Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
31/10 •
Quando
la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della
difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post
sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori
traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà
stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far
West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il
baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli
americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata
e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui
rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica
americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione,
sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia
vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i
condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano
fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una
generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la
sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa
quotidiana e un tetto.
Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa
finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più
brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate
da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La
droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un
numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero
arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati
mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di
notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed
esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge,
dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i
malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto
sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era
semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e
stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli
rubavano avorio, organi, e anima.
E
poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione
d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio,
il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei
Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la
guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la
storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no.
La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte.
La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e
dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con
boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny
in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che
dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un
passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e
corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva
più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il
cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.
Dicono
i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato
l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di
capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai
carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un
disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi
dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su
Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi
dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla
supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata
Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al
suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale,
prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di
ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte.
Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra
mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la
transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste,
questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde,
l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati
ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San
Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati
nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o
suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.
E
così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti
prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il
cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli
l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui.
Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone
iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai
lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle
danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe
stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli
soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi.
Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev,
torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti
dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling
della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci
rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui
paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che
sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese
prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come
una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli
che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.
Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia
di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato,
legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia
mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i
focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione.
Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva,
riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership
alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche
del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro,
ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E
quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo
e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie
di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse
nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha
rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.
La
sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti,
gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più
insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare,
già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea
c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica
zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il
Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo
un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante
dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia
rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la
disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca
la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e
icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa
circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.
L’aspro
confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è
ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo
decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di
amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea
come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa
sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno
scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si
agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e
Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia
umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della
Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine
della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha
scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della
regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama,
cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle
sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.
Putin
è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere
mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro
che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar
quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato
dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e
sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da
riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già
scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della
difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la
campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma
sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di
Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti
umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione
russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa,
in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più
un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta
di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il
sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con
la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di
un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.
(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era
ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della
transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani
riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro
di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione
da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune
sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia
degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata,
lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel
momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica
americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione,
sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia
vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i
condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano
fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una
generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la
sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa
quotidiana e un tetto.Articoli Recenti
Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille
30/10 • idee •
«Negli
anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando
eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si
aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il
21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare
durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il
primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia
libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si
aggira attorno allo 0%, e l’economia
è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno
scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di
consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante
ciò, la media
attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo
Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi
per contribuire alla democratizzazione della politica
italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro
dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è
purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non
l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
«Più
lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume
Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi
soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente
contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel comparto pubblico,
oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato
(l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce
in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa
temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso.
«L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem
il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una
normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è
esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i
cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo
all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo:
recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino
Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.
Sulla
mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario
lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno
la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla
massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica
del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più
semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog
del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg,
le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro
annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il
“debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo
anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad immaginare questo».
Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a
quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a
colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.
Sotto
il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena
occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato
democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario:
uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e
direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in
Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare,
nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio,
ma anche un delitto: «Se c’è crisi,
se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è
un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa,
non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza
ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per
conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E
inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero
che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno
organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di
tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco»,
disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio
Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli
incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di
imprese e famiglie».
L’eventuale
futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt,
baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i
redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre
eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso,
che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo:
«Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire
di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia
reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi
posti di lavoro». A questo punto, aggiunge Bellisario, è giusto
ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano,
«concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o
Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard
grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai
limiti dell’umano”».
Se
uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente
illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in
ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un
“contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo:
tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere.
Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o
incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento,
mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni).
Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove
si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non
nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere.
Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo
Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare
prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi
tirando il manico».
«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro,
quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso
d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi
di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei
familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%:
«Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie
avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi
l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia
è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno
scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di
consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante
ciò, la media
attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo
Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi
per contribuire alla democratizzazione della politica
italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro
dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è
purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non
l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».Obama, l’uomo che non sapeva fare la guerra (né la pace)
29/10 • idee •
Obama
sta entrando nell’ultimo anni della sua presidenza ed è tempo di un
primo bilancio storico. Marc Bloch sostenne che i contemporanei hanno
diritto ad essere i primi a scrivere la storia del proprio tempo.
