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Scetticismo e comunismo
Una delle
ragioni del diffuso scetticismo nei confronti del comunismo è
l'incapacità di immaginare una società diversa dalla nostra. Ci
sono, è vero, movimenti cosiddetti alternativi, che presentano
programmi che pretendono di combattere il mercato, il consumismo, lo
sviluppo senza fine. Ma, a ben guardare, si vede che queste presunti
progetti anticapitalistici contemplano la piccola proprietà privata,
la moneta, il salariato, il profitto, le banche “etiche”, il
profitto “equo e solidale”, e così via. Vogliono eliminare il
capitalismo lasciando intatte le sue categorie. E' come pretendere
di superare il feudalesimo lasciando intatti maggiorascato,
erbatico, servitù della gleba, corvées, jus primae noctis...
Era più facile
prendere le distanze dal capitalismo nell'Ottocento, quando i forti
residui feudali o di un'economia mercantile semplice offrivano
termini di paragone; la consapevolezza degli sviluppi storici
passati rendeva più comprensibile il carattere storicamente
transitorio di ogni sistema economico sociale.
Ogni società
può vivere e progredire grazie alla presenza di un lavoro passato
accumulato (macchinari, materie prime, semilavorati...) e del lavoro
presente immediato, che impedisce al lavoro passato di andare
perduto per il mancato uso, e crea nuova ricchezza. Il lavoro
degli operai, ad esempio, impedisce alle macchine di andare alla
malora, e crea nuovi prodotti. Gli economisti borghesi, proiettando
abusivamente le condizioni della nostra società nel passato e nel
futuro, chiamano sempre e comunque questo lavoro morto “capitale”,
estendendo tale denominazione persino al più modesto aratro di legno
dell'antichità. Macchine e materie prime sono capitale soltanto in
un preciso contesto sociale. Il telaio con cui un tempo le donne
tessevano i panni esclusivamente per la famiglia era una macchina,
ma non capitale, perché non operava per il profitto.
In altri
sistemi economico-sociali il lavoro vivente era dominante, e si
serviva del lavoro morto per una nuova produzione. Società
tecnicamente non molto avanzate, ad esempio gli Incas, con la
canalizzazione delle acque e la creazione di grandi depositi di mais
riuscivano a provvedere ai bisogni essenziali della popolazione,
mentre il capitalismo, pur dotato di tecniche avanzatissime, non è
in grado di farlo e affama strati ingenti della popolazione
mondiale. I Sumeri controllavano razionalmente le acque, mentre il
capitalismo, pur disponendo di mezzi pressoché illimitati, non fa
nulla per evitare le alluvioni e ci guadagna pure con la
ricostruzione.
Questo perché
nel capitalismo il rapporto è capovolto, c'è il dominio del lavoro
accumulato sul lavoro vivente, che serve come mezzo per accrescere
il valore del lavoro morto. Lo scopo di una fabbrica capitalistica
non è soddisfare le esigenze del consumatore o dare lavoro agli
operai, ma ricavare profitto. Se questo non si ottiene, i capitali
sono trasferiti altrove, con buona pace di operai e consumatori.
Macchine modernissime, tesori di competenza tecnica vanno sprecati.
Il capitalismo non è l'economia dei consumi, ma quella dello spreco.
Il capitalismo
è possibile perché una parte crescente della società, che non
possiede alcun mezzo di produzione, il proletariato, è costretta a
vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario. Il
capitalista è lo strumento umano di questo sfruttamento, ha grandi
privilegi, ma non può cambiare le regole. O accentua sempre più lo
sfruttamento o fallisce.
Il dominio del
lavoro morto sul lavoro vivente spiega perché è un'illusione il
capitalismo dal volto umano. L'uomo è l'accessorio della macchina,
non viceversa. Lo stesso wellfare non è altro che un indoramento
delle catene per i lavoratori, che non hanno scelta: o accettano di
sottomettersi ai diktat del capitale o scelgono la fame.
Il proletario
lavora quando il capitalista glielo permette, e accresce il capitale
logorando i propri muscoli, le proprie ossa, i propri nervi.
Dal punto di
vista economico il proletariato è spesso sconfitto. Nelle lotte
sindacali, il capitalista può di solito resistere più di lui, ma
nelle lotte politiche, in certe occasioni storiche, i lavoratori si
possono prendere la rivincita, anche se i risultati sono provvisori.
Ad esempio, quando le lotte hanno imposto agli stati di fissare per
legge precisi limiti agli orari di lavoro, di combattere la nocività
in fabbrica, d'impedire il licenziamento delle donne incinte, e così
via. Queste conquiste politiche sono perdute ogni volta che i
lavoratori abbassano la guardia.
E' possibile
una vittoria definitiva, un nuovo ribaltamento col ritorno del
dominio del lavoro vivo? Sì, ma non certo col ritorno del piccolo
contadino, proprietario dei propri modesti mezzi di produzione
(terra, strumenti, masserizie...) o dell'artigiano, infinitamente
meno produttivi della fabbrica o della fattoria capitalistiche. E'
possibile, espropriando i capitalisti, gestire sul piano collettivo
le grandi fabbriche e la grande agricoltura, indirizzandole non più
alla ricerca del profitto ma alle necessità della popolazione.
Eliminazione,
dunque, delle produzioni inutili o dannose, incrementando quei
prodotti che soddisfano i bisogni essenziali, fine della
speculazione edilizia e riconversione dei terreni all'orticultura,
fine della sofisticazione dei cibi, sostituzione del traffico
caotico e inquinante con trasporti pubblici, ecc.
Finché la
rivolta proletaria non lo avrà distrutto, il capitalismo continuerà
ad avvelenare l'aria, a distruggere i campi, a sporcare fiumi e
mari, a sterminare migliaia di specie animali, ad affamare interi
popoli, a trascinare le nazioni in guerre, a trasformare in un
inferno la vita nelle città, a condannare all'isolamento e al
sottosviluppo chi vive in campagna.
Chi non ha
capito tutto questo si limita a battaglie settoriali (per
l'ambiente, per la scuola, contro la corruzione...) senza cercare di
collegarle fra loro e individuare la matrice unica del presente
sfascio, la “Auri sacra fames “, la ricerca ossessiva di plusvalore
del capitale.
Michele Basso
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