In
una sola giornata la sinistra riceve due colpi secchi perdendo (e
male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia.
Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista,
europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e
altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza
di cambiamento e di affrontare una crisi
internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre
dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una
reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto
la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità
di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un
attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente
e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i
capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire
anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque,
non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però
non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di
Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di
Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una
momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale
contro l’aggressione subita.
Il guaio è l’incapacità di Hollande di affrontare la crisi
economica, con punte di disoccupazione mai viste e di avere una
politica estera di qualche autonomia. Ed i due aspetti c’è un evidente
nesso: nella questione greca Hollande si è comportato come il
valletto-capo della Merkel e non ha avuto un guizzo di soggettività,
mentre sulla questione ucraina e sulla Siria si è comportato come il
maggiordomo di casa Obama. I francesi, si sa, hanno una idea molto alta
di sé stessi e sono attenti tanto allo stato economico della nazione
quanto alla politica estera ed uno straccio di presidente così proprio
non lo tollerano. Di Hollande si può parlare solo per ridere e, se non
fosse stato per la caduta di popolarità di quell’altra macchietta di
Sarkozy ed per il noto infortunio di Dominique Strauss-Kahn, mai avrebbe
potuto sognare di sedere sulla sedia che fu di De Gaulle e di
Mitterrand. Quanto al Ps francese, è un partito spento sin dal
dopo-Mitterrand (che pure concluse il suo ciclo presidenziale che la
solenne bestialità dell’euro).
Ed ora siamo all’ennesimo insuccesso della socialdemocrazia
neoliberista ridotta ormai a succedaneo dei partiti della destra
democristiana e liberale.
Questo schema a tre, che sino a cinque anni fa, rappresentava il 90% dell’elettorato europeo, non funziona più: la crisi
fa emergere con troppa evidenza la natura elitaria ed antipopolare di
quel sistema politico ed insorgono i vari movimenti populisti. Anche i
partiti socialisti di sinistra o comunisti d’Europa farebbero bene a chiedersi come mai abbiano intercettato ben poco del malessere sociale seguito all’esplosione della crisi
e che, invece (salvo il caso di Syriza, sin che regge) si è riversato
sui nuovi partiti populisti. La sinistra d’antan ha preferito guardare
verso le pulsioni altermondialiste latinoamericane, di cui i chavisti
erano la punta di diamante. Guardare e predicare, ma guardandosi bene
dall’imitare. In realtà, anche nel caso sudamericano, si trattava di una
variante dello schema populista, che mescolava marxismo, cattolicesimo
sociale e peronismo e che non era in grado di esprimere una reale
alternativa di governo. Di fatto, l’esperimento chavista è stato l’uso
della rendita petrolifera per fondare un welfare che ne distribuisse i benefici. Ottima cosa, ma destinata all’insuccesso in mancanza di una ristrutturazione dell’economia che desse al Venezuela un solido impianto industriale.
I paesi produttori di materie prime sono sempre i primi ad essere colpiti dalle crisi,
come è puntualmente accaduto nel Venezuela degli ultimi quattro anni
che ha dovuto gonfiare il suo debito. La formula ha funzionato in
termini di consenso sin quando il debito non è esploso e sinchè il gioco
era nelle mani di Chavez che, oltre che essere un personaggio
carismatico, era un sincero democratico che cercava il consenso
popolare. Ma, quando Chavez è morto, il gioco è passato nelle mani di un
piccolo burocrate stalinista come Maduro, incapace di gestire la crisi
economica e sociale del paese. L’elettorato (giustamente) non ha
perdonato a Maduro la brutale repressione della protesta studentesca di
due anni fa, condotta in perfetto stile fascista con l’uso della tortura
da parte della polizia. Né ha perdonato il dilagare della corruzione
fra militari, polizia e quadri del Pst. Senza quella vasta corruzione
(che per la verità c’era già ai tempi di Chavez che, però, si sforzava
di contrastarla) non si sarebbe potuto assistere al dilagare del mercato
nero che ha ridotto alla fame diversi strati di popolazione.
Ora
è arrivato il conto. Non credo affatto che la destra che ha vinto saprà
esser migliore e risolvere i problemi sociali del paese, ma gli
chavisti meritavano questo severo ceffone. E qui veniamo al perché la
sinistra perde, come si vede, in entrambe le versioni, quella elitaria e
quella populista. La risposta è semplice: perché in entrambi i casi è
una sinistra solo di nome e non di fatto. La sinistra non può essere
quella di chi difende l’oligarchia europeista, ma nemmeno quella dei
burocrati che fanno solo dell’egualitarismo verbale e per il resto
pensano solo a procurarsi privilegi e reagiscono con la repressione alle
proteste popolari. Già immagino i commenti dei difensori d’ufficio
dell’uno e degli altri: la sinistra deve imparare ad essere molto severa
con sé stessa e a non cedere ai facili giustificazionismi che servono
solo a porre le premesse della prossima sconfitta. Se vuol tornare a
vincere, la sinistra deve tornare ad essere reale forza di cambiamento,
il che significa prima di tutto autoprocessarsi per gli errori passati e
poi cambiare cultura politica, modelli organizzativi e forme di azioni.
