martedì 27 gennaio 2015

Considerazioni a margine dei fatti di Parigi

Considerazioni a margine dei fatti di Parigi

La crisi del maledetto sistema produttivo capitalistico presenta un ventaglio di barbarie sociali ed economiche che sembra non avere mai fine. La devastazione economica ha incrementato il parassitismo finanziario, la speculazione, effetti prima e causa poi di un sistema economico al collasso che stenta ad uscire dalle sue insanabili contraddizioni. Disoccupazione, precarietà lavorativa e sociale, pauperizzazione del proletariato, progressiva proletarizzazione dei ceti medi. Drastica contrazione dello stato sociale, contrazione delle pensioni, assalto al livello di vita di milioni di lavoratori e devastanti politiche dei sacrifici; il tutto in nome di una sempre latente ripresa economica, ovvero in nome della perpetuazione di un sistema sociale che, per sopravvivere, ha assoluto bisogno di infierire sul mondo del lavoro in termini di maggiore sfruttamento e di minore tutele a chi produce ricchezza per il capitale, per i suoi gestori e amministratori.
Da un punto di vista sociale, la crisi del capitalismo ha innescato una serie lunghissima di mostri ideologici funzionali all'uso della violenza, al perseguimento aggressivo dei propri interessi attraverso una serie di guerre che, al di là dei paludamenti strumentali, “presuntamente democratici” , religiosi o laici, dittatoriali o “populisti” appartengono a quella barbarie di cui il capitalismo si nutre pur di non soccombere a quelle contraddizioni che lui stesso ha posto in essere. Per usare una facile sintesi, la borghesia dell'occidente “cristiano e democratico” ha imperialisticamente aggredito il Medio oriente arabo e musulmano per il petrolio, con tutti gli annessi e connessi del caso. Sullo stesso terreno imperialistico, fatte le debite differenze di potenzialità finanziarie e militari, una parte del mondo islamico ha reagito. Nel mezzo la solita questione energetica, il petrolio, la rendita petrolifera, la mutevole struttura delle alleanze politiche e, all'occorrenza, la devastazione delle guerre interpretate in prima persona o per procura.
E' in questa cornice che vanno valutati i tragici episodi di Parigi. In gioco non c'è la libertà di espressione e nemmeno la facile condanna del terrorismo islamico, come se l'occidente ne fosse estraneo. Non dimentichiamo che, a suo tempo, i talebani prima e Al Qaeda poi, sono state creature degli Usa nella loro guerra contro l'imperialismo sovietico in Afghanistan. Lo stesso Stato Islamico, prima di prendere una strada autonoma, ha avuto finanziamenti, armi e coperture politiche dagli Usa, dall'Arabia saudita, dal Qatar, ovvero da quegli stessi stati che oggi lo combattono perché sfuggito al loro controllo e, potenzialmente, elemento di perturbazione dei loro interessi strategici. Ma di questo abbiamo parlato nel numero precedente di Battaglia comunista, ora ci preme mettere in evidenza un altro aspetto: l'atteggiamento delle forze politiche occidentali, con particolare riferimento a quelle italiane, nei confronti di ciò che è accaduto in Francia con i fatti di Parigi.
La destra ha immediatamente intonato i suoi tragici inni di morte. In Francia come in Germania e in Italia, ha colto la palla al balzo per riproporre la necessità della pena di morte. Oggi contro il terrorismo islamico, domani contro chiunque si ponga contro le “sacre” istituzioni della famiglia, di dio e della patria come da antica tradizione. Ha criminalizzato l'immigrazione facendo di ogni migrante un potenziale assassino. Ha fatto del colore della pelle l'indelebile marchio umano e sociale per chi deve essere escluso, rifiutato e condannato. La destra ha finalmente potuto issare le sue bandiere della xenofobia, del più volgare dei razzismi, dell'omofobia e di tutto quel bagaglio ideologico che qualche decennio fa, in una crisi forse meno virulenta di questa, è stato alla base della giustificazione della seconda guerra mondiale, di oltre cinquanta milioni di morti, del più infame olocausto che la storia ricordi.
Il mondo moderato, quello “democratico” ma altrettanto conservatore, ha giustamente gridato all'orrore del terrorismo islamista dimenticandosi, ovviamente, di quello ben più vasto del mondo occidentale e cristiano che, in nome dell'anti terrorismo e dell'esportazione della democrazia, ha dimostrato che, in quanto a barbarie, non accetta lezioni da nessuno. In questo recente frangente, pur operando il distinguo tra islamismo radicale e quello moderato, pur non criminalizzando più di tanto l'immigrazione, si stanno varando leggi che ne limitino l'agibilità, che aumentino il controllo in chiave di emergenza “Coulibaly” e, in prospettiva, che tamponino preventivamente ben altri “crimini” che possano mettere in discussione l'intero sistema, questa volta, però, sul terreno della lotta di classe. Nel frattempo la classe dirigente europea, di centro destra e di centro sinistra, ammesso che la distinzione abbia un senso, lavora al ricatto. In Italia, ad esempio, si promette il permesso di soggiorno non a chi fugga dalla fame, dalle guerre e dalla morte per sé e per i propri figli, ma a chi denunci i propri connazionali in odore di sospetto terrorismo.
