Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere
dei governi. “Salus populi suprema lex est”, oppure “necessitas legem
non habent”: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da
uno stato normale, in cui il potere
è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Lo stato
di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre
limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il
18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio Ifop erano
pronti ad “accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di
limitazione della propria libertà”. Si assiste dunque a una curiosa
forma di accettazione democratica della restrizione della libertà
democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti. Primo
elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà
è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore
degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni.
Questo
non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura
qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più
possibile la nostra emotività e riportare un’analisi fredda e razionale
della realtà della situazione. In simili frangenti il potere
cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per
riuscire ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero
inaccettabili. George Bush è stato il campione dell’abuso di questo
meccanismo. Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio
di salvaguardia dello Stato o della società di fronte al pericolo con
una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi speciali è
giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con
velocità, da quel riflesso istintivo che è la legittima difesa. È così
che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste leggi non
hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una
minaccia che non è da meno. Passato il momento di estremo pericolo,
bisogna tornare alla legalità “normale”, a costo di adottare misure
inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a
costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra
sicurezza e libertà.
Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere
erode le libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare
le minacce come anche per difendere i propri spazi di libertà. Questa
tendenza a dare al potere una delega in bianco è stata molto forte nel 1961 in Francia,
quando Charles De Gaulle venne accolto come un “salvatore”, ma oggi
sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge
del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte
relativa al controllo delle radio e dei giornali. Se la legislazione
d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di
urgenza? Il presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul
momento ha invocato la proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la
“ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto una revisione della
Costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità
allo Stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra».
La proroga di tre mesi non significa che lo stato di urgenza sarà
mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il presidente
porre fine a questa misura. Addirittura è anche possibile che sia un
giudice a imporre la fine allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che
le condizioni per la sua dichiarazione non sussistessero più e il
presidente non accennasse a voler sopprimere la misura.
La
ripulitura della legge del 1955 è un’altra cosa: non è mai molto saggio
legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio assolutamente
necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e
alle perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito
sull’argomento? Era davvero imperativo, come è successo, offrire in
cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo pubblico sui media?
Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla
legge in un secondo momento. Come può il diritto assumersi il compito
di risolvere la questione del terrorismo senza passare per leggi
speciali? Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici
del terrorismo jihadista. Questi soggetti non son né delinquenti né
“classici” combattenti armati. Non sono delinquenti perché non temono la
morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i
loro fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte:
il ladro vuole godere del bene che ha rubato, il violentatore intende
continuare violentare. Questi sono i crimini che la società combatte, e
ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o
l’ergastolo per i crimini più gravi.
L’intero
sistema penale della modernità riposa sulla logica secondo la quale la
pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della
repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la
morte, e che addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora
tutto il sistema repressivo moderno ad andare in crisi,
e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il
trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere
alla tentazione di costituire una sorta di super diritto penale, che
Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del nemico. D’altra parte i
terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici.
Quest’ultima categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul
diritto di guerra
che, pur riconoscendo ad alcuni soggetti il diritto di uccidere
limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono comunque tali soggetti
a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà:
non prendersela con persone disarmate, ricorrere all’uso della forza in
maniera proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e
trattarli degnamente.
Il
terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal
momento che spara sulla gente disarmata, che giustizia persone in
ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa vigliaccamente
esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto.
Inutile quindi provare a usare il modello del combattente per capire il
terrorismo jihadista, come fa chi ricorre alla categoria di “combattente
illegale” inventata dai vari Patriot Act del 2001. In poche parole, non
serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con
la sua gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra
(anch’esso limitato da norme molto precise) che la modernità ha
lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le democrazie
contemporanee. Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della
costruzione “ex nihilo” di una tipologia specifica di diritto
applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si
inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale
dall’altra. Ciò presuppone tuttavia la necessità di identificare con i
criteri il più precisi possibile quei jihadisti che nutrono odio per la
modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande,
catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo,
com’è capitato negli Stati Uniti dopo il 2001.
Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere:
una vigilanza da parte della magistratura sulle amministrazioni e una
società civile attenta, attraverso la stampa, le associazioni di difesa
dei diritti
fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così via. Ai
terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano
le garanzie procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si
mettono tra parentesi le libertà fondamentali, infatti, e maggiore
controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha
l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che
un innocente in prigione: anche se è difficile, dobbiamo continuare a
pensarla così. Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla
nazionalità. Privare un individuo del suo passaporto francese non avrà
alcun impatto su una persona che odia già la Francia
e che non si considera cittadino francese. Perché adottare la
prospettiva dei “buoni” e dei “cattivi” francesi? È una scappatoia miope
che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il proprio
nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di “deradicalizzazione”.
In
compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus,
cioè dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se
questi non ha commesso un reato. E con essa va posta di nuovo la
questione della privacy, ovvero della possibilità di sorvegliare un
individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria
sensibile stabilita. Dal 1945 il livello di protezione delle nostre
libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le minacce diminuivano
sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A
un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione
sarebbe rimasto immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la
protezione giuridica delle libertà non potesse far altro che progredire
con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà hanno un
prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro.
Il sistema giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di
natura, descritto come condizione in cui l’insicurezza è insopportabile,
e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la sicurezza
degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso
arbitrario della forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti
fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e libertà è necessariamente
oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è
legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si
eviti tanto il ricorso all’emotività che gli appelli all’autorità,
rinnovando invece quelli alla razionalità.
(François
Saint-Bonnet, dichiarazioni rilasciate a Florent Guenard per
l’intervista “Stato d’eccezione contro il terrorismo?”, pubblicata da
“La vie des idées” e ripresa da “Micromega” il 2 dicembre 2015. François
Saint-Bonnet è professore di storia del diritto all’università
Panthéon-Assas, Paris II. Specialista del diritto dei periodi di crisi, lavora anche sulla storia delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali. È autore di “L’état d’exception” e di “Histoire des institutions avant 1789”).
Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere
dei governi. “Salus populi suprema lex est”, oppure “necessitas legem
non habent”: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da
uno stato normale, in cui il potere
è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Lo stato
di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre
limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il
18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio Ifop erano
pronti ad “accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di
limitazione della propria libertà”. Si assiste dunque a una curiosa
forma di accettazione democratica della restrizione della libertà
democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti. Primo
elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà
è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore
degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni.Questo non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più possibile la nostra emotività e riportare un’analisi fredda e razionale della realtà della situazione. In simili frangenti il potere cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per riuscire ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero inaccettabili. George Bush è stato il campione dell’abuso di
questo meccanismo. Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio di salvaguardia dello Stato o della società di fronte al pericolo con una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi speciali è giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con velocità, da quel riflesso istintivo che è la legittima difesa. È così che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste leggi non hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una minaccia che non è da meno. Passato il momento di estremo pericolo, bisogna tornare alla legalità “normale”, a costo di adottare misure inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra sicurezza e libertà.
Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere erode le libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare le minacce come anche per difendere i propri spazi di libertà. Questa tendenza a dare al potere una delega in bianco è stata molto forte nel 1961 in Francia, quando Charles De Gaulle venne accolto come un “salvatore”, ma oggi sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte relativa al controllo delle radio e dei giornali. Se la legislazione d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di urgenza? Il presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul momento ha invocato la proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la “ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto una revisione della Costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità allo Stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra». La proroga di tre mesi non significa che lo stato di urgenza sarà mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il presidente porre fine a questa misura. Addirittura è anche possibile che sia un giudice a imporre la fine allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che le condizioni per la sua dichiarazione non sussistessero più e il presidente non accennasse a voler sopprimere la misura.
La ripulitura della legge del 1955 è un’altra cosa: non è mai molto saggio legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio assolutamente necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e alle perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito sull’argomento? Era davvero imperativo, come è successo, offrire in cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo pubblico sui media? Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla legge in un secondo momento. Come può il diritto assumersi il compito di risolvere la questione del terrorismo senza passare per leggi speciali? Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici del terrorismo jihadista. Questi soggetti non son né delinquenti né “classici” combattenti armati. Non sono delinquenti perché non temono la morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i loro fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte: il ladro vuole godere del bene che ha rubato, il violentatore intende continuare violentare. Questi sono i crimini che la società combatte, e ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o l’ergastolo per i crimini più gravi.
L’intero sistema penale della modernità riposa sulla logica secondo la quale la pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la morte, e che addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora tutto il sistema repressivo moderno ad andare in crisi, e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere alla tentazione di costituire una sorta di super diritto penale, che Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del nemico. D’altra parte i terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici. Quest’ultima categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul diritto di guerra che, pur riconoscendo ad alcuni soggetti il diritto di uccidere limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono comunque tali soggetti a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà: non prendersela con persone disarmate, ricorrere all’uso della forza in maniera proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e trattarli degnamente.
Il terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal momento che spara sulla gente disarmata, che giustizia persone in ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa vigliaccamente esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto. Inutile quindi provare a usare il modello del combattente per capire il terrorismo jihadista, come fa chi ricorre alla categoria di “combattente illegale” inventata dai vari Patriot Act del 2001. In poche parole, non serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con la sua gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra (anch’esso limitato da norme molto precise) che la modernità ha lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le democrazie contemporanee. Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della costruzione “ex nihilo” di una tipologia specifica di diritto applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale dall’altra. Ciò presuppone tuttavia la necessità di identificare con i criteri il più precisi possibile quei jihadisti che nutrono odio per la modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande, catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo, com’è capitato negli Stati Uniti dopo il 2001.
Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere: una vigilanza da parte della magistratura sulle amministrazioni e una società civile attenta, attraverso la stampa, le associazioni di difesa dei diritti fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così via. Ai terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano le garanzie procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si mettono tra parentesi le libertà fondamentali, infatti, e maggiore controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in prigione: anche se è difficile, dobbiamo continuare a pensarla così. Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla nazionalità. Privare un individuo del suo passaporto francese non avrà alcun impatto su una persona che odia già la Francia e che non si considera cittadino francese. Perché adottare la prospettiva dei “buoni” e dei “cattivi” francesi? È una scappatoia miope che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il proprio nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di “deradicalizzazione”.
In compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus, cioè dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se questi non ha commesso un reato. E con essa va posta di nuovo la questione della privacy, ovvero della possibilità di sorvegliare un individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria sensibile stabilita. Dal 1945 il livello di protezione delle nostre libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le minacce diminuivano sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione sarebbe rimasto immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la protezione giuridica delle libertà non potesse far altro che progredire con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà hanno un prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro. Il sistema giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di natura, descritto come condizione in cui l’insicurezza è insopportabile, e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la sicurezza degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso arbitrario della forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e libertà è necessariamente oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si eviti tanto il ricorso all’emotività che gli appelli all’autorità, rinnovando invece quelli alla razionalità.
(François Saint-Bonnet, dichiarazioni rilasciate a Florent Guenard per l’intervista “Stato d’eccezione contro il terrorismo?”, pubblicata da “La vie des idées” e ripresa da “Micromega” il 2 dicembre 2015. François Saint-Bonnet è professore di storia del diritto all’università Panthéon-Assas, Paris II. Specialista del diritto dei periodi di crisi, lavora anche sulla storia delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali. È autore di “L’état d’exception” e di “Histoire des institutions avant 1789”).
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