco detenuto dalla BCE al ELM (European Stabilization Mechanism), così da poter partecipare ai benefici del Quantitative Easing promosso da Mario Draghi.
È infatti da notare come la Grecia sia l’unico paese dell’eurozona che non sta beneficiando della liquidità del QE, poiché la BCE possiede titoli di stato greci oltre il limite, secondo i parametri decisi nel gennaio 2015.
Per quanto riguarda la #Grexit, nella tattica negoziale greca, essa è stata paventata in quanto minaccia che avrebbe spinto la UE ad ammorbidire la sua posizione e a concedere ulteriori proroghe di pagamenti e/o iniezioni di liquidità. Cosa fin d’ora avvenuta, c’è da renderne merito ad Atene.
Molti critici affermano che la Grecia stia così rinviando il momento del default, forse è vero, ma agitare lo spettro del Grexit è servito a mettere pressione sulla Merkel e sulla BCE, e non ad abbandonare realmente l’Unione Europea e la moneta unica.
Per valutare la reale posizione del governo Tsipras su questo basta guardare la sua reazione alle parole del governatore della Banca Centrale Greca Stouranaras, che aveva paventato un #Grexit in mancanza di un accordo: Tsipras ha subito intimato un’azione legale nei confronti di quest’ultimo.
Tsipras infatti sa bene che l’abbandono dell’euro e un default incontrollato lo porterebbero in “acque inesplorate”, costringendo la Grecia a ri-stampare la dracma, facendo i conti con tutto quelle che ne conseguirebbe: inflazione, crisi del cambio e attacchi speculativi, corsa agli sportelli, capital flight, profonda recessione, massiccia riduzione dei redditi e del potere d’acquisto, rialzo costo importazioni, aumento disoccupazione. Insomma, un’apocalisse stile Argentina 2001.
Al tempo stesso la paura di una #Grexit potrebbe colpire a rotazione tutti i paesi interessati al debito greco, nonostante il PIL di Atene pesi solamente il 3% in Europa, l’effetto domino sui mercati potrebbe avere effetti scioccanti: fine dell’idea dell’indissolubilità dell’euro con conseguenti attacchi speculativi alla moneta unica, aumento spread tra titoli di stato e Bund, shock di liquidità per gli istituti più esposti verso la Grecia, buco nel fondo-salva stati e nella BCE stessa….
In conclusione, la partita tra Grecia e Unione Europea è ben lungi dall’essere vicina ad una conclusione. Così come è difficile potere anche solo tratteggiarne un probabile finale.
Ciò che bisogna però riconoscere al governo greco è stata la capacità di usare uno strumento che Sun Tzu considera fondamentale nell’arte strategica della guerra: lo stratagemma.
Lo stratagemma di Atene è stato quello di concentrare tutti i suoi sforzi sul tema centrale della fine delle misure di austerità, obiettivo sicuramente non da poco, per arrivare infine a raggiungere un compromesso sul reale obiettivo greco: la ristrutturazione (haircut) del debito dell’intera eurozona.
Il debito totale dei paesi UE si aggira intorno ad una media del 92,6% del PIL, in crescita di due punti l’anno e nei paesi del G20, lo stock di debito è qualcosa che si aggira al di sopra dei 40 trilioni di dollari.
Il problema del debito greco è infatti un problema non solo greco, ma un problema dell’intera Europa, e che va risolto attraverso una soluzione politica, così come il debito della Germania post-Seconda Guerra mondiale venne risolto nella maxi-conferenza di Londra del 1953.
Tsipras ha affermato che l’UE deve tornare ai principi di solidarietà e giustizia sociale dai quali ha avuto origine, e risolvere alla radice il problema del debito.
Alla luce di quella che potrebbe essere una delle prossime bolle finanziarie scatena-crisi di portata mondiale (quella del mercato obbligazionario favorita dalle massicce iniezioni di liquidità, a tassi sotto lo zero, che ha gonfiato le valutazioni degli asset, slegandoli completamente dall’andamento dell’economia reale) la UE si trova sotto pressione per riconoscere il fallimento dell’austerità e iniziare finalmente un reale processo di integrazione politico-fiscale che risolva i problemi strutturali alle sue fondamenta.
Prima che sia troppo tardi.

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