Il peggior tradimento di una idea è la sua mummificazione, perché una
idea che non cambia nel tempo è una idea che tradisce sé stessa.
(Aldo Giannuli, “Francia e Venezuela, la sinistra che perde”, dal blog di Giannuli del 7 dicembre 2015).
In una sola giornata la sinistra riceve due colpi secchi perdendo (e
male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia.
Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista,
europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e
altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza
di cambiamento e di affrontare una crisi
internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre
dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una
reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto
la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità
di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un
attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente
e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i
capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire
anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque,
non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però
non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di
Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di
Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una
momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale
contro l’aggressione subita.Il guaio è l’incapacità di Hollande di affrontare la crisi economica, con punte di disoccupazione mai viste e di avere una politica estera di qualche autonomia. Ed i due aspetti c’è un evidente nesso: nella questione greca Hollande si è comportato come il

Questo schema a tre, che sino a cinque anni fa, rappresentava il 90% dell’elettorato europeo, non funziona più: la crisi fa emergere con troppa evidenza la natura elitaria ed antipopolare di quel sistema politico ed insorgono i vari movimenti populisti. Anche i partiti socialisti di sinistra o comunisti d’Europa farebbero bene a chiedersi come mai abbiano intercettato ben poco del malessere sociale seguito all’esplosione della crisi e che, invece (salvo il caso di Syriza, sin che regge) si è riversato sui nuovi partiti populisti. La sinistra d’antan ha preferito guardare verso le pulsioni altermondialiste latinoamericane, di cui i chavisti erano la punta di diamante. Guardare e predicare, ma guardandosi bene dall’imitare. In realtà, anche nel caso sudamericano, si trattava di una variante dello schema populista, che mescolava marxismo, cattolicesimo sociale e peronismo e che non era in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Di fatto, l’esperimento chavista è stato l’uso della rendita petrolifera per fondare un welfare che ne distribuisse i benefici. Ottima cosa, ma destinata all’insuccesso in mancanza di una ristrutturazione dell’economia che desse al Venezuela un solido impianto industriale.
I paesi produttori di materie prime sono sempre i primi ad essere colpiti dalle crisi, come è puntualmente accaduto nel Venezuela degli ultimi quattro anni che ha dovuto gonfiare il suo debito. La formula ha funzionato in termini di consenso sin quando il debito non è esploso e sinchè il gioco era nelle mani di Chavez che, oltre che essere un personaggio carismatico, era un sincero democratico che cercava il consenso popolare. Ma, quando Chavez è morto, il gioco è passato nelle mani di un piccolo burocrate stalinista come Maduro, incapace di gestire la crisi economica e sociale del paese. L’elettorato (giustamente) non ha perdonato a Maduro la brutale repressione della protesta studentesca di due anni fa, condotta in perfetto stile fascista

però, si sforzava di contrastarla) non si sarebbe potuto assistere al dilagare del mercato nero che ha ridotto alla fame diversi strati di popolazione.
Ora è arrivato il conto. Non credo affatto che la destra che ha vinto saprà esser migliore e risolvere i problemi sociali del paese, ma gli chavisti meritavano questo severo ceffone. E qui veniamo al perché la sinistra perde, come si vede, in entrambe le versioni, quella elitaria e quella populista. La risposta è semplice: perché in entrambi i casi è una sinistra solo di nome e non di fatto. La sinistra non può essere quella di chi difende l’oligarchia europeista, ma nemmeno quella dei burocrati che fanno solo dell’egualitarismo verbale e per il resto pensano solo a procurarsi privilegi e reagiscono con la repressione alle proteste popolari. Già immagino i commenti dei difensori d’ufficio dell’uno e degli altri: la sinistra deve imparare ad essere molto severa con sé stessa e a non cedere ai facili giustificazionismi che servono solo a porre le premesse della prossima sconfitta. Se vuol tornare a vincere, la sinistra deve tornare ad essere reale forza di cambiamento, il che significa prima di tutto autoprocessarsi per gli errori passati e poi cambiare cultura politica, modelli organizzativi e forme di azioni. Il peggior tradimento di una idea è la sua mummificazione, perché una idea che non cambia nel tempo è una idea che tradisce sé stessa.
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