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associazione di idee
Bin Laden morto anni prima del blitz Usa, eccovi le prove
01/6 •
Gli Usa
non hanno mia ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una
nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso,
e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del
blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il
terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden
stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato
dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter
americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden,
versione Casa Bianca. Essa è pubblicata QUI. Hersh ci rivela la solita
montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla
presidenza Usa,
dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’
operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio
2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la
storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del
Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da
Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia
ecc., la politica
estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un
scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte
ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).
Ma
Hersh ha fatto qui l’errore più triste della sua carriera di colosso
del mio mestiere: egli dà comunque per scontato che il poveraccio
letteralmente smembrato vivo da oltre 600 proiettili degli Us Navy Seals
in una camera da letto di Abbottabad fosse Osama Bin Laden. Al 99,9%
non lo era. Ecco come lo so. Nel 2003, mentre filmavo l’inchiesta di
“Report” (Rai3) “L’Altro Terrorismo”, fui messo in contatto con un
fondatore di Al Qaeda in una capitale del Medioriente che ancora non
posso nominare. Ecco chi era costui, il mio insider: fu per quattordici
anni ai vertici della Jihad islamica internazionale, la culla di Al
Qaeda. Sedeva con Bin Laden e Hasan Al-Turabi nei palazzi governativi di
Khartoum in Sudan, fu il Dawa numero uno di Al Qaeda, il loro
‘Pontefice’ islamico. Decadi prima, nel 1981, lui si trovava al Cairo, e
poche ore dopo l’assassinio del presidente Anwar Sadat per mano di
membri dalla Jihad islamica egiziana, si ritrovò sbattuto sul pavimento
di una cella buia accanto ad altri estremisti religiosi, fra i quali vi
sarà anche un giovane medico che rispondeva al nome di Ayman Al Zawahri,
oggi capo di Al Qaeda.
Fetore,
grida terribili, ossa spezzate, testicoli arrostiti, due anni così,
parte della più violenta repressione dell’integralismo religioso nella
storia dell’Egitto, per poi essere scarcerato assieme ad altri
sopravvissuti e insieme deportati oltre il confine col Sudan. Una banda
di giovani esiliati con una cosa in comune: un odio implacabile per il
regime egiziano apostata e per ogni suo alleato, Israele, Stati Uniti ed
Emirati Arabi in testa. Formano una grande famiglia che vaga senza
sosta: prima Khartoum in Sudan, poi Sanaa nello Yemen, poi Peshawar e
Islamabad in Pakistan, dove lui in particolare stringe rapporti con la
leadership talebana. L’insider mi conferma che fu in Pakistan, molti
anni dopo, nel 1998, che avvenne ufficialmente la fusione fra due
componenti dell’Islam belligerante che, prese singolarmente, erano
relativamente pericolose, ma che messe a contatto si rivelarono
micidiali: le finanze di Bin Laden e la manovalanza specialistica degli
uomini di Al Zawahri, in altre parole la ‘nuova’ Al Qaeda.
L’incontro
con lui durò 7 ore, tutte passate in auto a vagare per le periferie di
questa capitale, al buio. Paranoici, terrorizzati. Mi disse: «La mia
specializzazione (la formazione spirituale dei membri di Al Qaeda) era
tale che nel 1995, in Sudan, Osama Bin Laden e Al-Turabi fecero a gara
per tenermi; Osama mi offrì un budget illimitato per addestrare i suoi
uomini». Parlammo di tante cose (riportate nel mio “Perché ci odiano”,
Rizzoli Bur 2006), ma di una non ho mai dato conto. Prima di arrivare al
punto, vi rivelo che al montaggio del servizio per “Report” in Rai;
chiamammo il traduttore arabo ufficiale della nostra Tv pubblica, un
docente universitario egiziano a Roma, il quale dopo appena 10 minuti
d’ascolto di questo insider di Al Qaeda si alzò nel panico e gridò che
si rifiutava di continuare… Preciso infine che il rango e la veridicità
dell’insider di Al Qaeda che incontrai mi fu confermata dal reporter
americano Alan Cullison del “Wall Street Journal”, autore di uno scoop
per aver scoperto in Afghanistan il pc dell’allora numero due di Al
Qaeda, Ayman Al Zawahri, dove il mio insider (volto e altri dettagli)
compariva fra i nomi top.