Ovviamente, si tratta sempre di una storia diversa da quella che
scriveranno le generazioni a venire: nessuno, come i contemporanei, sarà
mai in grado di apprezzare le più sottili sfumature di linguaggio, le
pieghe della mentalità, i particolari delle istituzioni e dell’economia,
in una parola, il “colore di quel tempo”. In compenso, i posteri
godranno il vantaggio del distacco, conosceranno cose prima segrete,
individueranno meglio le tendenze e lo stesso giudizio storico dei
contemporanei sarà un pezzo della loro analisi. Dunque, due forme di
conoscenza diverse ma non per questo una di maggior pregio dell’altra, e
in qualche modo, complementari. Dunque, che giudizio possiamo iniziare a
formarci di questa presidenza?
Obama arrivò alla Casa Bianca in un momento certo non facile: la crisi finanziaria si era appena conclamata, la situazione in Iraq ed Afghanistan si era incancrenita, la crisi
georgiana rivelava al mondo una Russia tornata potenza decisa a
ripristinare la propria influenza di area e le olimpiadi di Pechino
rivelavano una Cina in anticipo di circa venti anni sul ruolino di
marcia immaginato. E il progetto monopolare americano entrava in crisi mentre sorgeva la sfida degli emergenti per un mondo multipolare. Obama promise l’uscita dalla crisi, la riforma della finanza,
una cauta ripresa delle politiche di welfarestate (riforma sanitaria),
una parziale redistribuzione della ricchezza ed una America sempre unica
superpotenza, ma prima fra pari, insomma un progetto egemonico fatto di
forza ma anche di consenso, a metà fra il mono-polarismo unilateralista
di Bush e il progetto multicentrico degli emergenti.
Vediamo i risultati: la crisi
ha superato il primo momento, per riaffacciarsi (prevalentemente sul
versante europeo) nel 2010-11 e, anche in questa occasione, il momento
peggiore è stato superato, ma ora ci sono preoccupazioni per gli
emergenti (Cina, Brasile, Russia), l’Europa tarda a riprendersi e gli stessi Usa
registrano una ripresa ben lontana dal rimbalzo di altre occasioni,
sostenuto dagli animal spirits del suo capitalismo. Per certi versi la
sensazione è che la crisi stia per diventare meno acuta ma endemica, per adagiarsi in una lunga stagnazione. Peraltro, la riforma della finanza
è restata in larga parte sulla carta e, sostanzialmente non se ne parla
più, nonostante sia ormai vicina la scadenza del 2018 come data limite
per la sua entrata in vigore. E il capitalismo raider ha ripreso
vigorosamente le pratiche di sempre. Non solo il sistema è restato
uguale, ma non è stato neppure riformato nei suoi aspetti più
discutibili. Su questo piano siamo al punto di partenza.
La
riforma sanitaria, che avrebbe dovuto assicurare cure gratuite a 46
milioni di americani si è rivelata il classico topolino partorito dalla
montagna. Quanto alla redistribuzione della ricchezza, il divario fra
ricchi e poveri ha continuato tranquillamente a crescere come prima,
macellando il ceto medio. Non pare che il registro della politica interna e della politica
economico finanziaria esibisca un bilancio positivo, anzi direi che
viaggiamo fra il tre e mezzo e il quattro meno meno. In compenso, in politica
estera, i risultati sono decisamente peggiori e il voto è ancora più
basso. Obama (unico caso di Premio Nobel per la Pace a futura memoria)
fece ben sperare per le promesse di soluzione delle crisi
mediorientali e, per la verità, andò anche un po’ al di là del segno
con il discorso del Cairo in cui si sbracciò a rassicurare l’Islam che
l’Occidente non è suo nemico, anzi è amico, anzi è disposto a portargli
il caffè a letto. Va bene: un po’ di enfasi diplomatica. Dopo vennero le
primavere arabe nelle quali non seppe bene cosa fare, e giocò male la
carta libica, con il risultato di mettere in giro questa mina vagante di
una Libia tribalizzata che – forse, insisto: forse – trova solo ora una
qualche composizione.
