venerdì 31 agosto 2012

Non riesce ad affrontare la crisi: la politica si suicida


Non riesce ad affrontare la crisi: la politica si suicida

DI GIANNI RALLO
6-monti mario
E’ troppo forte il sospetto, sempre meno sospetto e sempre più indignata constatazione, che la politica, in nome di drammatici stravolgimenti nei rapporti sociali a favore dei potenti, abbia ceduto il posto al killeraggio tecnico
La verità è limpidamente venuta fuori al Lingotto di Torino, è toccato a Marchionne svelarla a un’Italia sofferente e delusa: la colpa della crisi è dei diritti dei lavoratori.
Non si riesce a creare lavoro perché lo Stato sociale (o Welfare State che dir si voglia) protegge troppo i lavoratori.
Paradossalmente, dice. E loda Monti perché sta intervenendo proprio in questa direzione, quella giusta.
Una assoluta perla concettuale va citata: “Per avere bisogna dare”. Da che pulpito! Che importa se il 10% per cento degli italiani detiene il 44% della ricchezza nazionale, se gli imprenditori denunciano un reddito inferiore ai loro dipendenti, se la lotta all’evasione è, quindi, solo di facciata, se chi ha uno yacht può evitare di pagare le relative tasse grazie ad opportune modifiche (non a caso ribattezzate “salva-yacht”) al decreto liberalizzazioni, se elettricità, gas e benzina aumentano a dismisura senza che il governo batta ciglio, se i suicidi sono in rapido aumento, se la vendita di auto crolla del 40%?
E le 12 mila imprese che hano chiuso i battenti nel 2011?
Che importa tutto ciò?
La colpa è chiaramente dei lavoratori e lì occorre fermamente intervenire: il democraticissimo Monti è disposto, rispetto alla “riforma” del mercato del lavoro, al dialogo ma solo se si fa come dice lui.
La Fornero si sente, dal canto suo, in dovere di aggiungere qualche opportuna delucidazione: non di diritto a licenziare si tratta ma della possibilità di riformulare l’entità delle risorse umane impiegate in base alle nuove condizioni di mercato….
Spettacolare fuoco d’artificio linguistico per dire, come volevasi dimostrare, “licenziare”. La forma è salva, il didietro dei lavoratori meno.
Ma dopo la satira amara è opportuno sviluppare qualche considerazione più articolata e profonda.
Cominciamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Lo stato di grave depressione economica di Europa (compresa quella dell’Est) e Giappone, il pericolo concreto che l’ideologia comunista riuscisse ad infiltrarsi in questo malessere, spinse gli Stati Uniti ad elaborare, alla fine della guerra, un piano economico che consentisse concretamente ai Paesi in difficoltà di riprendersi e tornare ad essere partner commerciali interessanti; che, nel contempo, desse una spinta all’economia Usa; che, soprattutto, permettesse agli Stati Uniti di affermare il proprio definitivo dominio, economico e ideologico, sul mondo occidentale (Europa e Giappone). Si tratta del Piano Marshall che doveva in 4 anni (1948-1952) investire 17 miliardi di dollari a favore di 16 Paesi (i Paesi dell’Est declinarono l’offerta intuendo il vero scopo dell’operazione).
Da quel momento in poi gli Stati Uniti si presentarono come modello economico e ideologico definitivo: il liberismo da una parte (il mercato come sommo dio a cui tutto deve piegarsi) e la democrazia dall’altra (si veda, a questo proposito, l’illuminante ultimo numero di Limes, in edicola in questi giorni, dove si spiega che quel tipo di democrazia è funzionale al capitale, i valori che difende sono cioè validi non in sé, ma solo fintantoché portano profitto).
L’intervento Usa ebbe l’effetto di stimolare uno straordinario rilancio delle economie occidentali, tanto da far parlare di Trent’anni gloriosi (1945-1975).
Nel corso di questo periodo di crescita (efficacemente rappresentato, per quanto riguarda l’Italia, dal film Il boom con Alberto Sordi) portata avanti nel nome, appunto, del liberismo gli squilibri sociali risultarono particolarmente accentuati, le ingiustizie palesi e pericolose dal punto di vista della sicurezza sociale (scioperi, proteste, etc.), i sindacati alzarono la voce.