La tragedia ideologica più patetica si insinua però tra le fila della cosiddetta sinistra, magari agghindata dagli aggettivi di comunista e di rivoluzionaria. Nei soliti ambienti del vecchio e del nuovo stalinismo dove si confonde la lotta di popolo con la lotta di classe, il terrorismo con la rivoluzione, l'estremismo religioso, reazionario e barbarico, con il radicalismo della lotta proletaria, molto spesso si dà credito a questi fenomeni di tragico fanatismo. E' pur vero che ciò ha una matrice sociale che allunga le sue radici nel disagio economico, ma è altrettanto vero che può diventare successivamente, se mal indirizzato, un cieco strumento nella mani dei falsi miti religiosi, di occulta ispirazione imperialistica e di palese inclinazione conservatrice e reazionaria. Da qui a sostenere politicamente i qaedisti e i seguaci del “califfo nero” e qualunque altra espressione del terrorismo islamista ce ne passa.
Le giustificazioni addotte per un appoggio più o meno incondizionato a simili azioni sono essenzialmente due. La prima è che questi movimenti, le loro espressioni militari, sia individuali che di consistenti gruppi, sarebbero espressione di una coscienza politica antimperialista e pertanto doverosamente sostenibili in tutto e per tutto. Lor signori dimenticano però che l'antimperialismo ha come condizione necessaria la lotta ai rapporti di produzione capitalistici, o è anticapitalismo o, altrimenti, non è antimperialismo. Confondono la lotta di organizzazioni in mano alle più feroci frange borghesi per una lotta di classe che, in realtà, non ancora si esprime e che queste pratiche politiche concorrono a non farla mai nascere. Consentono che il singolo episodio di terrorismo, che non scalfisce minimamente l'impianto della società capitalistica, finisca per essere solo un efficace strumento nella mani della conservazione economica e della repressione politica. Sotto qualsiasi latitudine politica o è la classe, organizzata nel suo partito, con una strategia autonoma e una adeguata tattica che prende nelle sue mani il proprio destino, e allora l'anticapitalismo diventa l'episodio fondamentale dell'antimperialismo, oppure il suo destino sarà nelle mani di questa o quella frangia borghese in veste laica, religiosa moderata o religiosa radicale, per obiettivi che non solo non le appartengono ma che sono un supporto determinante per il suo avversario di classe.
La seconda giustificazione, vera e propria buffonata, suona nei termini di un improbabile sillogismo: “Il nemico del mio nemico è il mio amico”. Scomposto in termini semplici, il sillogismo suonerebbe così: se il “califfo nero”, se il neo-nato Stato Islamico combattono l'imperialismo americano e saudita che sono i nostri nemici, diventano automaticamente i nostri amici, quindi alleati. In questo caso all'aberrazione politica si somma la stupidità. Intanto va immediatamente chiarito che il progetto di costruzione di un nuovo Califfato, sulla scorta storica e geografica di quello ottomano, prevede l'annessione di tutti quegli Stati che oggi vivono sulla rendita petrolifera e che un domani sarebbero eliminati per dare spazio all'ambizioso programma di un nuovo imperialismo petrolifero e finanziario non diverso da quelli esistenti. Poi va ribadito che un simile progetto non ha nulla a che vedere con l'emancipazione dei proletari dell'area in questione, anzi, ne sarebbe la sua negazione. Infine va aggiunto che non solo non si possono cercare alleati antimperialisti tra gli imperialismi già costituiti o costituendi, e che il nemico del nostro nemico è lui stesso un nemico, a volte ancora più pericoloso. Va anche sottolineato che tutti i movimenti, tutte le organizzazioni che si richiamano all'integralismo islamico, hanno all'interno del loro statuto la “fobia” del comunismo, il rifiuto di qualsiasi accettazione della lotta di classe perché contrari al Corano, ma soprattutto perché contrari al loro progetto borghese, capitalistico e imperialista. Per il nuovo Califfato, oltre alla bandiera nera di Al Baghdadi, a quella verde dell'islam, garrisce quella del più feroce anticomunismo. Dare credito a queste fandonie, fare di queste “tattiche”politiche il nuovo credo strategico da indicare alle masse proletarie occidentali e dell'area in questione sarebbe come mettere la classica volpe a guardia del pollaio.

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