Chemioterapia? No, grazie: non guarisce e uccide prima
“Non
somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”,
recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo rispettano? E che
dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia, così come i
governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro basato su
chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca
condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo
dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley.
Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i
malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche
sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne
malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie
convenzionali mostrano una sopravvivenza media
di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni)
raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca,
pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da
carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.
Se
queste ricerche sono veritiere, osserva Marcello Pamio, autore di
“Cancro SpA, leggere attentamente le avvertenze”, una persona malata di
tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se
non segue i protocolli terapeutici ufficiali. «Con questo non si vuole
assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami», ma si vogliono
fornire semplicemente «informazioni che normalmente vengono oscurate».
Informazioni spesso decisive per trovare la giusta terapia. «La scelta è
sempre e solo individuale: ogni persona deve assumersi la propria
responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo
smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che
sia. Nessun altro deve poter decidere al posto nostro». Tra le cose che
normalmente il sistema sanitario non ci racconta, oltretutto, c’è
l’auto-guarigione: un’altissima percentuale di individui è affetta
(senza saperlo) da tumori “in situ”, neutralizzati e resi inoffensivi
dall’organismo. Lo ha spiegato Luigi De Marchi, psicologo clinico,
autore di saggi conosciuti a livello internazionale: moltissimi di noi
convivono con tumori inoffensivi, “incapsulati” all’interno del corpo.
Parlando
con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle
diagnosi e delle terapie anti-tumorali, De Marchi si sentì rispondere:
«Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini
delle nostre valli più sperdute, ho trovato tumori regrediti e
neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era
guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del
tutto indipendenti dalla patologia tumorale». Ma allora, si domandò De
Marchi, la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli
ultimi decenni è solo un’illusione ottica? E’ prodotta dalla diffusione
delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e
regredivano naturalmente? «E se il tanto conclamato incremento della
mortalità da cancro fosse solo il risultato dell’angoscia di morte
prodotta sia dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli
ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte
dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della medicina
ufficiale?». Dubbio atroce: l’angoscia da diagnosi infausta e
l’avvelamento da chemioterapia possono sabotare la capacità di
auto-guarigione?
«Con
quanto detto da Luigi De Marchi – confermato anche da autopsie eseguite
in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia – si arriva
alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano)
uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli», continua Pamio
sul sito di “Arianna”, editrice specializzata in informazione
alternativa, anche medica. Dall’indagine autoptica elvetica, eseguita su
migliaia di persone decedute in incidenti stradali, è risultato
qualcosa di sconvolgente: il 38% delle donne tra i 40 e 50 anni
presentava un tumore al seno, il 48% degli uomini sopra i 50 anni aveva
un tumore alla prostata, e il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni
presentava un tumore alla tiroide. Attenzione: tutti tumori “in situ”,
cioè incapsulati dal corpo e resi innocui. «Nel corso della vita è
infatti “normale” sviluppare tumori: la stessa medicina sa bene che sono
migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo.
Vengono distrutte o fagocitate dal sistema immunitario, se l’organismo
funziona correttamente». Molti tumori regrediscono o rimangono incistati
per lungo tempo, quando la forza risanatrice di ognuno è libera di
agire. E se invece l’organismo viene gravemente debilitato da farmaci
invasivi?
Il
più pericoloso è proprio la chemioterapia, il cui principio terapeutico
è brutalmente semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche
per uccidere le cellule cancerose.
Tuttavia,
«non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle
neoplastiche (impazzite)», cioè i tessuti tumorali da quelli sani,
«questa feroce azione mortale colpisce e distrugge l’intero organismo
vivente». In altre parole, «si sono dimenticati di dirci che queste
sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni». Racconta una
paziente: «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene.
L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi
perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto
con la sua pelle l’avrebbe bruciata». Corollario: giorni interi in preda
al vomito, perdita dei capelli, debilitazione catastrofica. «Ero una
morta che camminava». Un malato di tumore viene avvertito che la chemio
gli provocherà (forse) nausea, vomito e perdita dei capelli, ma siccome
la chemio è l’unica cura ufficiale riconosciuta «si devono stringere i
denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’azienda
ospedaliera da qualsiasi responsabilità».
In
Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha stampato un fascicolo dal
titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per
tutti gli addetti ai lavori, infermieri e medici che maneggiano
fisicamente le fiale per la chemio. Sfogliando l’elenco dei veleni che
compongono il cocktail letale, c’è de restare secchi. Ad esempio, gli
“antraciclinici” sono “potenzialmente mutageni e cancerogeni” e possono
produrre “cardiomiopatia cronica”, mortale nel 50% dei casi. Altra
sostanza, la “procarbazina”: anch’essa cancerogena e mutagena, è anche
teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un
rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati
anche con radioterapia. Un altro documento, sempre del ministero della
sanità (commissione oncologica nazionale), avverte i sanitari del pericolo
dell’esposizione ai veleni chemioterapici: «Si parla espressamente dei
rischi per operatori e pazienti». Testualmente: «Nonostante numerosi
chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla Iarc
(International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli
agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o
probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano
le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 “Protezione da agenti
cancerogeni”».