Gli Stati europei decisero di riprendere le indicazioni dell’economista americano John Maynard Keynes che, negli anni Trenta, aveva già individuato la necessità di un intervento dello Stato nell’economia per porre rimedio alle ingiustizie create dal libero mercato, il Welfare State, appunto.
Fu così che si stanziarono risorse per l’assistenza sanitaria, le pensioni, l’istruzione, l’assistenza ai disoccupati, etc.
Ma all’inizio degli anni Settanta una serie di accidenti economici mise in difficoltà i Paesi occidentali (di Cina ancora non si parlava, di India nemmeno): le politiche militari ed economiche americane avevano creato una forte inflazione che, attraverso l’emissione e la messa in circolazione di nuovi dollari, fu esportata fuori dagli Usa (ricordate gli eurodollari?); le crisi petrolifere, legate alle guerre israelo-palestinesi, avevano fatto crescere a dismisura il prezzo del petrolio; i Paesi emergenti di allora (Brasile, Corea, Hong Kong, Singapore, Taiwan, Jugoslavia, Grecia, Spagna) mettevano in crisi l’Occidente con il basso costo della loro manodopera.
E’ negli anni Ottanta che inizia una lunga ripresa. Le imprese avevano reagito alla crisi sia con l’introduzione delle nuove tecnologie in fase produttiva, sia con nuovi prodotti elettronici.
Ma restava da risolvere il fatto che il minore impiego di manodopera generica e la maggiore necessità di manodopera specializzata si scontrava, da una parte, con la difficoltà di licenziare, dall’altra, con il maggior costo della forza-lavoro.
Fu così che si mise mano ad una rimodulazione (già allora!) dello Stato sociale, nel senso di una riduzione dei servizi ai cittadini e di una maggiore attenzione all’iniziativa privata, ma anche a politiche deflazionistiche, cioè di minor circolazione del denaro, cosa che, riducendo i finanziamenti alle imprese, provocò un ulteriore aumento della disoccupazione (34 milioni di disoccupati nel 1993) e un ampliamento del divario tra ricchi e poveri a livello mondiale.
Ora, senza voler andare oltre con la ricostruzione storica di un fenomeno che, come si vede non è occasionale né estraneo al sistema capitalistico, vale la pena di ricordare che appartiene al clima di rimonta degli egoismi capitalistici di quegli anni l’inizio degli interventi americani nel Golfo Persico (le due Guerre del Golfo), appartiene a quegli anni, per l’Italia, l’entrata in politica di Berlusconi (e dovrebbe essere chiaro,ora, come dietro al becerume delle sue espressioni vi fosse la sfrenata messa in discussione di importanti conquiste sindacali, art. 18 compreso), l’apertura dei mercati mondiali con l’imposizione della globalizzazione ad opera degli Stati Uniti e delle organizzazioni internazionali come la Banca mondiale e il Fmi (entrambi sotto il controllo Usa, si badi bene), la conseguente massiccia delocalizzazione delle imprese alla ricerca del massimo profitto possibile, la nascita dell’Europa delle banche.
La ripresa venne pagata dai soliti noti e ci fu un altro periodo di crescita che vide, però, il prevalere della finanza (cioè dell’egoismo allo stato puro) sull’economia reale e l’emergere di potenze temibili come la Cina e l’India le quali, assolutamente impermeabili a qualunque discorso sui diritti umani (altro aspetto del puro egoismo che caratterizza l’economia basata sul solo mercato), riuscirono in breve ad imporre i loro prodotti a prezzi insostenibili per le economie occidentali che, anzi, se ne videro sommersi.
Dopo una inutile campagna di sensibilizzazione al rispetto dei diritti umani rivolta a quei Paesi, dopo lo scoppio, nel 2008, della bolla finanziaria (sempre a partire dagli Stati Uniti), parte del mondo occidentale si trovò costretto a seguire il modello orientale: incidere sul costo del lavoro comprimendo i salari.