Ecco
ciò che non ho mai rivelato. In breve, l’insider mi disse nel 2003 che
Bin Laden era vivo, ma in condizioni drammatiche. L’ultimo corriere che
lo vide dopo il noto ‘incidente di Karachi’ – dove i servizi pakistani
Isi intercettarono un altro corriere, Ramzi bin al-Shibh, nel settembre
2002 – vide un uomo in fin di vita, non si reggeva in piedi, devastato
da diabete e nefrite, ovviamente impossibilitato a curarsi con la
complessa specialistica necessaria perché nascosto sulle montagne,
probabilmente sulla soglia della morte. Ciò accadeva nei primi mesi del
2003. Ma ancora prima i reporter del “The Guardian” Jason Burke e
Lawrence Joffe catturarono un video di Osama del 2001 dove già
quest’uomo appariva «magro come un fantasma e disabile». Siamo fra il
2001 e il 2003, immaginate se un ammalato in quelle condizioni arriva
sano e attivo al 2011, senza uno straccio di cure altamente
specialistiche a fronte di patologie gravissime già alla fase finale
otto anni prima.
Notate
ora una cosa di notevole spessore che avvalla la versione di un decesso
naturale di Bin Laden anni prima del maggio 2011: l’ultimo video
seriamente accreditato al vero Bin Laden risale al 2004, poi il buio
totale. Le sue trasmissioni successive sono cassette audio o video
irriconoscibili giudicate “quasi certamente dei falsi” dalla stessa Cia.
Ogni altro video che da allora ci è giunto ci mostra il suo n. 2, Ayman
Al Zawahri. Ora ci si chieda: come è possibile che negli anni cruciali
per il sostegno morale di Al Qaeda, sottoposta a operazioni di
annientamento globale, il loro leader carismatico non si fosse mai
curato di apparire con veemente retorica a loro sostegno? Mai una
singola volta. Be’, era morto. Stroncato dalla malattia come detto
sopra. Seymour Hersh neppure esamina questi fatti. E peggio. Il presunto
cadavere di Bin Laden viene sepolto in mare da una portaerei americana
alla velocità della luce, cioè a poche ore dalla morte. Nessuno al mondo
ha mai visto neppure una foto credibile almeno del volto del presunto
terrorista (mai processato).
Forse
ricordate che vi fu un’insurrezione globale dei musulmani che
chiedevano le prove sull’identità di Osama e un funerale islamico in
tutta regola. Washington rifiutò entrambi. Eppure bastava poco. Bin
Laden portava una cicatrice evidente a una caviglia, frutto di una
battaglia a Jaji in Afghanistan ai tempi dell’invasione russa. Bastava
una foto di essa per convincere il mondo che l’uomo ucciso ad Abbottabad
nel 2011 era lui. Ma no. Perché Seymour Hersh si è incredibilmente
scordato di questo dettaglio? Perché Hersh non sottolinea che se il
poveraccio nella camera da letto di Abbottabad fosse stato veramente
Osama Bin Laden, era tutto interesse della comunità internazionale
averlo vivo? Cristo, una fonte d’informazioni infinita, o imbarazzante,
eh Washington? Imbarazzante non perché quel tizio in Abbottabad era l’ex
alleato/stipendiato degli Usa
Bin Laden che poteva dirne tante…, ma perché quel tizio era un nessuno,
un fantoccio umano. 600 proiettili su un corpo per renderlo
irriconoscibile, letteralmente, come riporta anche Hersh, smembrato in
pezzi, per non aver grane…
In ultimo, gli scettici pro versione Usa
obietteranno che dopo la millantata operazione Abbottabad sarebbe stato
interesse di Al Qaeda smentire la versione di Washington con foto della
vera sepoltura di Osama sulle montagne centro-asiatiche. La risposta è
no, perché una tale rivelazione avrebbe esposto la leadership di Al
Qaeda al ridicolo in tutto il mondo islamico, cioè ci avrebbe rivelato
un’organizzazione allo sbando da anni senza figura leader. Chi capisce i
jihadisti sa di cosa parlo. E gran finale. La farsa dell’operazione
Abbottabad del 2011 esplode come un fuoco d’artificio fuori dalla Casa
Bianca e verso i media
alla vigilia della campagna elettorale di Obama nella primavera del
2011, appunto. Be’, concludo qui. Credo che ce ne sia abbastanza. Bin
Laden non arrivò vivo neppure a mille miglia dalla menzogna Abbottabad.