«Infatti,
trattandosi di farmaci – continua il documento ministeriale – non sono
sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/Cee e
quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 “Può provocare il
cancro” o la menzione R49 “Può provocare il cancro per inalazione”».
Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono
essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché
sono considerate “farmaci”. L’agenzia, scrive Pamio, è arrivata a queste
definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio
“secondo tumore”, che nei pazienti trattati con chemioterapici
antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. «Infatti,
nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di
tumori secondari non correlati con la patologia primitiva». Massima
allerta anche alla voce “smaltimento”: «Tutti i materiali residui dalle
operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi
protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi,
siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti
speciali ospedalieri». Vanno bruciati in inceneritore, a 1000 gradi, e
non senza rischi: «La termossidazione, pur distruggendo la molecola
principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di
combustione che conservano attività mutagena».
È
pertanto preferibile «effettuare un trattamento di inattivazione
chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad
incenerimento», conclude il ministero, secondo cui sono un pericolo
anche le urine dei pazienti sottoposti al trattamento: «Dovrebbero
essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate
concentrazioni di principio attivo». Nemmeno si trattasse di scorie
nucleari: ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? «L’amara
conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che
l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze
chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano
mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei
discendenti)», scrive Pamio. «C’è qualcosa che non torna: perché ad una
persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale,
debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così
tossiche?».
Parlano
chiaro i bugiardini dei farmaci velenosi, come le “mostarde azotate”.
Incredibile ma vero, scrive sempre il ministero, queste sostanze-killer
«furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali
armi chimiche». Particolarmente imbarazzante, oggi, il bilancio
dell’oncologia dopo quarant’anni di inutile accanimento chemioterapico:
oltre a non guarire dal tumore, i pazienti vengono intossicati e
subiscono la proliferazione di tumori secondari, provocata proprio da
componenti per “armi di distruzione di massa”, loro somministrate per
via endovenosa. E’ il business del secolo, accusano i critici: non è un
caso che Big Pharma si premuri di gettare discredito sulle terapie
alternative, ormai sempre più diffuse viste le elevate possibilità di
guarigione che sembrano offrire, senza peraltro compromettere
l’organismo. Chemioterapia? No, grazie. «Per “curare” il tumore oggi
vengono utilizzati degli “agenti vescicanti”, prodotti militari usati
nelle guerre chimiche», conclude Marcello Pamio. «Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto».
“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco
mortale”, recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo
rispettano? E che dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia,
così come i governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro
basato su chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la
vasta ricerca condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo
dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley.
Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i
malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche
sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne
malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie
convenzionali mostrano una sopravvivenza media
di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni)
raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca,
pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da
carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.Se queste ricerche sono veritiere, osserva Marcello Pamio, autore di “Cancro SpA, leggere attentamente le avvertenze”, una persona malata di tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se non segue i protocolli terapeutici ufficiali. «Con questo non si vuole assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami», ma si vogliono fornire semplicemente «informazioni che normalmente vengono oscurate». Informazioni spesso decisive per trovare la giusta terapia. «La scelta è sempre e solo individuale: ogni persona deve assumersi la propria responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che sia. Nessun altro deve poter decidere al posto nostro». Tra le cose che normalmente il sistema sanitario non ci racconta, oltretutto, c’è l’auto-guarigione: un’altissima percentuale di individui è affetta (senza saperlo) da
tumori “in situ”, neutralizzati e resi inoffensivi dall’organismo. Lo ha spiegato Luigi De Marchi, psicologo clinico, autore di saggi conosciuti a livello internazionale: moltissimi di noi convivono con tumori inoffensivi, “incapsulati” all’interno del corpo.
Parlando con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle diagnosi e delle terapie anti-tumorali, De Marchi si sentì rispondere: «Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini delle nostre valli più sperdute, ho trovato tumori regrediti e neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del tutto indipendenti dalla patologia tumorale». Ma allora, si domandò De Marchi, la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli ultimi decenni è solo un’illusione ottica? E’ prodotta dalla diffusione delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e regredivano naturalmente? «E se il tanto conclamato incremento della mortalità da cancro fosse solo il risultato dell’angoscia di morte prodotta sia dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della medicina ufficiale?». Dubbio atroce: l’angoscia da diagnosi infausta e l’avvelamento da chemioterapia possono sabotare la capacità di auto-guarigione?