E’ il caso italiano e spagnolo. Altri Paesi hanno puntato sugli investimenti in ricerca e tecnologia (Germania), gli Stati Uniti potrebbero contrastare l’avanzata economica cinese grazie al minor costo dell’energia permesso dai gas naturali dei quali si trova ricca. Altri Stati, come quelli nord europei, proseguono, seppure con fatica, nel tentativo di conciliare mercato e diritti umani.
Questo per dire che la via per uscire dalla cosiddetta crisi – sbandierata in modo appassionato e sospetto ogni volta che si vogliono raggiungere risultati deleteri per i diritti del lavoro (vedi le recenti uscite di Passera e della Marcegaglia sulla necessità di portare velocemente a casa la “riforma” del lavoro, per non parlare della Foriero, tra una lacrimuccia e l’altra, che non ci dorme la notte) – non è una sola e non passa unicamente per i sacrifici imposti sempre e indiscriminatamente ai più deboli, mentre le cosiddette caste vedono assolutamente salvaguardati i propri scandalosi privilegi.
Questa scelta è una delle tante possibili ed è frutto di un precisa indirizzo politico, quello della destra liberista.
Vorrei, al proposito, fare qualche domanda al professor Monti, se fosse possibile: il suo governo tecnico, che lei immagina godere di largo consenso (di chi, se non è stato eletto dai cittadini?
O si riferisce a quel Parlamento che, a partire dal suo ridanciano predecessore, non solo non è stato capace né di individuare né di risolvere le difficoltà ma ha operato esclusivamente a favore di quegli interessi non proprio generali che ora non vuole mollare a nessun costo e rispetto al quale lei, mi scusi, pare particolarmente ossequioso?), il suo governo tecnico, dicevo, afferma di non potersi, proprio perché tecnico, occupare di questioni politiche come la giustizia e la Rai: ma può occuparsi di cambiare, in peggio, il presente e il futuro di milioni di lavoratori giovani e non più giovani?
Non è una scelta squisitamente politica questa, quella di privilegiare – sempre, ancora e ancora, maledizione – i potenti e i già ricchi a discapito di tutti gli altri?
Possibile che l’obbedienza ai mercati, cioè all’espressione più pura, ripetiamolo, dell’egoismo umano, vi renda ciechi al punto da non vedere il danno irreparabile che milioni di persone, vive ora e qui, stanno subendo e subiranno.
E’ illecito il sospetto che il Professore stia compiendo meglio, molto meglio, lo sporco lavoro di demolizione dello Stato sociale che il Caimano non è riuscito, per eccessiva ingordigia, a fare?
Davvero la colpa è dei diritti del lavoro e non dei pirati della finanza che speculano incuranti di disastri per i quali saranno altri a pagare?
Professore, lei dice che l’Italia si sta proponendo come modello all’Europa, vediamolo questo modello: maggiore precarietà del lavoro (cioè povertà istituzionalizzata), ammortizzatori sociali ridotti (cioè abbandono della marea, già ampiamente prevista, di licenziati al loro destino), pensionamento alle calende greche (cioè meno lavoro per i giovani e redditi più bassi e più tardi per i vecchi); ma anche una casta politica che non ha visto nemmeno scalfiti i propri privilegi ma anzi condiziona le sue scelte perché vadano in un’altra direzione, osceni stipendi d’oro (una decina di persone si portano a casa quasi 100 milioni di euro l’anno) e sprechi di cui non conosciamo neppure l’entità, servizi sociali e qualità della vita alla deriva, democrazia sospesa giacché un pool di tecnici decide sul destino di un popolo sempre più insofferente e disperato, liberismo selvaggio in piena azione e senza freni….
E’ questo il modello al quale l’Europa vuole adeguarsi?
Davvero pensa che la gente starà a guardare fino in fondo l’esito di questo sottile gioco al massacro?
Non siamo pedine per i suoi giochi economici, professore, non faccia, la prego, come i medici del Seicento che, ottusamente fiduciosi in strampalate regole della medicina, ammazzavano i loro pazienti nel massimo rispetto delle regole e colla massima serenità professionale.


1 commento:

  1. Non voglio essere massacrata , non voglio vedere il massacro.....non voglio.....


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