(Paolo Barnard, “Bin Laden era morto anni prima del blitz Usa, Seymour Hersh ha toppato”, dal blog di Barnard del 29 maggio 2015).
Gli Usa
non hanno mia ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una
nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso,
e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del
blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il
terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden
stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato
dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter
americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden,
versione Casa Bianca. Essa è pubblicata qui. Hersh ci rivela la solita montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla presidenza Usa,
dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’
operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio
2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la
storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del
Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da
Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia
ecc., la politica
estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un
scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte
ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).Articoli Recenti
Ancora menzogne sulla Grande Guerra, odissea nell’orrore
31/5 • Recensioni •
Certo
non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande
Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della
nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25
aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una
festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza
divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della
pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che
sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione
parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra
Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore,
autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato
scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia
(istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le
sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo
“istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così
come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del
20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24
maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione
istituzionale.
Nel
suo intervento Veneziani rispolvera tutto l’armamentario ideologico che
a proposito della Grande Guerra è stato usato nell’ultimo secolo,
riadattato ovviamente ad una sensibilità meno incline di una volta a
celebrare l’ardimento e l’eroismo, la guerra e l’annientamento del
“nemico”. E infatti Veneziani precisa subito che «ricordando l’entrata
in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la
guerra». E però, insiste, «col 24 maggio si vuole commemorare la nascita
di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un
rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa
ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello
scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o
smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima
Guerra Mondiale portò a compimento, come allora si disse, il
Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste,
quanto perché coinvolse per la prima volta il paese intero, da nord a
sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di
destino, fino a donare alla patria la propria vita».
«Quella
conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza,
diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio
sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica
popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni». Ecco,
questo è il senso comune che viene ancora una volta dispensato alle
nuove come alle vecchie generazioni, condannate a non avere accesso, sui
mezzi di comunicazione mainstream, a strumenti che gli consentano di
riflettere in maniera critica sulle vicende che hanno caratterizzato, in
maniera spesso drammatica, la storia individuale come quella
collettiva. Pochi i testi che tentano di contrastare la retorica
mistificatoria del “mito” della Grande Guerra, seppure edulcorato e reso
più adatto al contesto di generale, quanto spesso ipocrita, esaltazione
della pace, che viene sparso a piene mani; e che trova la sua sintesi
forse più brillante nelle drammatiche poesie dal fronte di Ungaretti,
lette dal poeta stesso in età avanzata e riproposte in questi giorni
dalla Rai col sottofondo della marcetta della “Canzone del Piave”.
Tra
i testi di fresca pubblicazione che possono costituire uno strumento
utile per demistificare in maniera documentata e puntuale tale retorica,
ce n’è uno particolarmente interessante. Si tratta del libro scritto di
recente da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, insegnati e
redattori dell’agenzia di stampa Adista i primi due, storico del
cristianesimo ed ex deputato nelle file degli indipendenti di sinistra
il secondo. “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai
raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi editore) non è certo
l’unico volume attualmente in circolazione ad avere un taglio “critico”
di assoluto rigore rispetto agli eventi considerati. Esso ha però il
pregio di essere specificamente destinato ad un pubblico di non
specialisti, cui gli autori propongono una serie di brevi ma documentati
saggi (completi di riferimenti storico-critici, bibliografici,
documenti e foto) che cercano di indagare aspetti che della Prima Guerra
Mondiale sono certamente noti a cultori, specialisti e studiosi di
storia contemporanea ma non al grande pubblico. Fatti che sono però di
fondamentale rilievo se si vuole restituire alla Grande Guerra il suo
volto più tragico e vero.