«Con quanto detto da Luigi De Marchi – confermato anche da autopsie eseguite in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia – si arriva alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano) uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli», continua Pamio sul sito di “Arianna”, editrice specializzata in informazione alternativa, anche medica. Dall’indagine autoptica elvetica, eseguita su migliaia di persone decedute in incidenti stradali, è risultato qualcosa di sconvolgente: il 38% delle donne tra i 40 e 50 anni presentava un tumore al seno, il 48% degli uomini sopra i 50 anni aveva un tumore alla prostata, e il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni presentava un tumore alla tiroide. Attenzione: tutti tumori “in situ”, cioè incapsulati dal corpo e resi innocui. «Nel corso della vita è infatti “normale” sviluppare tumori: la stessa medicina sa bene che sono migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo. Vengono distrutte o fagocitate dal sistema immunitario, se l’organismo funziona correttamente». Molti tumori regrediscono o rimangono incistati per lungo tempo, quando la forza risanatrice di ognuno è libera di agire. E se invece l’organismo viene gravemente debilitato da farmaci invasivi?
Il più pericoloso è proprio la chemioterapia, il cui principio terapeutico è brutalmente semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche per uccidere le cellule cancerose. Tuttavia, «non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle neoplastiche (impazzite)», cioè i tessuti tumorali da quelli sani, «questa feroce azione mortale colpisce e distrugge l’intero organismo vivente». In altre parole, «si sono dimenticati di dirci che queste sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni». Racconta una paziente: «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene. L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto con la sua pelle l’avrebbe bruciata». Corollario: giorni interi in preda al vomito, perdita dei capelli, debilitazione catastrofica. «Ero una morta che camminava». Un malato di tumore viene avvertito che la chemio gli provocherà (forse) nausea, vomito e perdita dei capelli, ma siccome la chemio è l’unica cura ufficiale riconosciuta «si devono stringere i denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’azienda ospedaliera da qualsiasi responsabilità».
In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha stampato un fascicolo dal titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per tutti gli addetti ai lavori, infermieri e medici che maneggiano fisicamente le fiale per la chemio. Sfogliando l’elenco dei veleni che compongono il cocktail letale, c’è de restare secchi. Ad esempio, gli “antraciclinici” sono “potenzialmente mutageni e cancerogeni” e possono produrre “cardiomiopatia cronica”, mortale nel 50% dei casi. Altra sostanza, la “procarbazina”: anch’essa cancerogena e mutagena, è anche teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con radioterapia. Un altro documento, sempre del ministero della sanità (commissione oncologica nazionale), avverte i sanitari del pericolo dell’esposizione ai veleni chemioterapici: «Si parla espressamente dei rischi per operatori e pazienti». Testualmente: «Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla Iarc (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 “Protezione da agenti cancerogeni”».
«Infatti, trattandosi di farmaci – continua il documento ministeriale – non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/Cee e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 “Può provocare il cancro” o la menzione R49 “Può provocare il cancro per inalazione”». Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché sono considerate “farmaci”. L’agenzia, scrive Pamio, è arrivata a queste definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio “secondo tumore”, che nei pazienti trattati con chemioterapici antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. «Infatti, nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di tumori secondari non correlati con la patologia primitiva». Massima allerta anche alla voce “smaltimento”: «Tutti i materiali residui dalle operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi, siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti speciali ospedalieri». Vanno bruciati in inceneritore, a 1000 gradi, e non senza rischi: «La termossidazione, pur distruggendo la molecola principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di combustione che conservano attività mutagena».
È pertanto preferibile «effettuare un trattamento di inattivazione chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad incenerimento», conclude il ministero, secondo cui sono un pericolo anche le urine dei pazienti sottoposti al trattamento: «Dovrebbero essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate concentrazioni di principio attivo». Nemmeno si trattasse di scorie nucleari: ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? «L’amara conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei discendenti)», scrive Pamio. «C’è qualcosa che non torna: perché ad una persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale, debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così tossiche?».
Parlano chiaro i bugiardini dei farmaci velenosi, come le “mostarde azotate”. Incredibile ma vero, scrive sempre il ministero, queste sostanze-killer «furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali armi chimiche». Particolarmente imbarazzante, oggi, il bilancio dell’oncologia dopo quarant’anni di inutile accanimento chemioterapico: oltre a non guarire dal tumore, i pazienti vengono intossicati e subiscono la proliferazione di tumori secondari, provocata proprio da componenti per “armi di distruzione di massa”, loro somministrate per via endovenosa. E’ il business del secolo, accusano i critici: non è un caso che Big Pharma si premuri di gettare discredito sulle terapie alternative, ormai sempre più diffuse viste le elevate possibilità di guarigione che sembrano offrire, senza peraltro compromettere l’organismo. Chemioterapia? No, grazie. «Per “curare” il tumore oggi vengono utilizzati degli “agenti vescicanti”, prodotti militari usati nelle guerre chimiche», conclude Marcello Pamio. «Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto».
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