Poi
il colpo di Stato in Egitto nel quale ha sostenuto i militari: possiamo
anche capire che i Fratelli Musulmani erano peggio, ma così siamo
tornati alla casella di partenza come nel gioco dell’oca. Poi la guerra
civile in Siria, dove ha alternato minacce e blandizie senza ottenere
nulla con le prime e peggiorando tutto con le seconde. Ad un certo punto
(settembre 2014) sembrava che sarebbe intervenuto entro 48 ore, ma poi
bastò una mezza mossa di Putin e non se ne parlò più. Nel frattempo,
cercò una via di uscita onorevole da Iraq ed Afghanistan, ma non
trovandola, si risolse ad un ritiro precipitoso e senza misure
prudenziali. Risultato: trovarsi fra i piedi l’Isis contro la quale ha
stimolato la nascita di una coalizione di paesi islamici che è
l’alleanza più inutile della storia. Gli Usa dicono di fare una guerra aerea spietata all’Isis, ma le truppe fondamentalisti dilagano lo stesso.
Questo
anche perché ha scelleratamente deciso di attaccare briga con la Russia
per la questione ucraina nella quale protegge il governo fascistoide di
una nazione inventata che rivendica il possesso di province da sempre
russofone (come il Donbass) o semplicemente russe (come la Crimea). Il
tutto al prezzo di far saltare quel minimo di equilibrio fra potenze che
si era creato. Non amo affatto Putin, ma in questa storia Obama si sta
comportando come un cavallo ubriaco che non sa dove andare ma scalcia in
tutte le direzioni. Insomma, se dovessi scrivere il paragrafo a lui
dedicato in un libro di storia, lo intitolerei “Il presidente che non
sapeva fare la guerra, ma non sapeva fare neppure la pace”.
(Aldo Giannuli, “Il giudizio storico su Obama”, dal blog di Giannuli del 17 ottobre 2015).
Obama sta entrando nell’ultimo anni della sua presidenza ed è tempo
di un primo bilancio storico. Marc Bloch sostenne che i contemporanei
hanno diritto ad essere i primi a scrivere la storia del proprio tempo.
Ovviamente, si tratta sempre di una storia diversa da quella che
scriveranno le generazioni a venire: nessuno, come i contemporanei, sarà
mai in grado di apprezzare le più sottili sfumature di linguaggio, le
pieghe della mentalità, i particolari delle istituzioni e dell’economia,
in una parola, il “colore di quel tempo”. In compenso, i posteri
godranno il vantaggio del distacco, conosceranno cose prima segrete,
individueranno meglio le tendenze e lo stesso giudizio storico dei
contemporanei sarà un pezzo della loro analisi. Dunque, due forme di
conoscenza diverse ma non per questo una di maggior pregio dell’altra, e
in qualche modo, complementari. Dunque, che giudizio possiamo iniziare a
formarci di questa presidenza?Carne e cancro, di colpo l’ovvio fa notizia e dilaga sui media
28/10 • segnalazioni •
L’oncologia
– che considera il cancro un “male incurabile” – continua a
somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione
dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa
delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi
risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la
bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata
nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca
sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti
sul legame tra alimetazione e tumore conferma quello che i terapeuti
“alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare
carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello,
pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni
grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di
un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli
ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente
somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».
Ora
fa molto rumore lo studio dell’Oms, secondo cui, per ogni porzione di
50 grammi di carne al giorno, il rischio di cancro del colon-retto
aumenta del 18%, così come per i tumori al pancreas e alla prostata. Nel
mirino in particolare le “carni lavorate”, come i wurstel, equiparati –
come sostanze cancerogene – a fumo, amianto, arsenico e benzene. Sotto
accusa, secondo i tecnici Onu, la trasformazione “attraverso processi di
salatura, polimerizzazione, fermentazione, affumicatura”, oppure le
carni “sottoposte ad altri processi per aumentare il sapore o migliorare
la conservazione”. Massima prudenza, avverte l’Oms, con gli hot dog,
prosciutti e salsicce, nonché la carne in scatola e le salse a base di
carne. Il rischio di sviluppare cancro all’intestino a causa del consumo
di carne “processata” aumenta in proporzione al quantitativo consumato,
avverte il dottor Kurt Straif, capo dello Iarc Monographs Programme. Il
più celebre oncologo italiano, il professor Umberto Veronesi, da
decenni ha deciso di rinunciare alla carne: «Il mio consiglio da
vegetariano – dice – è quello di eliminare del tutto il consumo di
carne».