Gli
autori spiegano le ragioni dell’incredibile percorso che in pochi mesi
porta forze politiche, grandi giornali ed intellettuali a schierarsi dal
neutralismo più convinto all’interventismo più acceso. Il ruolo giocato
dalle forze industriali e dai poteri finanziari nel periodo che va
dalla fine del 1914 al maggio del 1915. Raccontano l’uso di armi
terribili durante i combattimenti, quali l’iprite, uno dei gas impiegati
nella guerra chimica, o le mazze ferrate utilizzate dai fanti per
finire i nemici agonizzanti, in genere proprio in seguito a un attacco
con quel gas. Viene inoltre descritta la capillare organizzazione della
prostituzione che lo Stato Maggiore dell’esercito offriva ai fanti ed
agli ufficiali – in maniera ovviamente diversa, dal momento che tutta la
guerra, come ben emerge da questo lavoro, viene combattuta secondo una
rigida concezione classista della vita militare. Una sorta di “sfogo
risarcitorio” nei confronti della disumanizzante esperienza del fronte,
con il conseguente, brutale sfruttamento delle donne e dei loro corpi,
sistematicamente ed istituzionalmente perpetrato.
Gli
autori svelano poi i casi di patologie mentali diffusi nelle trincee,
l’uso sistematico della repressione per impedire che si diffondesse tra i
soldati il rifiuto o il dissenso nei confronti della prosecuzione della
guerra: il francescano padre Agostino Gemelli, medico e psicologo,
collaborò con lo Stato Maggiore nell’individuare le strategie più
efficaci per mantenere il consenso e la disciplina tra i soldati. E
proprio dal punto di vista del ruolo della Chiesa cattolica nel grande
massacro, il libro analizza come – al di là della posizione
(sostanzialmente isolata e comunque neutralizzata da parte della
gerarchia ecclesiastica) di Benedetto XV – sia stato fondamentale il
ruolo dei cappellani militari. Quest’ultimi distribuivano nelle trincee
materiale devozionale (di cui nel libro vengono pubblicati alcuni
esempi) teso ad esaltare l’eroismo di coloro che si erano immolati per
la patria, rappresentavano Gesù nell’atto di accogliere in paradiso i
caduti o di incitare i soldati ad andare all’assalto; benedicevano i
gagliardetti militari e le truppe lanciate contro il nemico, intonando
Te Deum di ringraziamento per le stragi compiute.
Eppure,
anche dentro questo desolante quadro e nel contesto di una martellante
ideologia mistificatoria, si faceva largo una coscienza delle reali
ragioni della guerra: ecco allora i capitoli dedicati alle lettere
(censurate) dei soldati al fronte; gli appelli di donne ed uomini al re
affinché fermasse la strage; le canzoni che raccontavano la realtà di
classe della guerra, il cinema che già prima della pace di Versailles
aveva cominciato a raccontare cosa quella guerra fosse realmente. Come
fa questo libro che, scrivono gli autori nella loro introduzione,
intende creare “una solida coscienza critica del perché fu orrore quella
guerra, come e più di altre guerre. E suscitare ugualmente orrore nei
confronti della ‘grande menzogna’ attraverso la quale ancora oggi molti
vorrebbero continuare a ricordarla, nonostante devastazioni, lutti,
torture, prigionie, ruberie, deportazioni”.
(Giovanni
Avena, “Oltre la retorica, l’orrore della Grande Guerra”, da
“Micromega” del 22 maggio 2015. Il libro: Valerio Gigante, Luca Kocci,
Sergio Tanzarella, “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno
mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi editore, 170
pagiene, euro 13,90).
Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della
Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un
intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo
anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25
aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe
considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita
«all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche
rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70
anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100
anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani,
giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi
anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari
della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto
da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese –
visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare
indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il
“Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo
intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno,
l’occasione per una celebrazione istituzionale.
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