Veronesi
saluta come «un grande passo avanti» la “scoperta” della relazione fra
alimentazione e tumori: «L’identificazione certa di una nuova sostanza
come fattore cancerogeno è sempre e comunque una buona notizia in sé,
perchè aggiunge conoscenza e migliora la prevenzione». La
raccomandazione per un regime alimentare “vegano” non è però presente
nel protocollo ufficiale anti-cancro del ministero della sanità
italiano, la cui attuale titolare, Beatrice Lorenzin, ora si limita a
consigliare, in generale, la “dieta mediterranea”. Secondo le
statistiche, il 9% degli italiani mangia carne rossa o insaccati tutti i
giorni, e il 56% 3-4 volte a settimana. Il tumore più diffuso in Italia
è proprio quello al colon-retto, con quasi 55.000 diagnosi nel 2013.
Salumi a parte, se sotto accusa sono le carni grigliate (che sviluppano
idrocarburi) sono gli statunitensi, seguiti da australiani, francesi e
tedeschi. In Italia ogni anno si calcola vengano consumate “solo” 24
milioni di grigliate all’anno.
Il
Codacons ha deciso di presentare un’istanza urgente al ministero della
salute e un esposto al Pm di Torino Raffaele Guariniello, affinché siano
valutate misure a tutela della salute. «L’Oms non lascia spazio a
dubbi», sostiene il presidente, Carlo Rienzi. «Il principio di
precauzione impone in questi casi l’adozione di misure anche drastiche»,
compresa eventualmente «la sospensione della vendita per quei prodotti
che l’Oms certifica come cancerogeni». Per i produttori di carne, la
tempesta mediatica può trasformarsi in catastrofe commerciale: secondo
la Coldiretti, le carni italiane sono più sane perché magre, non
trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di
produzione. «Hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della
tradizione italiana», sottolinea l’associazione degli agricoltori.
Inoltre, da noi il consumo di carne (78 chili a testa) è molto al di
sotto di quelli di paesi come gli Usa
(125 chili a persona) o l’Australia (120 chili), ma anche dei cugini
francesi (87 chili). Secondo Assocarni e Assica, l’associazione dei
salumifici industriali, gli italiani mangiano in media
due volte la settimana 100 grammi di carne rossa e solo 25 grammi al
giorno di carne trasformata. «Un consumo che è meno della metà dei
quantitativi individuati come potenzialmente a rischio cancerogeno».
Carne
e cancro? Anna Villarini, nutrizionista dell’Istituto Nazionale dei
Tumori, non si scompone: «Lo sapevamo già dal 2007, ma c’erano studi
precedenti: le carni conservate sono associate a tumore dello stomaco,
sia per la presenza di conservanti che vengono aggiunti che si
trasformano in cancerogeni all’interno dello stomaco, sia per la
presenza eccessiva di sale che è un fattore di rischio». E aggiunge: «Le
carni rosse, oltre che per la cottura, sono di per sé un fattore di
rischio per il tumore del colon. Dovrebbero essere consumate veramente
poco, e invece sono entrate in maniera preponderante sulle nostre
tavole». Dieta alternativa per chi ha il cancro? Zero carne: solo
frutta, verdura e cereali. Se ne occupa anche la “medicina oncologica
integrata”, spiega il dottor Massimo Bonucci a “Panorana”. E ormai è una
realtà in molti paesi, dove esistono persino ospedali con reparti
interamente dedicati all’alimentazione anti-cancro.
«A
livello internazione la medicina integrata è una realtà», spiega il
medico. «Negli Stati Uniti ci sono ben 52 università dove viene
insegnata». Una strada «ormai percorsa e riconosciuta, così come in
Giappone: l’efficacia di molte sostanze è avvalorata non solo da studi
scientifici, ma anche da “trial” clinici molto importanti». All’estero,
aggiunge Bonucci, la possibilità di avere benefici da un’alimentazione
mirata (e da sostanze naturali) nella cura delle patologie oncologiche
«non è messa in dubbio». Si parla di curcuma, artemisia e altre essenze,
dotate di potenti principi attivi. Un guru della nutrizione
“integralista” come Valdo Vaccaro raccomanda di consumare solo frutta e
verdura, in caso di insorgenza tumorale. Ma negli ospedali italiani
l’aspetto alimentare (fonte primaria del problema, a quanto pare) è
completamente trascurato. Ai malati vengono somministrate chemioterapia e
radioterapia. E magari una bella fetta di prosciutto.
L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua
a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando
l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida
persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in
genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali.
Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”,
ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si
occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre
800 studi precedenti sul legame tra alimentazione e tumore conferma
quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso
per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e
manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli
insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo
Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative
contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti
oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate
merendine confezionate e fette di prosciutto».
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